Storia del gioiello, dall'antichità status symbol del potere economico.
di Samantha Lombardi
Fonte: http://www.ilpatrimonioartistico.it
Se tra le prime capacità dell’uomo ci fu probabilmente quella di esploratore, l’impiego di ornamenti personali è antico quanto l’uomo che, sin dal Paleolitico Superiore (30000/20000-8000 a.C.), sviluppò la tendenza a realizzare collane composte da conchiglie, pezzetti d’osso e di pietra e denti di animali; testimonianze, che sono state rinvenute nelle capanne, nei ripari sotto roccia e nelle tombe.
E’ evidente che quando l’uomo imparò a lavorare l’oro, l’unico metallo che si trovi allo stato naturale nelle sabbie del deserto o fra i sassi dei fiumi, si ebbe un rilevante aumento sia nella qualità che nella diffusione degli oggetti ornamentali. Si aggiunga anche l’organizzazione dei sistemi di scambio a breve, medio e lungo raggio che fece confluire, nei territori del Vicino Oriente e in Egitto, molte pietre preziose che si trovavano accostate con l’oro e con l’argento in sofisticati monili già quando, nella prima metà del III millennio a.C., si consolidarono le grandi civiltà urbane nella Valle del Nilo, nelle Valli del Tigri e dell’Eufrate.
Lo svilupparsi di una società gerarchizzata, con al vertice il faraone o il re-sacerdote e al livello intermedio gli artigiani, privilegia i gioielli come simboli di diversificazione sociale: essi sono riservati, di conseguenza, al re e agli alti dignitari, oltre che ovviamente alle divinità, concepite in veste umana.
Questa funzione esclusiva di cui beneficiano i gioielli per almeno duemila anni in Egitto e nell’Asia anteriore antica, sia nell’ambito religioso e funerario che nella vita quotidiana, si riduce in parte all’inizio dell’età del Ferro a causa dei Fenici, che per le esigenze legate al loro commercio, con i popoli mediterranei, creano e diffondono, accanto a vari gioielli di raffinata fattura in oro e pietre dure, ornamenti personali in argento, bronzo, pasta vitrea ecc.
Il declino delle aristocrazie greche ed etrusche, porta all’involuzione della produzione orafa, che, in Grecia, si allontana inevitabilmente dai modelli della grande opera scultorea, causando un impoverimento di tipi e di tecniche, salvo alcune rare eccezioni, nel V secolo a.C.
Non è una coincidenza se nel mondo greco l’arte orafa assume nuovamente valore autonomo, perché, ciò avviene ancora una volta nell’ambiente di corte e precisamente in quello macedone di Filippo II. La tradizione aulica continua anche con il figlio dello stesso Filippo, Alessandro Magno e con i suoi successori, dove i gioielli regali sono destinati sia all’uso quotidiano che alla collocazione nelle sepolture.
Dopo il rigore dei tempi repubblicani, anche a Roma, a partire dalla prima età imperiale, si accolgono orafi e incisori di gemme, di origine greca, per soddisfare la crescente richiesta di sfarzosi manufatti per ornamento personale riservati alle donne ma anche agli uomini più illustri sia per nascita che per censo. La documentazione che ci hanno lasciato i centri vesuviani, sepolti nell’eruzione del 79 d. C., può considerarsi esaustiva perché ci permette di conoscere i tipi di gioielli in uso a Roma e nel resto del mondo romano nella prima età imperiale.
E’ senza dubbio l’Egitto a costituire una tappa importantissima nella storia del gioiello preclassico, sia per l’antichità delle testimonianze pervenuteci, grazie al perfetto stato di conservazione e, quasi sempre in contesti ben databili, che per lo straordinario livello tecnico raggiunto dagli orafi, ma soprattutto per la vastità della documentazione che trova evidente confronto, oltre che nei testi, anche nella ricchissima serie di scene di vita quotidiana, rappresentate sulle pareti interne delle tombe, dove sono riconoscibili le varie fasi di lavorazione dei gioielli con un’attenzione del dettaglio che trova sporadicamente riscontro in altro luogo.
