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STORIA CONTEMPORANEA n.69: L’epopea del Tartarini a Berlino. Beniamino Tartarini, “Porci di fronte ai maiali. Storie per uomini che parlano poco”

Creato il 08 marzo 2011 da Retroguardia

STORIA CONTEMPORANEA n.69: L’epopea del Tartarini a Berlino. Beniamino Tartarini, “Porci di fronte ai maiali. Storie per uomini che parlano poco”L’epopea del Tartarini a Berlino. Beniamino Tartarini, Porci di fronte ai maiali. Storie per uomini che parlano poco, Firenze, Clinamen, 2010

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di Giuseppe Panella*

Non si tratta di pórci di fronte ai maiali ma di saperli riconoscere; di vivere al loro fianco senza volerli imitare o al limite di imitarli con successo… Questo di Tartarini non è certo un libro autobiografico. Tutt’altro. E’ un libro parodico, satirico fin quanto si vuole, sarcastico nelle midolla, feroce nel tratto e nel ghigno. Beniamino Tartarini lo ha scritto (e ci insiste pure spesso) grazie al suo cognome che gli permette di mimetizzarsi ed esordire come il suo quasi omonimo – se l’eroe eponimo di Alphonse Daudet era stato Tartarin de Tarascon, personaggio tra i più buffi e credibili della letteratura francese del XIX secolo, Tartarini di Scandicci (o forse dell’Osmannoro) se ne va in giro per il mondo a dimostrare la propria furia e virulenza espressiva, il proprio aspro e involgarito disincanto, la propria brama di (soprav)vivere e soprattutto la propria necessità sempre frustrata di andare a donne.

Come Tartarin di Tarascona voleva essere a tutti i costi un coraggiosissimo cacciatore di leoni (e pure un seduttore indiscusso di baiadere arabe), così il Tartarico più recente vorrebbe congiungersi carnalmente con donne tedesche disponibili ma non ci riesce. Se ne lamenta e si consola con il chiamare in giudizio in un monologo poco interiore ma molto esteriorizzato più o meno il mondo intero. Anche nei racconti che aprono la raccolta, il mondo (a lui certo più vicino di quanto lo sarà poi la fredda e poco reattiva Germania) che viene razziato dal protagonista affabulante (e spesso vociante) riceve un bel po’ di ingiurie e di recriminazioni: il cinghiale di Scarperia non è granché (meglio quello di Montepiano, infatti!), le fragole di Pelago sono marce, la Fiorentina va a scartamento ridotto (et pour cause – la società non investe più come dovrebbe fare nella squadra…) e poi il ninja di Vaiano, personaggio un po’ troppo mitizzato da chi ne parla, non incanta più i ragazzini d’oggi e pure a Tavarnuzze, dove pure si mangia bene, i boy scout rompono le scatole. A questo Tartarino della provincia fiorentina non gli va bene nulla di nulla: sempre a lamentarsi e a parlar male dei mille personaggi coloriti e strabici che gli passano davanti (tutti una sorta di Benigni in sedicesimo se non in ottavo, con tic vezzi presunzioni esistenziali e aspirazioni – guarda caso – frustrate anche loro).

Tutti i personaggi di Tartarini sono vittime di forti frustrazioni umane sessuali o professionali (ivi compreso Tartarino stesso). Nel segmento narrativo Robert, l’Io narrante, oggi disoccupato e libero di fare quel che vuole, è stato un insegnante di inglese sui generis proprio come il Robert eponimo del racconto – inoltre lo è diventato senza sapere granché la lingua e senza avere vocazione per l’insegnamento in assoluto. Dello sciaguratissimo Robert, Tartarino dice (con la delicatezza d’animo e lo spirito caritatevole che lo contraddistingue sempre):

 

«Questo Robert con la forfora che fa l’insegnante è uno di quei ragazzi invecchiati male che rischian sempre d’ammazzarsi, e glielo puoi leggere negli occhi; uno di quelli che se posson combinare qualcosa di sbagliato lo combinano, e che la sorte vuole sempre dalla parte del torto, come quando gli sequestrarono la patente o lo picchiarono alla stazione. Inoltre, le poche volte che ci ho parlato, non mi è mai sembrato un chiacchierone, anzi; io dico che ci aveva dei problemi al cervello e al sistema nervoso. Che proprio lui, come me, facesse l’insegnante, non mi pare affatto strano, perché qualifiche a parte, a fare gli insegnanti prendono sempre dei casi umani e delle persone con una quantità di problemi.  Io credo che lo facciano al fine di far disamorare gli studenti delle loro materie: la tradizione vuole infatti che soltanto con la noia e il fastidio si riesca a imparare qualcosa, un qualcosa che proprio da quelle fatiche inutili e patimenti me esce nobilitato e degno d’essere stato imparato anche se in fondo non serve a niente. La gente che lavora non vuole vedere gli altri che si divertono, dunque assicura anche alle attività potenzialmente piacevoli dei pesi e degli impedimenti tali da garantirne la riuscita solo a fronte di sforzi dannosissimi e vani. Per contro va detto che pure all’insegnante, che magari sta già male di per sé e quindi beve molto, non è risparmiato un disagio di pari entità, se non superore: gli alunni sono tutti dei cretini, e ci mettono una vita a imparare, ed è frustrante. Io questo lo dico per esperienza, dal momento che tutti i miei alunni sono stati dei cretini e degli svogliati che si erano iscritti, nella speranza di ricevere un qualche attestato o pezzo di carta, a questi corsi assolutamente economici ed essenzialmente privi di una ragion d’essere…» (p. 38).

