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di Giuseppe Panella*
Un padre anarchico e battagliero e suo figlio che porta il nome di un grande apostolo dell’anarchia; il loro rapporto mai terminato in vita e mai troncato neppure dalla morte; un combattente rivoluzionario con un occhio marrone scuro e l’altro viola, luccicante come quello di un demonio venuto su dall’Inferno; una storia d’amore che va oltre la vita e le vicende storiche, un manoscritto ritrovato (come nella migliore tradizione italiana da Manzoni a Gadda ad Arbasino) più qualche citazione ardita (quella di Corto Maltese, personaggio di fumetto in un contesto storico o la traccia della mitica partita a poker di un film, Regalo di Natale di Pupi Avati del 1986, che ritorna immediatamente alla memoria per le situazioni analoghe che narra – anche l’amicizia tra il protagonista Errico e il figlio Antonio del padrone del castello di Montecastello in provincia di Alessandria ricorda l’amicizia al di là della logica di classe che attraversa il film Novecento, 1976, opera di Bernardo Bertolucci).
Sono gli insuperabili e compositi ingredienti di questo romanzo “misto di storia e d’invenzione” (per citare sempre Alessandro Manzoni), l’ultimo pubblicato da Alessandro Bertante. Vincitore quest’anno del prestigioso Premio Letterario “Chianti”, Al Diavul si regge essenzialmente su una sapida e sapiente mescolanza di verità storica (l’insorgere e la vittoria del fascismo in Italia, la guerra di Spagna, la grande epopea della “breve estate dell’anarchia” di Buenaventura Durruti già descritta, ma con minore soggettività epica, da Hans Magnus Enzensberger nel 1973 in un suo celebre documento letterario e con partecipazione personale da George Orwell in Omaggio alla Catalogna del 1938 e poi cinematografata da Ken Loach nel suo magnifico Terra e libertà del 1995). Si regge, comunque, soprattutto sullo stile – Bertante riesce a rendere le vicende della famiglia Nebbiascura attraverso le crisi italiane di fine Ottocento (i moti milanesi del 1898 repressi brutalmente e ottusamente dal generale Bava Beccaris) e quelle di inizio Novecento (dalla Prima Guerra Mondiale all’avvento del fascismo) utilizzando uno stile semplice, secco e ridotto all’osso, eppure bruciante di passione e carico di un pathos vibrante e coinvolgente (non stupisce, di conseguenza, il suo successo presso una giuria di lettori onnivori e selettivi come quella del premio chiantigiano).
L’incipit del romanzo è di grande vigore narrativo:
«Montecastello, 8 ottobre 1983. Era come una strana euforia. Nell’aria, si sentiva ovunque. O forse un’urgenza. Un’urgenza di vita che in quel momento riguardava solo lui. La giornata stava finendo, il sole era già sceso dietro alla collina. Nonostante la stagione, quel giorno aveva fatto molto caldo e l’imbrunire portava con sé la promessa di una serena notte d’autunno, resa ancora più languida dal leggero incedere della pioggia. Il campanile della chiesa batteva sette tocchi. Seduto su una panca del suo giardino Errico Nebbiascura guardava il paesaggio. Una landa senza asperità, prevedibile e riposante. Da molti anni era il passatempo di tutte le sue serate, quando non era troppo affaticato e il tempo lo permetteva, concedendogli il privilegio dello sguardo senza attesa. Guardava e rifletteva sulle cose fatte e su quelle ancora da fare. Ce n’erano parecchie. Specie quella sera» (p. 9).
Errico Nebbiascura sta per concludere la sua esistenza terrena ma non vuole essere dimenticato. Lascerà i suoi beni e un quaderno fitto di scrittura al nipote Alessio (così come accade nel film di Loach già citato dove a ritrovare le carte e la bandiera rossa del nonno sarà una nipote). Tutto il romanzo è costituito dalla trascrizione di questo diario con le oscillazioni stilistiche, il linguaggio, le convinzioni politiche e gli entusiasmi di un personaggio che ha vissuto tutta la sua vita sotto l’egida della militanza attiva e della rabbia come ragione di vita e di lotta senza esclusione di colpi.
Ma anche il finale non lascia inappagato il lettore paziente e ormai conquistato dal racconto:
«Era giunto il momento. Dalla sacca tirai fuori la vecchia bandiera. La guardai un’ultima volta e la posai sulla tomba di Errico. “Per un’umanità libera” c’era scritto. Le lettere rosse sullo sfondo nero. “Per una umanità libera” dissi. “Per un’umanità libera” disse Antonio. Guardai il notaio. Sembrava più giovane in quel momento. Sembrava il ragazzo che boxava nelle notti d’estate. Con il volto fiero, lo spirito indomito. Gli presi la mano. “Errico mi ha raccontato la sua storia. Il filo dei Nebbiascura non è stato spezzato”. Antonio annuì, sospirando. Per un attimo ebbi la certezza di sentire un odore famigliare, acido e dolce al tempo stesso. La vendemmia era stata buona, il nuovo mosto era già pronto per essere svinato. Uva sana, roncole affilate, rovere di Croazia, esperienza e un poco di pazienza. Questo ci vuole per fare un buon vino. Non serve molto altro. Errico lo sapeva. E sapeva anche chi avrebbe ascoltato la sua storia. “sarà una buona Barbera quest’anno…” disse Antonio, mentre di lontano il campanile suonava il mezzogiorno. Uscimmo dal cimitero. Sulla costa della collina, davanti a noi era solo la grande pianura. Ci fermammo a guardare i campi perdersi verso il fiume. L’aria era ferma e serena. Respirai profondamente. E insieme tornammo lungo la strada delle foglie» (pp. 241-242).
