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STORIA CONTEMPORANEA n.59: Lo specchio della memoria. Simona Bogani, “Matteo Ricci. La strada dei sogni”

Creato il 18 novembre 2010 da Retroguardia

STORIA CONTEMPORANEA n.59: Lo specchio della memoria. Simona Bogani, “Matteo Ricci. La strada dei sogni”Lo specchio della memoria. Simona Bogani, Matteo Ricci. La strada dei sogni, Firenze, Polistampa, 2010

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di Giuseppe Panella*

In una pagina memorabile del Silenzio degli innocenti di Thomas Harris, lo psichiatra sociopatico per eccellenza, Hannibal “The Cannibal” Lecter dimostra l’accuratezza e la profondità dei suoi studi umanistici costruendosi una personale forma di mnemotecnica sulla falsariga della lettura di un celebre testo che riguarda questo settore della conoscenza umana, il cosiddetto Palazzo della memoria di Matteo Ricci (libro scritto in Cina, a Nanchang, negli anni tra il 1595 e il 1596, pubblicato poi in quest’anno per lui mirabilis – il volume riscosse un grande successo e assicurò al gesuita maceratese un posto di prima grandezza tra gli studiosi dell’”arte della memoria”).

Su Ricci e la mnemotecnica esiste uno splendido studio ricostruttivo di Jonathan D. Spence, Il Palazzo della memoria di Matteo Ricci, pubblicato in prima edizione italiana presso Il Saggiatore di Milano del 1987, ristampato poi da Adelphi di Milano proprio nel 2010 sempre nella traduzione di Flavia Pesetti). Il suo intento, sempre oscillante tra ricostruzione storiografica ed erudizione onirica,

è quello di dare della figura del religioso di Macerata vissuto in Cina un ritratto il più possibile coerente e veridico. Ma il proposito di Simona Bogani in questo romanzo (il suo secondo) dedicato al gesuita e sinologo del XVI secolo non è quello di compiere un’operazione storiografica.

Il suo intento è quello, invece, di tracciarne un ritratto umano. Degli anni di formazione e di studio con il grande astronomo tedesco Cristoforo Clavio (Christophorus Clavius) si può leggere, infatti, assai simpateticamente:

 

«Mi appassionai alla geografia, alla cartografia, ai calendari e al funzionamento dell’orologio e di pari passo con il tempo la testa si colmava seguendo il suo corso. Furono cinque anni felici e ricchi, i più belli della mia vita! La sera mi coricavo soddisfatto, ma da qualche tempo il sonno si era fatto confuso. Il voto di castità aveva cancellato ogni fantasia su come potesse essere la sensazione del calore di una donna nel letto. Era così forte il fuoco della fede dentro il petto, che divampava togliendomi dalla mente ogni altro pensiero. Un fuoco desideroso di legna nuova e di ospitalità dentro altri camini. Il percorso era segnato, dovevo solo lasciarmi guidare lungo la strada bianca dei miei sogni. Cosa avrei trovato, superato il bagliore di luce? Cosa avrebbero visto gli occhi annebbiati dalle lacrime? Quanta fatica e dolore mi sarebbe costata la curiosità? Non era soltanto smania di conoscere, era energia che, impadronitasi di me, correva dentro le membra senza darmi alternative» (p. 13).

 

La vita di Matteo Ricci sembra tutta giocata sul versante del sapere e della ricerca culturale ma non mancano momenti di abbandono all’amicizia con i suoi fratelli gesuiti e allo stupore di fronte alle novità offertegli dal nuovo mondo che sta per visitare e di cui finirà per conoscere e amare modelli di vita, atteggiamenti di fronte all’esistenza e prospettiva filosofica:

 

«Ogni spazio racchiudeva una perla, dalla forma diversa e precisa, ogni albero il suo frutto, ogni recinto il suo animale, ogni filo d’erba un progetto futuro, ogni uomo la propria vita in mano. La nostra giunca scivolava sulle acque di un fiume movimentato da ogni tipo d’imbarcazione e di trasporto e le rive si erano prestate ad ospitare villaggi fiorenti come le terre che li separavano. Rividi i miei fili d’erba tenera nelle piantagioni di riso e poi alberi da frutta e orti coltivati con meticolosità. La vita era scaturita da quelle acque e quotidianamente rendeva loro omaggio, festosa. Zhaoqing era rallegrata da colline fitte di boschi. La temperatura favoriva la vegetazione che rendeva l’immagine del paradiso terrestre, con prati verdi e alberi da frutto. Wang P’an ci accolse benevolo e in poco tempo trovammo il terreno che più si confaceva alla costruzione della missione. Non passò molto tempo per l’approvazione del nostro progetto e Wang P’an in persona giunse con la sua scorta e il sigillo dell’imperatore, dal quale non si separava mai, per apporlo sui documenti che, con grande solennità, furono firmati per dare così inizio ai lavori» (p. 29).

