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di Giuseppe Panella*
Con questo romanzo Alberto Cola ha vinto il Premio Urania per il 2009, dimostrando di essere diventato un narratore di razza rispetto ad altre sue prove precedenti pur rilevanti e di qualità (ricordo, tra tutte le sue prove narrative, il Goliath che anni addietro, nel 2003, fu pubblicato da un’esangue casa editrice che pur voleva stampare dei Solid Books).
Lazarus è ambientato nel futuro temporalmente indeterminato di un Giappone devastato e avvilito, proprietà di multinazionali avide e indifferenti ai vecchi valori spirituali del Paese.
Gabriel, un Mistico (una persona che risulta dotata di poteri particolari che la mettono in grado di uccidere o di paralizzare con il solo pensiero) che vive con una studentessa non vedente di nome Miko (e che risulterà anch’essa alla fine avere le sue stesse potenzialità) viene incaricato di ritrovare Yukio Mishima redivivo che è sparito dal luogo dove avrebbe dovuto trovarsi. Grazie a tecniche pioneristiche di rigenerazione dei tessuti muscolari e cerebrali, è, infatti, possibile ormai far risorgere i morti e riportarli in vita (l’unica condizione è che i neo-vivi si sottopongano a cure particolari che ne permettano la nuova esistenza, altrimenti il corpo che li sostiene si disfa e si avvia a una rapida distruzione). Il padre del Progetto Lazarus, il biochimico Kao Yee, ricostruisce così la genesi e lo sviluppo della sua portentosa scoperta:
«– Ovviamente – esordì – il vostro scetticismo è più che giustificato. In effetti la Fase Tre è stata il vero scoglio dell’intero Lazarus. Avevo superato le difficoltà connesse alla velocità di rigenerazione della matrice molecolare complessa, gli squilibri a livello organico, le disfunzioni enzimatiche e ormonali, le malformazioni congenite… Ma ricreare una mente… Niente di simile era mai stato tentato. Kao assaporò con soddisfazione il silenzio perfetto nella stanza. Sul prato un annaffiatore stava disegnando ventagli d’acqua; ogni getto rimaneva sospeso in aria un istante, arcobaleno trasparente che riverberava nel sole, prima di cadere e infrangersi sull’erba. – Il cervello – riprese Kao – è sufficientemente perfezionato da recepire molteplici input combinati. Non siamo altro che un numero elevato di ripetizioni, gesti di routine che applichiamo a ogni situazione. La Fase Tre usa il cervello come una pellicola, negativo e positivo, cioè ricostruzione di esperienze originali, modulazioni di memoria, frammenti di personalità, dissolvenze. La mente assimila, compara i dati ricevuti, incrocia le informazioni tramite codici combinati e la gestazione ha inizio. Diciamo che il soggetto si “schiude” quando il processo ha termine e otteniamo non una copia, ma un nuovo originale. La stessa porta in fondo al salone si riaprì, lasciando entrare un altro Kao Yee in compagnia di un terzo. Gli sguardi allibiti dei presenti lasciarono trasparire pensieri nascosti che volteggiarono come fumo» (pp. 46-47).
Dalla presentazione del Progetto Lazarus in poi, le risurrezioni sarebbero state molte e avrebbero riguardato soprattutto persone potenti in grado di regalarsi una “seconda vita”. Tuttavia, la Multinazionale guidata dal potente industriale Hitasura ha finanziato la “rinascita” di Mishima probabilmente per motivi politico-elettorali e lo rivuole indietro alla svelta. Gabriel ritrova lo scrittore che vaga per Tokyo in una sala di pachinko e lo intercetta ma non lo riporta da chi lo ha pagato per ricercarlo; lo asseconda, invece, dialoga a lungo con lui e, infine, gli permette di abbandonare la città una volta imperiale per andare al monastero di Gesshu (come avviene nel romanzo Neve di primavera pubblicato nel 1968, primo della tetralogia finale Il mare della fertilità, terminata da Mishima prima di suicidarsi nel 1970). Qui il grande scrittore nipponico praticherà il seppuku rituale una seconda volta sfuggendo alla trappola che Hitasura aveva voluto tendergli facendolo rinascere. Ma Hitasura non gradirà troppo la perdita subita con la “seconda morte” di Mishima e cercherà di vendicarsi su Gabriel. Inseguito dal suo vecchio nemico Yasuwara, un poliziotto del Pensiero corrotto e vendicativo, Gabriel avrà con lui uno scontro di natura molto violenta da cui scaturirà una sorta di catarsi che ne cambierà da allora in poi il destino.