Se il taglio letterario del primo capitolo e poi dell’ultimo è nostalgico, appannato da una vena di malinconia che rende la pagina poeticamente commossa, gran parte del diario postumo di Errico è invece epico, trascinante, straziato dal dolore e dal rimpianto ma ricco di una vivacità narrativa che lo rende di lettura veloce e coinvolgente. Le pagine relative alla battaglia per la riconquista di Barcellona dopo l’Alzamiento del 18 luglio 1936 ad opera dei generali José Sanjurjo e Emilio Mola sono il pezzo forte della narrazione e uno dei punti più alti per la scrittura palesemente qui prediletta da Bertante che riesce in maniera molto attenta a evitare la retorica e puntare solo sulle emozioni dirette, rese con tocchi realistici che riescono a colpire in maniera diretta i sentimenti:
«Sono vecchio, la memoria talvolta mi inganna. Passano i decenni e le immagini si deteriorano. Consumate dal tempo si mischiano fra loro, creando un’unica visione confusa nella quale si fatica a distinguere un percorso. Il prima diventa dopo, il certo perde di consistenza, si smarriscono il senso e la giusta sequenza. E se talvolta la percezione dell’insieme riesce a resistere all’usura del tempo, irrimediabilmente questa visione diventa sempre più sfocata, confondendosi e sporcandosi con la nostalgia, la finta saggezza di chi ha già visto e indietro non può più tornare. Ma quando ripensi a un giorno particolare, a un preciso momento che è solo quello e non può essere un altro, sono i gesti più immediati a rimarcare la differenza. In mezzo alla battaglia e alla violenza, nella disperazione delle grida, nel terribile frastuono degli spari, quando le azioni non possono essere meditate e solo l’istinto ti salva o ti condanna, sono i particolari a rendere di nuovo il ricordo vivo e potente, a squarciare lo spesso velo degli anni riportandoti nell’istante esatto, nell’unico luogo importante, proprio lì dove avvenne la battaglia definitiva. Improvvisamente, come rispondendo a un segnale prestabilito, un perfetto codice rinchiuso nella memoria di ogni uomo, le immagini diventano di nuovo chiare e inequivocabili. Non ci si può più sbagliare. I conti della vita tornano di nuovo tutti. Le facce degli amici, le urla di gioia, l’eroismo, il sacrificio del singolo e le grandi, dolorose perdite, il popolo riversato in piazza come una marea vociante, stupefatta della propria formidabile forza. L’angolo dal quale sparasti il primo colpo di fucile. Proprio quell’angolo e non un altro qualsiasi pezzo di muro. Perché è proprio lì, proprio in quell’istante che hai fatto la tua scelta» (pp. 160-161).
Come si può vedere, si tratta di una vera e propria fenomenologia della rivolta popolare, della sua grandezza, della sua potenza ineluttabile e anonima. Non era semplice rendere in maniera così forte, così coinvolgente e comprensibile il racconto di fatti che appartengono a una tradizione letteraria ricchissima e consolidata e che va da Orwell a Enzensberger (come si è già detto), ma anche dallo Hemingway di Per chi suona la campana a La speranza di André Malraux, testi-chiave per la letteratura novecentesca di impegno progressista. Ma probabilmente a favore di Bertante ha giocato il fatto di aver attribuito a Errico Nebbiascura una passione (che probabilmente anch’egli condivide almeno come ricordo di letture d’antan): quella per i romanzi di Emilio Salgari che il protagonista legge con avidità negli anni cupi del buio del fascismo e della repressione del movimento operaio e socialista sopravvenuta ai grandi entusiasmi del dopoguerra e dell’onda d’urto causata dalla Rivoluzione bolscevica del 1917:
«Quando ebbi finito i libri politici, cominciai con i romanzi. Li prendevo in prestito da un vecchio professore in pensione che abitava a poche case di distanza. Un antifascista, timoroso anche della sua ombra ma onesto e leale. Lessi Manzoni, Nievo, De Marchi, tutto quello che potevo capire con la mia scarsa istruzione. Poi un pomeriggio di pioggia mi trovai di fronte al Corsaro Nero di Emilio Salgari. Fu una scoperta e un grande conforto. Visto il mio entusiasmo, il vecchio professore mi prestò altri romanzi. Tutti ambientati in terre lontane e pieni di pirati, indigeni selvaggi ma virtuosi, schiavisti senza scrupoli, colonizzatori e belle damigelle da salvare. La cosa che però mi emozionò di più fu conoscere la triste storia dell’autore, che quelle terre non aveva mai visitato ma era comunque riuscito a raccontarle belle e avventurose, forse più belle di quanto in realtà fossero. Era una persona che soffriva Emilio Salgari. In lui ritrovavo la mia emarginazione. Era un fratello, un compagno di sventure. Ma anche un uomo molto coraggioso. Perché un giorno decise di farla finita, uccidendosi per i troppi debiti e il troppo dolore. Il dolore dell’umiliazione. In quei lunghi anni si consumò il mio apprendistato letterario. Probabilmente ero il fabbro più colto di tutta la provincia. Colto e perdutamente infelice» (p. 78).
I romanzi avventurosi di Salgari come pure le narrazioni senza fiato di Corto Maltese allo stesso modo della grande epopea della guerra di Spagna cantata da Hemingway e Malraux in anni non sospetti si innestano e si integrano senza conseguenze in una proposta romanzesca forte e tesa, incapace di inutili preziosismi linguistici e barocchi come di deviazioni dal suo percorso naturale, desiderosa com’è di mantenere fino in fondo il patto stipulato con il lettore. E, infatti, Al Diavul, alla fin fine, è un romanzo che si legge tutto d’un fiato senza interruzioni e impacci – proprio come le vicende impossibili e stupefacenti di Salgari o le storie al fulmicotone di Hugo Pratt…
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)