L’esigenza fondamentale proposta della gioielleria egiziana fu, all’inizio, quella di creare oggetti che, sia per le proprietà intrinseche dell’oro, sia per la facile lettura dei motivi che essi raffiguravano, fossero in grado di annullare le forze del male. Da ciò deriva la presenza di gioielli-amuleti che ritraevano quegli stessi animali pericolosi da cui si voleva allontanare il pericolo. Per lo stesso motivo si crearono amuleti a protezione delle parti più sensibili del corpo che, per i faraoni, erano realizzati in metalli e pietre preziosi, configurandosi di conseguenza come veri e propri gioielli.
Questa perfezione tecnica, raggiunta nei gioielli dell’Antico Regno, intorno al 3000 a.C., è soprattutto evidente nei braccialetti in argento, metallo assai raro in Egitto fino al Medio Regno, con intarsi in corniola, turchese e lapislazzuli. L’abilità nel lavorare a sbalzo, a stampo e a fusione l’oro e l’argento, accostandoli a pietre dure dai colori smaglianti, raggiunge vertici eccezionali nei gruppi di oreficerie del Medio Regno (2040-1785 a.C.) provenienti da Dahshur, el-Lisht e Lahun, località che si trovano a sud di Saqqara, dove sorgevano le tombe reali della XII dinastia (2000-1850 a.C.), che si contraddistinguono per la raffinata creatività dei modelli destinati a diventare usuali nella gioielleria faraonica; ne sono esempio i pettorali a forma di tempietto con scene simboleggianti il viaggio ultraterreno del defunto regale e la sua resurrezione. La delicatezza e l’eleganza delle linee di contorno delle figure, ravvivate da intarsi di pietre dure policrome, decadranno, nei pettorali della XVIII e XIX dinastia, in un barocco appesantito da intricati motivi, la cui pesantezza non viene diminuita nemmeno dal cromatismo degli smalti, sempre più stridenti e pomposi.
Nei gioielli del Medio Regno, compare, per la prima volta, la tecnica della granulazione: di origine mesopotamica raggiunge la Valle del Nilo, attraverso Biblo, probabilmente con l’intermediazione siriana. Mentre nel Nuovo Regno (1550-1075 a.C.), nelle tombe dei faraoni, fanno la comparsa massicci pettorali, ricchi di intarsi colorati che comprendono pasta vitrea e smalti.
Il sorprendente corredo di oggetti preziosi, collocato nella tomba del faraone Tutankhamon nella Valle dei Re a Tebe (1341-1332 a.C.), ritrovato intatto da Howard Carter e Lord Carnavon nel 1922, testimonia a quale livello di originalità e di fastosità fosse giunta, verso la fine della XVIII dinastia, la lavorazione dell’oro e delle pietre preziose.
La straordinaria perfezione tecnica, degli orafi di corte, si rivela principalmente negli anelli d’oro, con castoni incisi, ma anche nei numerosissimi pettorali che custodivano la mummia del re. Nonostante la magnificenza degli smalti in pasta vitrea, che ben si combinano, nella tecnica del cloisonné (veniva utilizzata per incastonare intarsi di pietre preziose, semi-preziose o di pasta vitrea colorata in un alveo d’oro), con oro e corniola rossa, traspare una certa pesantezza nel disegno se confrontati con i pettorali dai motivi più eleganti e distanziati del Medio Regno.
L’ultimo enorme complesso di oreficerie faraoniche, in grado di rapportarsi con quelle di Tutankhamon, proviene dalla necropoli di Tanis, la città del Delta egiziano, dove furono sepolti i sovrani della XXI dinastia (1085-945 a.C.) ed alcuni della XXII (945-773 a.C.).