Ma non tutto andrà sempre così liscio. I lutti (la morte dei confratelli Antonio de Almeida e Francesco De Petris), la cacciata della missione da Zhaoqing con la falsa accusa di pratiche alchemiche proibite, la difficoltà a fare proseliti e convertire i cinesi alla religione cattolica rendono grave e preoccupato Matteo Ricci ma non lo privano dello slancio combattivo e della serenità della fede, lo spingono anzi a continuare nel tentativo di conciliare mondo occidentale e mondo orientale. Una delle imprese letterarie più significative del gesuita sarà la stesura di un prontuario di massime greche e latine de amicitia (i Detti dei nostri filosofi e dei nostri santi sull’amicizia) che conoscerà notevole interesse e molte richieste di poterlo possedere. Anche se il permesso di stamparlo come volumetto a sé non riceverà l’imprimatur dei revisori ecclesiastici residenti in Goa, il libro vedrà lo stesso la luce:

 

«Infine furono gli amici a stampare il trattato Dell’amicizia, a dimostrazione che quando qualcosa interessa davvero non si trovano ostacoli alla sua realizzazione. Ero entusiasta, anche perché era la prima volta nella storia che veniva pubblicato un libro scritto in cinese da uno straniero. Il favore che riscontravo in quella città mi fece ben sperare, tanto che decisi di stabilirmici per qualche tempo. Trovai un alloggio che acquistai grazie al denaro che mi fu inviato da padre de Sande, insieme a tre fratelli che mi avrebbero aiutato nella nuova residenza. Carico di soddisfazioni preparai un trattato sull’amicizia più ampio, che di nuovo trovò largo consenso, e mi dedicai alla stesura di un trattato sulla memoria, che credevo potesse essere utile in quella città, dove erano in molti a prepararsi per gli esami di qualificazione per funzionari dell’impero. La memoria è un dono che Dio in me ha voluto particolarmente grande, anche se al Collegio Romano avevo avuto modo di apprendere l’arte di memorizzare con più facilità. Era lo stesso metodo che, senza sapere, avevo adottato lasciando la mia casa da giovanetto. Associare un’immagine che ispirasse emozione a ciò che volevo ricordare, per metterla poi in un luogo preciso dentro il “palazzo della memoria”» (p. 71).

 

Ma il grande trionfo di Matteo Ricci alla corte dell’Imperatore a Pechino, nella Città Proibita (dove sarà il primo europeo a recarsi anche se l’imperatore che glielo aveva permesso Wan Li non gli fu mai presentato) fu il grande disegno del mondo, la Grande Mappa dei Diecimila Paesi del 1602, in proiezione sferica schiacciata, dove per la prima volta ai cinesi veniva mostrata la vera estensione del mondo fino ad allora conosciuto con la sola aggiunta “immaginaria” dell’isola di Friesland e che permetteva di individuare l’esatta posizione in essa della terra di Cina. Una copia gigantesca del mappamondo in sei tavole diverse separate finì alle pareti del Palazzo Imperiale di Pechino a dimostrare l’apprezzamento dell’opera cartografica di Ricci. Nel 1607, inoltre, egli tradusse in cinese, con l’aiuto e la collaborazione del matematico convertito Xu Guangqi, i primi cinque libri degli Elementi di Euclide così come da solo rese nella lingua del paese che lo ospitava il Manuale di Epitteto con il titolo suggestivo di Libro dei 25 paragrafi e facendone passare come cristiano autentico il contenuto filosofico stoico. L’idea di fondo di Ricci era che non si poteva travasare direttamente nella cultura cinese il pensiero cristiano ma che bisognava farlo usando un terzo reagente più vicino al pensiero orientale e cioè la filosofia dei Greci. Una lunga marcia di avvicinamento, allora, avrebbe permesso di tradurre il pensiero greco in quello cinese e da qui passare a quello più autenticamente cristiano (un’impresa peraltro fino ad oggi mai riuscita a nessuno). Ma Simona Bogani non è poi tanto interessata alla figura di Ricci matematico o pensatore cattolico o sinologo anticipatore degli studi sul continente culturale cinese quanto a leggerne la vita e le opere come il progetto di un’esistenza fatta di sogni realizzati ed è questo, a mio avviso, proprio il suo merito maggiore:

 

«Il corpo è stanco e non ha più la forza di rispondere ai comandi. Il pensiero si perde, mentre una morsa mi comprime il volto e il calore in tutto il corpo divampa. Lascio cadere le palpebre che mi regalano l’oscurità. Rivedo la vita a ritroso e rifletto su ciò che ho scritto. Sapevo di gettarla nel pozzo della sapienza. Ma come sarebbe stata se non avessi sentito il bisogno incalzante di ricerca: continua, costante e infinita? Non me la immagino. Non avevo altra strada. Avrei potuto amare Dio senza bisogno di tuffarmi nei pensieri tramandati. La conoscenza del passato mi ha aiutato a costruire il presente. Ma come sarebbe stata la mia vita nell’ignoranza e nella semplicità della consuetudine quotidiana? Ancora non riesco ad immaginarla. Dio ha acceso in me l’entusiasmo, la passione e l’amore per tutto ciò che andavo a scoprire e ogni granello di sapere, che aggiungevo nella clessidra del mio tempo, mi avvicinava sempre di più a Lui. C’è foschia nei pensieri. Volgo a Dio l’ultimo prima che il sonno mi salvi dall’infittire della nebbia» (p. 57).

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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)

 


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