L’incontro con lo scrittore redivivo, infatti, gli ha permesso di trovare un codice di comportamento (lo Hagakure, il tradizionale modello di riferimento del bushido con le sue regole sagge e inalterabili) cui attenersi.
«Mi alzo e vado vicino alla battigia. Pesco il foglio dalla tasca. Ancora non so quando Mishima abbia avuto il tempo di scriverlo. Solo una frase su un brandello di carta preso chissà dove. Negli ultimi giorni l’avrò letto almeno cento volte. “Rifletto sui ricordi, mi appaiono come oggetti insignificanti, di nessuna utilità. Effimero conforto di esseri senza vigore, smarriti nel presente. Ho bisogno di loro per riconoscere la realtà, ma sono persi”. Mishima aveva capito che il suo mondo era già morto, due volte. Quello che non è riuscito a sopportare è stato che quanto cercava di far resuscitare non fossero altro che fantasmi. Ma forse aveva torto. La risacca si fa insistente. Getto il foglio in acqua e lo osservo scivolare via, trascinato al largo. Penso che ce ne staremo qui per tutto il giorno, Miko e io, a coltivare i nostri pensieri. Aspetterò il tramonto, quando la gente lascia il lavoro e gli uffici non sono più affollati. Aspettare non è mai stato un problema. Poi andrò a trovare Hitasura, e parleremo di rispetto. Un uomo appartiene all’epoca, ma la sua fama è eterna (HAGAKURE)» (p. 196).
Mishima è il vero protagonista di questo romanzo che solo per collocazione editoriale si può dire di genere. La sua figura giganteggia come quella di un mito rispetto alle silhouettes profilate dei vari personaggi buoni e/o malvagi che fioriscono tra le pagine dell’opera di Cola.
Rinato forzatamente per opera di un’illusione biochimica, il suo posto nella nuova cultura giapponese è quello di chi sa di non avere più un posto da nessuna parte. Morto una prima volta per cercare di illudersi di rimanere vivo nella memoria dei posteri, suicida all’apice del successo non per disperazione ma per essere all’altezza di esso e per mostrare un coraggio al limite dell’impossibilità di esistere, Mishima cede durante la sua prima vita (e alla morte ad essa conseguente) a quella che Marguerite Yourcenar ha chiamato con grande sollecitudine la “tentazione del vuoto”. Nel romanzo di Cola, invece, resiste efficacemente a quella strisciante sollecitazione nichilistica e muore proprio per dimostrare di essere esistito.
Nel suo vagabondaggio attraverso una Tokyo stralunata e spenta dove i luoghi di piacere si rivelano di una tristezza e di una noncuranza senza fine, dove non c’è spazio per la verità e tutti i giochi sono truccati, egli rivela una grandezza assorta e incrinata dal dolore di non poter vivere.
Gabriel, Miko, Hitasura, Hasuwara e gli altri personaggi del libro sono solo comparse destinate a sbiadire e a spegnersi nell’oblio. Solo lo scrittore emulo di se stesso si sente destinato a durare e a vivere per sempre – a costo di morire, naturalmente:
«Annuisce avvicinandosi. – Abbiamo tutti un giri da seguire, un dovere morale. E’ la traccia che ci rende unici, che ci rende uomini, nei dovuti limiti, e io non mi sento uno scarto. Ciò che il giri richiede è lo spirito di un guerriero, cioè qualcosa di fiero e puro. Nelle poche occasioni in cui le sono stato vicino ho percepito tutto questo, ce l’ha nell’animo. Ecco perché mi fido» (p. 93).
Il giri è il codice morale cui non si può mancare a nessun prezzo – meglio la morte che l’abbandono del suo senso profondo e inappellabile. Aiutando Mishima a morire, anche Gabriel diventa una sorta di samurai di un secolo imprecisabile dove onore, fedeltà e lealtà rischiano di essere parole obsolete (se non lo sono già diventate). Lazzaro costretto a morire per poter esistere davvero, Mishima diventa il simbolo di un’epoca che non c’è più e che rivive soltanto quando è necessario e vitale per poi tornare a morire ancora…
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)
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