Sono principalmente i corredi di Psusennes I e di Amenemope a confrontarsi, in splendore e perfezione tecnica, con quelli della XVIII dinastia. La superiorità delle oreficerie di Tanis (XI-VIII secolo a.C.), che utilizzano abbondantemente l’argento, si evidenzia nei pendagli con un imponente scarabeo alato, in diaspro, che sostiene il cartiglio del faraone, posto, nei pettorali a tempietto di modello più tradizionale.
A differenza dell’Egitto, territorio ricco di materia prima quale l’oro, la Valle dei Due Fiumi vive situazioni discontinue nello sviluppo dell’arte orafa, perché, le stesse sono condizionate sia dalle ostilità politiche, che dalla mancanza di materie prime quali metalli e pietre preziosi, anche se è, archeologicamente provato, che l’oro era conosciuto nel Nord del Paese sin dal tardo IV millennio. Con la stabilizzazione delle città-stato sumeriche ( circa 3000-2400 a.C.) e con il concentrarsi della ricchezza nell’ambiente regale e templare sorgono gruppi più consistenti di oreficerie. Le più note, per qualità e quantità, provengono, senza dubbio, dalla necropoli reale di Ur, nella Bassa Mesopotamia, utilizzata tra il 2600 e il 2000 a.C.
I gioielli più affascinanti e più noti appartengono al corredo funerario della regina Pu-abi. Il lapislazzulo, pietra semipreziosa, che proveniva dalla Mesopotamia, risulta essere la componente basilare delle collane rinvenute anche in altre tombe della necropoli di Ur, dall’archeologo inglese Leonard Woolley, che la scavò tra il 1926 e il 1932. Vi sono presenti anche perle, a doppio tronco di cono, in agata, in corniola, ma anche in argento e in oro. Una di queste collane è il più antico esempio di quella particolare tecnica definita “a granulazione” che nei primi secoli del II millennio a.C. si affermerà in Siria, ad Ebla e a Biblo. Decorazioni in filigrana e in cloisonné completano la visione ricca e multiforme delle oreficerie di Ur. Questi sono però reperti unici, tesori reali e ci raccontano solo in parte l’evoluzione di uno stile.
In età accadica (2370-2190 a.C.), sempre nella necropoli di Ur, si evidenzia la comparsa di placche frontali in oro o argento che sostituiscono le elaborate corone del primo periodo sumerico e si moltiplicano le varietà di perle, realizzate in pietre dure, che compongono le collane.
Anche nella città di Assur si attestano, nel periodo medio-assiro (XV- XI a.C.), le testimonianze più importanti, nella storia dei gioielli mesopotamici, prima della splendida fioritura dell’arte neoassira (IX-VI a.C.). Da una tomba, databile al regno di Tukulti-Ninurta I (1244-1208 a.C.), provengono varie collane e orecchini, caratterizzati dalla granulazione e dal cloisonné, che costituiscono la testimonianza della forte influenza egiziana, insinuatasi, presumibilmente, attraverso la Siria. Vengono invece utilizzate montature in oro arricchite da elementi granulati e a sbalzo per i pendenti in onice, cristallo di rocca, corniola, diaspro.
E’ un vero peccato che, a causa delle ripetute spoliazioni e distruzioni a cui andarono soggette le capitali dell’impero, dei gioielli assiri restano ben poche testimonianze.
L’espansione dell’impero oltre i confini conosciuti della Valle dei Due Fiumi, verso l’Urartu e la Siria a nord, l’Elam ad est, spinge orafi e toreuti stranieri a stabilirsi in Assiria; ciò determina l’importazione di tecniche e di forme di gioielli ispirate a quelle dei popoli confinanti quali siriani, anatolici e iranici. Fra le oreficerie maschili trovano spazio armille da portare all’avambraccio e brattee in lamina metallica che adornano sia le vesti e le tiare del sovrano che degli alti dignitari. Le vesti regali e del comandante dell’esercito raggiungono il massimo splendore, fra i regni di Sargon II (721-705 a.C.) e di Assurbanipal (668-626 a.C.), quando arrivano a copiare manifestatamente quelle delle divinità.
