Pubblicato da giuseppepanella su ottobre 26, 2011
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di Giuseppe Panella*
Evelina Cattermole è stata assai più nota con il nome di Contessa Lara, scrittrice di opere poetiche, di testi narrativi e di infinite rubriche su molti giornali quotidiani in cui insegnava alle massaie piccole e ingegnose soluzioni per la vita quotidiana e alle gran dame come evitare errori e ingenuità nella dimensione ufficiale e brillante della vita mondana. Ispirato a un poemetto di George Gordon lord Byron del 1814 che reca come titolo Lara ma è ispirato, tuttavia, al conte di Lara, un pirata spagnolo di origini aristocratiche che sbarca clandestinamente in Inghilterra e qui trova la morte dopo aver scatenato una rivolta popolare, il suo nome fu a lungo assai popolare in Italia anche per l’alone di scandalo erotico che lo avvolgeva, pronubo una poesia del giovane Gabriele D’Annunzio che ne adombrava una relazione con il suo levriero Isella (“Sta lady Phoebe Cynicythere / Su ‘l damascato letto ampio e profondo: / splende la nudità, nell’ombra, e il biondo / capo sorride di su l’origliere. / Erto su l’esili zampe il levriere / Le lambisce il sen rotondo…”). La sera del 30 novembre 1896, un giovane pittore napoletano, Giuseppe Pierantoni, che aveva vissuto con lei una tempestosa storia d’amore fatta di passione, di gelosie reciproche, di schiaffoni e di pasti consumati in trattorie a poco prezzo, le spara un colpo di pistola che la colpisce all’addome e poi cerca di rivolgere verso se stesso la stessa arma di piccolo calibro con cui aveva colpito la donna.
Dopo aver visto sanguinare la donna e convinto di essere stato colpito a sua volta dal colpo di pistola sparato precedentemente, l’uomo cerca aiuto in una farmacia lì vicino, in piazza del Tritone, e vi trova il dottor Mario Parboni che ne è proprietario e si sta accingendo ad andare a cena. I soccorsi alla scrittrice ferita saranno troppo tardivi rispetto alle necessità fisiologiche della situazione in atto e soprattutto tutto sarà rimandato al giorno dopo: la laparotomia necessaria, però, non avrà l’esito sperato e la scrittrice morirà il giorno dopo essersi confessato e comunicata e aver redatto un testamento che, tuttavia, non sarà ritenuto valido a norma della legge dell’epoca. Al processo per l’omicidio della donna, il dottor Parboni sarà accusato di aver agito in maniera assai trascurata e fin troppo negligente per non insinuare il sospetto che se fosse stata soccorsa in tempo la contessa Lara avrebbe potuto cavarsela (tale ipotesi fu adombrata anche da alcuni giornali ma poi cadde per effetto di testimonianza contrarie e più favorevoli all’operato del medico).
Fin qui i fatti storici che costituiscono il tragico epilogo terreno della vita tempestosa di Evelina Cattermole, figlia di un ex-console scozzese poi radicatosi a Firenze come insegnante di inglese e nata nel 1849 a Cannes (anche se, per civetteria, preferiva far credere di essere del 1854).
Il romanzo di Brunella Schisa segue abbastanza fedelmente la retta delle vicende reali cui si ispira ma si concede, tuttavia, una serie di “invenzioni” funzionali al suo progetto di narrazione.
Al posto di Mario Parboni (che ne diventa il padre brontolone e ambizioso), l’autrice pone un suo figlio unico, Fabrizio, riluttantemente laureatosi da poco in medicina ma aspirante a una vita letteraria di poeta e di giornalista. Sarà costui ad agire in modo tale da far morire la contessa Lara per gli scarsi soccorsi prestatigli. La conclusione del romanzo chiarirà alla fine il perché di tutto quanto. Altre concessioni alla dimensione romanzesca della narrazione storica sono la collocazione della farmacia del padre a Piazza di Spagna, più vicina alla guesthouse dove era morto il poeta John Keats, assai caro a Fabrizio Parboni; il luogo, però, non era ancora un museo (lo diventerà nel 1903) e non ospitava ancora lettori di poesia. Di conseguenza, il primo incontro tra Evelina Cattermole e il neo-medico non avrebbe certo potuto avvenire là. All’asta degli oggetti, dei documenti, delle lettere e delle carte della scrittrice, avvenuta nel dicembre dello stesso anno della sua morte, non parteciparono né Mario Rapisarda (che si faceva chiamare Rapisardi), l’un tempo celeberrimo poeta satanico che era stato per breve tempo amante della contessa Lara né Benedetto Croce in qualità di amico dello scrittore catanese – il primo non vi recuperò le lettere scottanti di un loro passato carteggio né il filosofo napoletano vi comprò delle prime edizioni di opere della poetessa. E’ vero, comunque, che il giudizio negativo sulla poeticità della sua opera compare, con le stesse parole, in un saggio importante del filosofo napoletano (“La contessa Lara – Annie Vivanti” in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici II, Bari, Laterza, 1943).