 

La profluvie di parole proferita da Tartarino impregna la carta della sua cattiveria mista a paradossalità, la rende una sorta di dimensione reagente dell’animo esulcerato e percosso di chi si vorrebbe diverso da quello che è: un frustrato che si auto-promuove a intellettuale per dimostrare a se stesso che pensa anche a qualcos’altro nella vita che al sesso. A Berlino, l’io che parla affabula moltissimo e costruisce trame intricate e selvatiche di parole, intrise spesso di rabbia, assai più spesso di nostalgia – lo stesso farà la cognata della signora Marisa che, a furia di parlare, finirà con il rimbambire di chiacchiere la povera donna che, alla fine, totalmente sfinita dal martellare della verbigerazione della parente, finirà sotto un autobus mentre entrambe lo aspettano alla fermata.

Ma il migliore di tutti è sempre e comunque Tartarino di Berlino, invasato e sessuomane affamato di donne che concupisce e ricrea nella mente (solo nella mente, però, non nel letto che risulta peraltro inadeguato allo scopo – come egli stesso ammetterà dopo averne descritto la struttura e declinato le misure non adatte alla sua alta e un po’ donchisciottesca figura di gigante lungo e un po’ sbilenco), Le sue aspirazioni alla copula si concentrano sull’aspirazione a un ritorno in quel di Montecatini, capitale toscana della dissipazione sessuale (altro che la villa di Arcore!):

 

«E va bene, mettiamo pure che sia così, sono pigro. Ma io dico, lo stesso: non ce l’hanno le slave a Empoli? Vattelappesca, direte voi: ci sta che a Empoli sian vietate, le slave, con tutte queste leggi moderne, queste tabelle, questi dazi e reprimende; va bene. Ma insomma, anche se son vietate c’è sempre Montecatini, lì vicino, coi suoi ottimi gelati e le filiali del totip. E a Montecatini c’è un negozio, signori e signore, di calzature per travestiti brasiliani! L’ho visto, coi miei occhi, c’è: indubitabile! […] Ce le avranno allora, anche in questa Montecatini, due belle troie, oltre alle cialde e al gelato e alle scommesse sui cavalli! Che dite? Eh? Ce le avranno? E magari anche un po’ di bamba, oltre agli alberghi e alla ristorazione, che tiene in forma! Chissà, cari amici! Chissà come funziona la Toscana della ristorazione? Eh? Ma ve lo spiego io, ignoranti e merde, e tutto in due parole, sennò vi distraete: Montecatini è la CAPITALE delle troie! Solo troie, dappertutto, nei supermercati, al bar, alla messa: non-ci-si-rigira! Un maialaio! Un maialaio di professione: a dieci chilometri da casa! E loro, furbi, spendono i soldi e vanno all’estero. Ma che ci andate a fare, dico io! E se ve lo dico io, fidatevi! Che non bastasse l’intelligenza, per giudicare, ci ho pure l’esperienza diretta, nel campo della ristorazione notturna: sei mesi a tutto bordone da Milvio – per gli amici Nait Clèb Delta, rimessa privilegiata di mignottoni bulgari e ballerine rumene – come bigliettaio guardarobista e guardia uso bastone. Io ne so. E allora date retta a me: cosa ci andate a fare, in questi posti a tariffa fissa dell’Europa plutocratica, cosa ci fate, quando in patria l’industria langue? A casa ci lasciate solo i disgraziati veri? Non vi pentite? Ma ve lo do io, mostri! Io lo so, che paion toni un poco forti, i miei, ma vi capitasse mai d’incontrarli, capireste: i clienti dei night club sono qualcosa che non si lascia riferire…» (pp. 56-57).

 

Le parole di Tartarini scivolano, sdrucciolano, si intrecciano, incespicano, si contorcono e si avviluppano; si svuotano di senso, si riducono praticamente al loro puro significante. Sembrano parole in libertà e come scomposte nel loro tragitto verso il lettore, sembrano apparentemente scoordinate eppure risultano sconvolgenti e sconvolte. Nella sua strategia di delirio verbale, Tartarini chiama in causa e mette in crisi gran parte della cultura egemone dell’Occidente ormai definitivamente entrata in decadenza (come con altri toni verbali e attraverso altri temi e strategie d’attacco aveva fatto un autore, Oswald Spengler, di cui ha tradotto un libro fondamentale, Anni della decisione del 1933). La rivolta verbale del Tartarino di Gricigliana, allora, si sviluppa in maniera molto più rigorosa e attenta di quanto potrebbe sembrare e si cala nel pozzo profondo della soggettività occidentale più di quanto la sua apparente superficialità potrebbe far pensare.

La sua rabbia, la sua foga, la sua cattiveria verbale sono il segno di una volontà di colpire e, soprattutto di riuscire a capire che cosa è successo e che cosa non bisogna più fare oggi.

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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)


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