La scoperta di una progredita civiltà nata ad Ebla, sin dalla seconda metà del III millennio a.C., ha collocato in una nuova luce l’origine delle oreficerie siriane e palestinesi, altrimenti conosciute solo dai gioielli di stile egittizzante di Biblo. Difatti, sotto il Palazzo Occidentale di Ebla, distrutto intorno al 1650 a.C., alcuni archeologi italiani hanno scoperto alcune tombe sotterranee che accoglievano i resti degli splendidi corredi principeschi, in cui larga parte comprendeva raffinati oggetti di ornamento.
Dalla tomba che gli archeologi italiani hanno denominato “del signore dei capridi” proviene il pezzo più notevole dell’oreficeria di Ebla, anche se il motivo stellare è di origine mesopotamica: si tratta di una collana d’oro, sicuramente, uno dei prodotti qualitativamente più alti realizzati da una scuola orafa siriana, fiorita a Ebla nel tardo XVIII secolo a.C.
Si può ipotizzare che sono stati creati da un’oreficeria locale di Biblo anche la maggior parte dei gioielli rinvenuti nella necropoli reale e nelle aree sacre della città, i cui sovrani sono contemporanei dei faraoni della XII dinastia. Considerando gli stretti rapporti che, fin dall’Antico Regno, esistevano fra l’Egitto e il grande porto siriano, non sorprende che i sovrani locali del XIX e del XVIII secolo, si fecero seppellire con i massici e sfarzosi gioielli propri dell’apparato funerario egiziano, anche se si riscontrano leggere differenze se confrontati con i gioielli faraonici del Medio Regno, ciò conferma l’origine locale delle famose e raffinate oreficerie di Biblo.
Anche in altri gioielli palestinesi del Medio e del Tardo Bronzo, come quelli rinvenuti nelle tombe di Tell el- Aggiul, l’antica Gaza (1700- 1350 a.C.), sono testimoniate tutte le tecniche presenti a Biblo: la granulazione, la filigrana e il cloisonné.
Fra i modelli di orecchini più caratteristici si elencano quelli ad anello con pendenti, quelli lunati con motivi granulati; la stessa influenza egiziana si riscontra anche negli orecchini presenti a Gaza con schema cruciforme in cloisonné. Ammirevole è la perfezione tecnica nell’accostare pietre dure e paste vitree incloisonné con la granulazione che perfeziona i contorni.
Nella Siria del Tardo Bronzo (circa 1550-1200 a.C.) l’ornamento più caratteristico e meglio attestato, in una diversa gamma di modelli, anche in zone palestinesi, è un pendente ovale che sulla parte frontale presenta l’immagine di una dea nuda e motivi decorativi accessori a sbalzo e a punzone nel campo. Nonostante la continuità di alcuni elementi egiziani come l’acconciatura hathorica e gli steli con fiori di loto, tenuti nelle braccia piegate, affermati innanzitutto a Ugarit, fra il XIV e il XIII secolo a.C., manifestano un’elaborazione locale, propria di molti centri siriani, dell’immagine divina di Astarte.
La tradizione metallurgica fiorente in Anatolia, fin dal Calcolitico (IV millennio) si manifesta in due gruppi di oreficerie nel successivo Bronzo Antico. Si tratta dei “tesori” di Troia e dei gioielli della necropoli “reale” di Alaca Hoyuk, due località molto lontane l’una dall’altra e con radici etniche e culturali diverse. I corredi funebri di quest’ultima, si inseriscono in un quadro di evolutissime manifestazioni metallurgiche, che hanno il loro centro di diffusione nel nord del Caucaso e che raggiungono l’altipiano anatolico attraverso la zona pontica.