Detto questo, sorge un problema: a che cosa è servito aver inventato un personaggio inesistente, messo in scena figure storicamente reali ma non presenti sulla scena effettiva dell’azione, aver puntato tutto sulla morte della contessa Lara piuttosto che sulla sua vita? Probabilmente ad aver trasformato una storia di morte, condita con i pimenti di un erotismo un po’ morboso e con il contorno di un moralismo all’epoca (come ancora oggi) a buon mercato in una (possibile) lezione di vita. Olga Ossani Lodi, che scriveva sul “Don Chisciotte di Roma” con il nome di Febea e che aveva all’attivo una relazione con Gabriele D’Annunzio, scrive nel suo necrologio per l’amica defunta che se la contessa Lara fosse stata un uomo nessuno si sarebbe scandalizzato in quel modo della sua vita. Allora fu la scrittrice alla moda una sorta di femminista ante litteram? Probabilmente no ma rappresentò un ideale di vita alternativo, libero, aperto a tutte le esperienze, privo di remore e di pregiudizi moralistici, una sorta di esistenza dedicata ad “amare l’amore” più che un solo amante o un solo uomo (come sarà, mutatis mutandis, quella di Sibilla Aleramo qualche anno dopo).
Riflettendo sull’ambiguità del necrologio redatto sul “Mattino” di Napoli da Matilde Serao per l’amica-nemica Contessa Lara, Fabrizio penserà lo stesso della volubile fedeltà della donna alle pratiche dell’amore:
«Fabrizio lasciò il giornale e rimase per qualche minuto assorto. La perfida Serao conosceva fin troppo bene la forza esercitata da eroine perverse o almeno perdute: Traviata, Nanà non erano forse le donne più interessanti e amate d’Europa? Evidentemente temeva, invidiava, e soffriva all’idea che Evelina Cattermole potesse diventare una leggenda con il suo scarso talento. Per questo l’aveva trasformata nel suo opposto. In una donnina scialba, sopraffatta dalle necessità del quotidiano. Una di quelle mogli avvilite che gli uomini tentano di dimenticare fantasticando della puttana bionda e raffinata. Con quell’epitaffio fintamente pietoso l’importante giornalista le aveva tolto fuoco e mistero cacciandola dai sogni degli uomini. Quale vendetta migliore per una donna che quei sogni non li aveva mai accesi, ma al tempo stesso tanto intelligente da esserne consapevole? Perfino un uomo ingenuo e giovane come Fabrizio capiva che dietro quel braccio teso per un’apparente compassione c’era l’oltraggio più bieco che si potesse immaginare per una donna e una poetessa, la cancellazione del fuoco che per vie tortuose l’aveva portata alla morte» (p. 99).
Il fatto è che Evelina Cattermole aveva sempre rifiutato a chiunque il possesso definitivo e stabile del suo corpo e della sua anima, creando intorno a sé un alone di mistero e di scandalo, una sorta di aspettativa soffusa che andava dall’erotismo un po’ fané dell’esotismo liberty al sempiterno fascino della donna considerata come una figlia di Eva e, quindi, come un “idolo di perversità” (per usare l’espressione che dà il titolo a un celebre saggio di Bram Dijkstra). Lo sosterrà anche il celebre avvocato repubblicano Salvatore Barzilai, all’epoca uno dei maggiori principi del Foro operanti in Italia che aveva accettato di difendere gratuitamente Giuseppe Pierantoni probabilmente per amore di sé e della propria vanità, non tanto per puro amore di giustizia, dopo aver citato un lungo brano di Cesare Lombroso sulla natura delle donne sessualmente isteriche:
«Barzilai si tolse gli occhiali e sorrise soddisfatto del quadro clinico della vittima: una malata, un’isterica, una mentitrice inveterata, con un appetito sessuale insaziabile, ipocritamente pietosa. “Così era la contessa Lara. Una bugiarda che ha mentito per suggestione, per fantasia malata, quindi in buona fede. Perciò molti uomini si sono perduti per lei, uccisi, costretti ad allontanarsi dalla patria, rovinati nel loro nome, trascinati, come Pierantoni sul banco dei rei”» (pp. 275-276).
Passando dai tribunali alle storie letterarie, il giudizio sulla Contessa Lara, anche in seguito, oscillerà sempre tra un tentativo di giustificazione pietosa, non aliena spesso da una punta di moralistica soddisfazione per la “meretrice punita” e un apprezzamento affettuoso non privo di rimpianto per la sua esistenza inattuale. In entrambi i casi, la sue qualità di scrittura poetica e giornalistica resterà nell’ombra, completamente destinata alla “critica rodente” dell’oblio presente nelle biblioteche pubbliche di Stato.
E, quindi, terminando con i suoi stessi versi:
«Dicean ghignando che a la donna sola, / A la rejetta, a l’esule, a la mesta, /
Non più l’arte, che inalza e che consola, / Darebbe fiori per la bionda testa. / La Musa, invece, intorno ad essa vola / Sempre fida qual pria, nobile, onesta / E fa negl’inni udir la sua parola / Che memorie e speranze in lei ridesta./ Insieme van così lungo il sentiero / Triste del mondo, che soltanto ha fine / Ne l’alta erba là giù del cimitero./ Ingombro è il suol di rettili e di spine, / Di minacciose nubi il cielo è nero, / E pur cantano ancor le pellegrine»
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)