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di Giuseppe Panella
Lettere dal passato. Antonio Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta, Milano, Feltrinelli, 2009
Il Tempo sembra essere il vero nemico da sconfiggere per Antonio Tabucchi in questa fase della sua storia letteraria. Tutte le sue opere dell’ultimo periodo si accaniscono nel ritrovare e nel descrivere il percorso che conduce al tempo reale della vita mediante il ricorso a una dimensione memoriale faticosamente percepita e raggiunta. La memoria vince il tempo e lo ritrova, alla fine.
La volontà di spiegare il corso effettivo della propria vita spinge a ricordarla e, quindi, a riscattarla.
Il tempo, la memoria, il senso della vita: tutte queste prospezioni e cadenze dell’Io scandiscono i diversi momenti delle narrazioni di Tabucchi fino a divenire il suo tema principale, la sua precipua “metafora ossessiva” (per dirla con Charles Mauron).
Già Si sta facendo sempre più tardi (Milano, Feltrinelli, 2001), romanzo epistolare ambientato in tanti luoghi d’Europa da farne un vero e proprio Grand Tour della memoria possibile, l’argomento principe delle diciassette lettere è il ricordo e la necessità di dargli sostanza e verità.
«Mia Donna cara, vorrei proprio scriverti una lettera, un giorno, una lettera totale, una lettera vera e totale, ci penso, e penso come essa sarebbe se te la scrivessi: sarebbe scritta con parole semplici e ricorrenti, diventate usate da quante persone le hanno dette e quasi ingenue, seppure frementi della passione di un tempo…» (è la Lettera da scrivere).
Le lettere che dovrebbero spiegare il tempo trascorso non fanno altro che fermarlo, spegnerlo, possederlo come l’ultima cosa rimasta a chi non sa più che farsene della vita.
Anche Tristano muore (Milano, Feltrinelli, 2004) è fatto di ricordi spessi e frantumati come massi staccatasi da una montagna o mattoni non combusti sopravvissuti ad un incendio divampato nella notte. La dichiarazione di poetica che la divide come a metà di un percorso compiuto un po’ con il fiato mozzo recepisce e consolida quel senso di delusione nei confronti delle virtù taumaturgiche della scrittura che Tabucchi continua a sentire come sforzo inutile, inane ma pur sempre necessario:
«Ferruccio diceva che voi scrittori vi vedete sempre in una luce futura, come postumi, e pensavo al meccanismo che hai messo in moto quando mi hai raccontato in prima persona, come se Tristano fossi tu… mi avevi già affidato al futuro, come una lapide, e ti ci vedevi specchiato, perché quella lapide ti rimandava la tua immagine come pensavi sarebbe stata per i posteri… E invece quell’immagine te la sto cambiando sotto il naso, anzi, è a testa all’ingiù e a gambe all’insù, come negli specchi dei padiglioni delle fiere… Mi dispiace per te, ma non so cosa ti aspettavi venendo a trovarmi, io non sono qui per confermare… al contrario… mai fidarsi degli specchi, lì per lì sembra che riflettano la tua immagine, e invece te la stravolgono, o peggio, la assorbono, si bevono tutto, risucchiano anche te… Gli specchi sono porosi, scrittore, e tu non lo sapevi» (p. 55).
Anche il Tempo è poroso e pure rugoso per giunta; come gli specchi, il momento della memoria stravolge la consuetudine e la vulgata, ciò che viene tramandato e anche ciò che è stato per davvero (la vicenda-limite di Tristano ne sarà l’inarrestabile e pur tuttavia insopportabile conferma finale).
Ciò che sembrava la verità conclamata e ormai già stabilita per via ufficiale diventerà il suo opposto (e neppure tanto credibile) contraltare nella storia ricostruita tramite ricordo e sottrazione di memoria. Ciò che Tristano è stato veramente, in fondo, neppure Tristano stesso sarà in grado di dire per davvero…
Nell’ultima raccolta di racconti, Il tempo invecchia in fretta (Milano, Feltrinelli, 2009), le nove storie che lo costituiscono richiamano tutte gli stessi temi presenti nei libri precedenti, anche se in tono assai più intimistico e certo meno epico (che in Tristano muore, ad esempio).
Sparso attraverso tutta l’Europa alla ricerca di verità da verificare, il Narratore stende la propria voce su un mondo che è morto o sta per morire o non vivrà più a lungo.