Più sfarzosi sono i tesori delle oreficerie rinvenuti a Troia, fra il 1873 e il 1890, da Heinrich Schliemann, che erroneamente attribuì alla città di Priamo, ma risalenti al Bronzo Antico finale (tra il 2000 e il 1900-1850 a.C). Purtroppo i gioielli più belli, conservati al Museo di Berlino, andarono smarriti nel corso del Secondo Conflitto Mondiale; rimane qualche pezzo superstite ad Atene e ad Istanbul, unitamente alla documentazione fotografica realizzata al momento delle scoperte, in cui l’immagine della moglie di Schliemann compare adornata con alcuni dei gioielli rinvenuti a Troia. Si nota che l’elemento tipicamente troiano è rappresentato dalle numerose catenelle in filo d’oro che terminano con piccoli idoli stilizzati.
Alquanto scarse, anche se di alto livello tecnico, sono le oreficerie cretesi che possono aver rappresentato, una delle fonti d’ispirazione della gioielleria micenea. Le più antiche provengono dalla piccola isola di Mochlos (Creta orientale) e derivano dal Minoico Antico II (circa 2200 a.C.). Tra i gioielli spicca un diadema in lamina con gli occhi disegnati a punzone, che era sistemato sul volto del defunto anticipando un rituale funebre più tardi ampiamente diffuso a Micene. Particolarmente famoso, per l’eleganza del disegno e la sofisticata decorazione a granulazione, è un gioiello, composto da due calabroni che succhiano il miele da un favo, rinvenuto in una tomba della necropoli di Chrysolakkos a Mallia, utilizzata tra il 1900 e il 1600 a.C.
Nelle tombe di Micene, accanto all’oro, materiale prezioso, le cui fonti di approvvigionamento restano oscure, oltre agli oggetti di ornamento personale, ma anche per vasi, armi e maschere funerarie, compaiono le paste vitree, il cristallo di rocca, l’elettro. Addirittura il ferro si annovera fra i metalli nobili, come mostrano alcuni anelli provenienti dalle tombe di Kakovatos e di Midea a Micene, che presentano un castone composto da quattro lamine sovrapposte di argento, piombo, rame e ferro.
Influenze minoiche si osservano nei pendagli in lamina d’oro con polipi, sfingi ecc., anche se, gradualmente, come avviene per gli anelli, la serie naturalistica del ciclo cretese cede il passo a motivi geometrici, rosette e motivi stellari.
I commerci fenici, diretti verso l’Occidente mediterraneo, che contraddistinguono i primi secoli del I millennio a.C., recano concreti cambiamenti nell’arte orafa vicino-orientale. La diffusione di questo genere artigianale viene immediatamente adottato e origina imitazioni, più o meno simili agli originali, da parte delle genti locali.
La granulazione e la filigrana, tecniche di antichissima tradizione dell’Asia anteriore, adottate prontamente dai Fenici, vengono introdotte in quei territori che avevano fino ad allora conosciuto esclusivamente un’attività metallurgica rivolta alla fabbricazione di oggetti cultuali e d’uso quotidiano. In breve, cambiano le stesse motivazioni socio-economiche che sono alla base della committenza e della fruizione delle oreficerie: i gioielli non sono più una prerogativa delle aristocrazie ma si diffondono largamente in più ceti sociali. Tale diffusione va sicuramente a discapito della delicatezza e della preziosità dei materiali che vede anche l’uso delle paste vitree e della maiolica invetriata. Metalli meno nobili come l’argento si diffondono in quei territori come la Spagna e la Sardegna, che possono contare sui propri giacimenti di piombo argentifero (galena). La ricchezza di motivi di origine egiziana, si rafforza e si carica ancor di più di significati magico-apotropaici restando tipica nel tempo dei gioielli fenici o di ispirazione fenicia.
