Stoker, Hitchcock in salsa coreana

Creato il 25 settembre 2014 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

C’è qualcosa di Amleto, qualcosa di Lolita e qualcosa di Hitchcock in Stoker di  Park Chan-wook. Ma c’è anche il più grande regista coreano, un montaggio e una fotografia da brividi, quel gusto morboso e sacro per il sangue che solo i coreani hanno. Risultato finale: Stoker è un film estremamente seducente, enigmatico, che conquista il lato psicotico di ogni spettatore.

Il giorno del suo diciottesimo compleanno, India Stoker perde il padre, ucciso da uno zio mai visto prima, Charlie, che si stabilisce a casa sua e ammalia la bella moglie vedova. Un Amleto al femminile, quindi. Non ci sono re e regine, ma il succo è quello. Il problema è che poi, con fare subdolo ed inevitabile, Charlie seduce non solo la madre, ma anche la figlia. Anzi, è la figlia la sua vera preda. Non è forse una Lolita kubrickiana dove la parte del seduttore passa dalla giovane ragazza all’uomo adulto? Ma lo zio Charlie e India nascondono uno stesso destino, una stessa follia da tenere bene a bada, perché una volta sfuggita di mano, conduce ad esiti sanguinari. E tutta questa storia non ricorda forse un film di Hitchcock? Sì, è proprio così: L’ombra del dubbio, 1943.

Per il suo primo film di produzione americana, Park Chan-wook elabora la summa del suo pensiero e della sua formazione: l’amore per il maestro del brivido conosciuto ai tempi del liceo con La donna che visse due volte, il raffinato gusto estetico appreso all’Università di Seoul, l’indagine psico-filosofica imparata all’Università cattolica di Sogan. Con l’aggiunta di un pizzico di Freud.

La Kidman ha qualcosa di The Others, Matthew Goode qualcosa della scintillante pazzia del Norman/Anthony Perkins di Psycho (1960). E forse è proprio quest’ultimo il riferimento più evidente, come dimostra la struttura della casa con scale che conducono al primo piano e i pennuti impagliati appesi nelle stanze, ma soprattutto la soggettiva finale della protagonista sul volto dello sceriffo/agente stradale con occhiali specchiati.

Insomma, Stoker è un’opera fortemente citazionista che, pescando qua e là, allo stesso tempo lascia riconoscibile l’origine ed propone una via assolutamente personale, originale, autonoma. Stoker è perfetto in ogni dettaglio, come un film d’altri tempi, ma con una propensione all’inquieto tipicamente moderna. Una perfezione che solo il cinema coreano, e in particolare il cinema del maestro (perché oramai è di questo che parliamo!) Park Chan-wook, poteva regalarci.

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