Lo ammette anche la protagonista di Il cerchio, il racconto che apre la raccolta:
«Dal nulla, quel sentimento proveniva dal nulla, come il suo ricordo che non era un vero ricordo ma il ricordo di un racconto, e non era ancora un sentimento, era un’emozione e in fondo neppure emozione, erano solo immagini che la sua fantasia aveva costruito da bambina ascoltando ricordi altrui, ma di quel luogo remoto e immaginario si era poi dimenticata, e questo la stupì. Perché quei luoghi di sabbia di cui le aveva parlato sua madre quando era bambina erano rimasti sepolti nella sabbia della sua memoria? I Grands Boulevards, questa era la geografia che apparteneva alla sua memoria, i grandi viali di Parigi dove suo padre aveva un elegante studio di notaio con carta fiorita alle pareti e le poltrone di cuoio, suo padre, noto avvocato di un grande studio parigino. Al piano sopra lo studio c’era l’appartamento dove era cresciuta, un appartamento con finestre altissime e cornici di stucco, un edificio voluto da Haussmann, in casa avevano detto sempre così: è un edificio di Haussmann, e Haussmann era Haussmann, punto e basta, ma cosa c’entrava Haussmann con quello che era lei?» (pp. 15-16).
Anche il ricordo può ingannare e condurre la mente verso itinerari e latitudini improvvise, mai incontrate, mai conosciute se non mediante la capacità di immaginarle e crederle vere come se fossero state sempre e comunque ricordate da generazioni diverse e incrociatesi, intrecciate appunto nella e dalla memoria di sempre e di tutti. Eppure è tutto quello che resta a chi vuole trovare ancora in sé e nella propria esistenza una ragione per vivere e per morire in pace. E’ quel che succede al protagonista dell’ultimo racconto, Controtempo, forse il più bello dei nove testi narrativi, che – come il Monsieur Klein dell’omonimo film di Joseph Losey e Franco Solinas – raggiunge il luogo che ha inventato lui stesso in una notte d’insonnia per vivere un’esperienza che, fino ad allora, aveva delegato a un suo personaggio. E così il Narratore vola verso Creta per ritrovare il luogo sognato, quel Monastiri, in cui passerà forse il resto della sua vita:
«Ma la cosa più difficile non era raccontarsi le sue storie, quello era facile, era come se le parole con cui se le raccontava le vedesse scritte sullo schermo buio della sua camera, quando la fantasia gli teneva gli occhi spalancati. E quella storia lì, che si era raccontato così tante volte da sembrargli un libro già stampato, e che nelle parole mentali con cui se la raccontava era facilissima da dire, era invece difficilissima da scrivere con i caratteri dell’alfabeto ai quali doveva ricorrere quando il pensiero deve farsi concreto e visibile. Era come se gli mancasse il principio di realtà per scrivere il suo racconto, ed era per questo, per vivere la realtà effettuale di ciò che era reale in lui ma che non riusciva a diventare reale davvero, che aveva scelto quel luogo. Il suo viaggio era preparato in ogni dettaglio. Scese all’aeroporto di Hania, ritirò la valigia, entrò nell’ufficio della Hertz, ritirò le chiavi della macchina. Tre giorni? gli chiese stupito l’impiegato. Cosa c’è di strano, disse lui. Nessuno viene in vacanza a Creta per tre giorni, rispose sorridendo l’impiegato. Ho un lungo fine-settimana, disse lui, per quello che ho da fare mi basta» (p. 169).
Così a Creta, terra dal mare splendido, madre di scrittori eretici e straordinari quali Nikos Kazantzakis e di labirinti concreti e fantasticamente ricostruiti, il destino di un uomo si trasforma in modo semplice e impossibile in quello che aveva sognato tra le mura della sua stanza (è lo stesso destino, per intenderci, del protagonista di Le rovine circolari di Jorge Luis Borges).
Allo stesso modo, l’ex-agente della STASI incaricato un tempo di tenere sottocchio l’infido e politicamente non affidabile Bertolt Brecht (non aveva forse simpatizzato, anche se nel segreto della tasca della sua giacca, con gli operai edili in rivolta a Berlino Est nel 1953?) finisce per rendergli omaggio andando a visitare la sua tomba al Dorotheenstädtischer Friedhof e con il ricordare che, nonostante tutto, il ricordo che lo tormenta di più è l’infedeltà della propria moglie con il capo dell’Ufficio Interni della Polizia di Stato. Nonostante il tempo trascorso, l’uomo non ha più una ragione di vivere esterna (il suo lavoro di membro del Servizio segreto è finito con la caduta del Muro di Berlino) e interiore (non ha nessuno di cui potersi occupare – come aveva fatto con la moglie inferma di cui, peraltro, non conosceva i trascorsi extra-coniugali). Non gli restano che I morti a tavola – come Tabucchi intitola questa novella usando un verso leggermente cantabile di Louis Aragon).
Forse scrivere significa davvero “mettere i morti a tavola” traendoli dalla propria memoria nutrita dai succhi fantastici dell’immaginazione.
In questo suo libro (per ora) ultimo, allora, i morti e i vivi si incontrano e si ritrovano per sorreggersi a vicenda nella vita e per permettere alla scrittura di tracciare quel diagramma immaginario e senza fine che collega il passato al futuro, senza passare più di tanto per il presente.
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