La produzione di gioielli fenici incontra alcune limitazioni derivate sia dall’assenza di materie prime (metalli e pietre dure) in Sicilia e nel Nord Africa, che dalla perdita della documentazione delle città fenicie. Sono pertanto le colonie, da Cipro alla Sardegna a Cartagine, dalla Sicilia alla Spagna, a fornire, gli elementi per una storia dell’oreficeria fenicia e per l’identificazione dei suoi principali centri di produzione. Cartagine, una delle più antiche colonie d’Occidente, fin dall’età più antica, fu indubbiamente sede di una fiorente produzione orafa, che comprende anelli da naso, da dito e da caviglia per lo più in argento, orecchini, medaglioni, pietre dure e paste vitree. Fra gli anelli, che si rifanno ai modelli in uso nella madrepatria fenicia, i più caratteristici sono quelli a castone girevole con uno scarabeo in pasta o in pietra dura, montato in oro.
A differenza di Cartagine, la documentazione dei gioielli di cui dispongono le altre colonie fenicie e cartaginesi del Nord Africa è ampiamente inferiore, in quanto, condizionata dalla mancanza di materie prime quali metalli e pietre preziosi, la stessa cosa si può affermare per Malta e per la Sicilia. Caso a sé sono la Spagna meridionale e la Sardegna che, oltre a possedere notevoli risorse di metalli pregiati e pietre dure, spiccano per le soluzioni molto originali trasmesse al repertorio di tradizione fenicia. Originalità che si evidenzia nei lavori delle tre maggiori oreficerie spagnole le quali risentono anche delle influenze dell’arte greca e soprattutto etrusca, diffusa nel Mediterraneo occidentale fra l’VIII e il VII secolo a.C. Si tratta dei “tesori” del Carambolo, di Evora in Andalucia e dell’Aliseda in Extremadura. I tre gruppi di gioielli includono oggetti estranei al mondo vicino-orientale, come il cinturone dell’Aliseda o il diadema proveniente dallo stesso contesto; per questi due esempi si sono proposti attendibili confronti con le oreficerie orientalizzanti etrusche che, rifacendosi al gusto locale, ricopiano modelli e tecniche levantine. Dal villaggio indigeno del Carambolo a Siviglia provengono le preziose oreficerie dal carattere marcatamente locale. Di forma e decorazione geometrica sono i pettorali, le piastre d’oro massiccio di varia grandezza e la collana a doppia catena di maglia d’oro con pendenti, gioielli, che non trovano confronti diretti nel mondo fenicio. Di conseguenza, questo straordinario complesso di oreficerie, è stato attribuito a una bottega originaria del basso Guadalquivir, che ha fatto tesoro delle sofisticate tecniche introdotte dai Fenici, stabilitisi a Cadice, fin dall’VIII secolo a.C.
In Sardegna, un grande centro di produzione orafa, che si caratterizza di gran lunga sugli altri, è Tharros, un paese sulla costa occidentale dell’isola, che sfrutta la sua posizione privilegiata per i traffici che intercorrono da e verso la Spagna e l’Italia medio-tirrenica. E’ tuttavia ovvio che il ruolo predominante delle botteghe orafe di Tharros non esclude la presenza di altri centri per la creazione dei gioielli; ne troviamo un esempio nel magnifico anello da Sulcis che ha per castone una rosetta granulata ravvivata dal cloisonné. Non si deve però sottovalutare né l’effettiva corrispondenza del repertorio di Tharros con quello cartaginese nell’uso di tipi di anelli e di orecchini già testimoniati saltuariamente in Fenicia in epoca arcaica, né, tantomeno, la limitata circolazione dei gioielli tharrensi dentro e fuori la Sardegna. Tuttavia anche se sussistono questi presupposti non si può non ammirare la grandissima varietà dei manufatti di ornamento personali realizzati dalle officine della città sarda e che ritroviamo nei bracciali, anelli, pendenti, orecchini. Fra vari tipi di orecchino, con elaboratissimo pendente, ve ne sono alcuni che si dimostrano essere creazioni originali e caratteristiche delle botteghe locali.
