Il giorno del suo diciottesimo compleanno, India Stoker perde il padre, ucciso da uno zio mai visto prima, Charlie, che si stabilisce a casa sua e ammalia la bella moglie vedova. Un Amleto al femminile, quindi. Non ci sono re e regine, ma il succo è quello. Il problema è che poi, con fare subdolo ed inevitabile, Charlie seduce non solo la madre, ma anche la figlia. Anzi, è la figlia la sua vera preda. Non è forse una Lolita kubrickiana dove la parte del seduttore passa dalla giovane ragazza all’uomo adulto? Ma lo zio Charlie e India nascondono uno stesso destino, una stessa follia da tenere bene a bada, perché una volta sfuggita di mano, conduce ad esiti sanguinari. E tutta questa storia non ricorda forse un film di Hitchcock? Sì, è proprio così: L’ombra del dubbio, 1943.
Per il suo primo film di produzione americana, Park Chan-wook elabora la summa del suo pensiero e della sua formazione: l’amore per il maestro del brivido conosciuto ai tempi del liceo con La donna che visse due volte, il raffinato gusto estetico appreso all’Università di Seoul, l’indagine psico-filosofica imparata all’Università cattolica di Sogan. Con l’aggiunta di un pizzico di Freud.
Insomma, Stoker è un’opera fortemente citazionista che, pescando qua e là, allo stesso tempo lascia riconoscibile l’origine ed propone una via assolutamente personale, originale, autonoma. Stoker è perfetto in ogni dettaglio, come un film d’altri tempi, ma con una propensione all’inquieto tipicamente moderna. Una perfezione che solo il cinema coreano, e in particolare il cinema del maestro (perché oramai è di questo che parliamo!) Park Chan-wook, poteva regalarci.
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