Sto diventando calvo. Una nota di Matteo Bussola

Creato il 22 settembre 2014 da Pupidizuccaro

Matteo Bussola. Segnatevi questo nome, perché siamo sicuri che presto ne sentirete parlare al di là del mondo delle nuvole parlanti di cui Matteo è già un valente esponente. Dopo il tramonto dei blog, il Bussola ha preso ad aggiornare la sua pagina facebook con note via via più dense che ti conquistano con il loro stile piano e concreto. Che sa di buono, come il vin cotto quando soffia il vento di neve o il pane appena scaldato nel forno a legna. Quella di oggi è solo uno dei tanti esempi. Chiedegli l’amicizia nel regno dei pollici alzati, non ve ne pentirete. 

Sto diventando calvo.

Ormai è un fatto. In realtà, è un processo che è in corso da parecchi anni, più o meno da quando ne avevo ventuno.

Dato che fino a un lustro fa avevo capelli lunghissimi e lisci, come quelli di Daniel Day Lewis ne “L’ultimo dei mohicani”, potete ben capire che è (stato) un processo graduale. Ma ormai, ci siamo. Quando dietro ti compare un principio di “piazzetta”, significa che hai finito.

La cosa bella è che non me frega niente.

In passato, lo ammetto, me ne sono fatto un cruccio. Ho affrontato varie *terapie* nel corso degli anni. Non che stessi tecnicamente diventando calvo già allora, ma notavo la stempiatura che arretrava, i capelli che si assottigliavano, e vivevo la cosa come una profonda ingiustizia alla quale non intendevo rassegnarmi senza combattere.

Ne ricordo una in particolare, fatta nella seconda metà degli anni novanta. Si chiamava: “Rigenera”. Credo che oggi la usino per curare la cellulite nelle donne, immagino senza esiti nemmeno lì. Funzionava col principio della vacuum terapia. Nella pratica, mi venivano applicate delle pompette in testa che si incollavano al cuoio capelluto come ventose. Queste ultime, erano collegate a un macchinario che “richiamava” il sangue, riattivando la circolazione periferica del bulbo. Una specie di succhiotto sulla testa, via. Non servì a un cazzo, a parte a farmi girare con dei bozzi rossi che duravano cinque giorni – e la terapia era settimanale, perciò. In compenso, mi fece venire la forfora.

Con l’esordio del nuovo millennio, caddi anch’io nel tunnel degli shampoo fortificanti, le lozioni e tutto il resto, ma il risultato fu solo che mi aggiravo per il mondo con lo scalpo perennemente profumino alle essenze più esotiche. Il sabato sera, quando uscivo, pareva sempre avessi appena abbracciato Moira Orfei.

Quattro o cinque anni fa, ho tentato l’ultima con il Proscar a base di finasteride, di cui si dicevano mirabilie. “Funziona sul 90% degli uomini, mentre nel rimanente 10% non sortisce alcun effetto”, diceva il bugiardino. Però come effetti collaterali potevano esserci – così stava scritto – “un aumento delle dimensioni delle ghiandole mammarie” (ce le hanno pure gli uomini, sì).

Riassumendo: sui capelli non funzionò ma mi vennero le tette. Furono sei mesi interessanti.

Il fatto che oggi non m’importi più, vorrei essere chiaro su questo, non è relativo all’Effetto Ragioniere.

L’Effetto Ragioniere è quella sindrome che colpisce tutti i maschi adulti che stanno con una donna da più di sette anni, specie se convivono sotto lo stesso tetto (se hanno pure figli, poi), in base alla quale: ci si aggira per casa in boxer bucati, barba da boscaiolo, ascelle da maratoneta e i pantaloni della tuta con l’elastico rotto. Insomma, il corrispettivo della donna coi peli lunghi e la vestaglia e i calzettoni arancio e le mutandone della nonna. Quel che voglio dire è che la mia serenità pilifera non dipende in alcun modo dall’essermi “sistemato”. Non c’è dietro alcun “tanto ormai”. È una cosa completamente diversa.

Dipende dal fatto che, nella vita di ogni uomo, ci sono due fasi distinte più o meno nettamente. Dico più o meno perché, in realtà, le due fasi spesso convivono in tutto o in parte, addirittura si ibridano, in certi casi si alimentano a vicenda.

La seconda fase inizia a penetrare lentamente nella prima come muffa sull’intonaco – o una crepa su una corteccia d’albero, se vi pare più poetico – ma vado qui a semplificare.

La prima fase è quella dell’Accumulo.

Dove si tenta sostanzialmente di capire il proprio posto nel mondo. Si ricerca, ci si danna, si sperimenta, si commettono pure gli errori più clamorosi che, nel bene e nel male, costituiranno le fondamenta sulle quali ci innalzeremo.

La seconda fase è quella della Perdita.

Quando si inizia a vivere una lenta erosione. Si cominciano a percepire i primi segnali della vecchiaia. D’un tratto, si diviene pienamente consapevoli del tempo che scorre e i piccoli acciacchi, le rughe, le stempiature che avanzano, insomma ogni segno di decadenza ci rende simili a un edificio che va lentamente in rovina, svelando un po’ per volta la propria *struttura*.

La metafora architettonica non è casuale. Credo infatti che la qualità della struttura di un uomo, il suo sistema portante, ciò che lo tiene in piedi – dunque la sua *verità* – si intuiscano proprio da quello svelamento. Da quel che gli anni gli tolgono, da ciò che lasciano lentamente intravvedere, come attraverso le tegole di un tetto. Dalla maniera che avrà di sopravvivere – non come sopravvissuto, come sopravvivente – agli accadimenti della vita che lentamente lo spogliano e talvolta lo trafiggono.

Ecco, io oggi mi sento al principio di questa fase qui. Anche se per molti versi sono ancora nella precedente scarpe e tutto, non fosse altro che per il fatto che la mia carriera di fumettaro – essendo cominciata a 35 anni suonati – la considero ancora sostanzialmente agli esordi, almeno se confrontata a quella dei Maestri di cui mi pregio di essere collega e amico. Oppure perché ho una bambina ancora molto piccola e trent’anni di mutuo davanti e quando mi taglio la barba sembro ancora mio figlio. Cose così.

In questa fase, dicevo, non te ne frega più niente delle tegole del tetto. Accetti pure la pioggia e quel che viene, che ormai qualche temporale l’hai visto e sai che resterai in piedi uguale. Potrei dire che è l’enorme differenza che passa tra la rassegnazione e la consapevolezza. Anche se mi rendo conto che il parallelismo potrà sembrare avventuroso.

Come dire: un po’ tirato per i capelli.

Quelli che restano, si capisce.


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