Dopo i due secoli bui successivi la caduta della società micenea, non è casuale che, nella Grecia di età geometrica (X-IX secolo a.C.), i più arcaici e isolati esempi di gioielli giungano da quelle regioni che rappresentavano le tappe obbligate che si incontravano, lungo le rotte dei mercanti levantini, da Oriente a Occidente quali: Creta, l’Eubea e l’Attica. Nell’antica Grecia il gioiello si diffonde come ornamento e gran quantità di reperti ci documenta quanto i gusti si sono evoluti e trasformati nel tempo. L’arte della lavorazione dei metalli lascerà molte testimonianze, grazie anche ad una maggiore stratificazione sociale.
Proviene da Atene una serie di diademi nastriformi a sottile lamina d’oro, stampigliata con motivi geometrici e figure d’origine orientale, che venivano prima posati sulla fronte del defunto e poi, dopo la cremazione, sigillati nell’urna con le sue ceneri. Accanto a questi primi lavori di oreficeria che, tra la seconda metà del IX e fine dell’VIII secolo a.C., si distribuiscono ad Atene appaiono testimonianze, a Corinto, Eleusi ed Eretria in Eubea, di oggetti di ornamento in metallo prezioso d’uso quotidiano, anch’essi di stampo orientale. Provengono da una tomba di un’aristocratica ateniese (850 a.C.) alcuni anelli, una collana con dischetti in faience e un paio di preziosi orecchini con pendenti, ornati da intricati motivi a filigrana. Si tratta della creazione di un orafo ateniese che aveva imparato le sofisticate tecniche ornamentali utilizzate nelle botteghe fenicie.
La granulazione, unita all’intarsio con ambre, compare ad Eleusi, intorno all’800-760 a.C., negli orecchini lunati con lunghi pendenti; stesse tecniche decorative, sempre d’ispirazione orientale, le ritroviamo (VIII secolo a.C.) anche nelle placche aure dei pettorali. Affinché la produzione di oreficerie si diffonda in Grecia bisogna attendere l’età orientalizzante, quando le scuole di Creta e Rodi (fra VIII e VII secolo a.C.), rimaneggiano con stile originalissimo modelli e tematiche di evidente derivazione siro-fenicia. Questo stile di età orientalizzante viene identificato in due pendenti rinvenuti in una tomba minoica di riutilizzo, della necropoli di Tekké a Cnosso: il primo è una mezzaluna in cristallo di rocca contornato da un filo d’oro ritorto e pendenti sospesi a catenelle, l’altro, sempre a mezzaluna, in lamina d’oro chiusa a tubo, ha una treccia in filigrana e due testine alle estremità. Fra il 660 e il 620 a.C. è attiva, a Rodi, una fiorente scuola di oreficerie, che sviluppa un’ampia varietà di tematiche e modelli. I gioielli del VII secolo sono costituiti principalmente da splendidi pendenti a lamina rettangolare sbalzata, talvolta a catenelle con melograni e rosette granulate, che rappresentano soggetti d’ispirazione orientale, quali: il centauro, la sfinge e la “signora degli animali”, che tradotti in immagini rivelano l’adattamento del repertorio esotico al gusto locale.
In epoca arcaica (VI secolo a.C.), a causa delle leggi suntuarie ateniesi che limitavano il lusso dei ricchi, fanno la loro comparsa gioielli dalle forme molto più semplici e scarsamente documentate solo indirettamente da vasi, sculture, ecc…; si tratta in maggioranza di orecchini a cerchio con un piccolo pendaglio a grappolo o a mezzaluna in lamina d’oro granulata. Verso la fine del V secolo i pendagli si allungano e si arricchiscono di catenelle, mentre appare anche l’orecchino a spirale con le estremità ornate di teste umane o di animali a sbalzo. Nel corso del V secolo a.C. fiorisce, invece, la moda delle statue crisoelefantine, dove, le parti nude erano realizzate in avorio mentre l’oro, sbalzato, cesellato e graffito decorava le vesti, gli ornamenti del capo e gli attributi.
Sicuramente questa moda originò un’ulteriore perfezionamento nelle tecniche di lavorazione e nella gamma di applicazione dell’oro. Dei grandi lavori crisoelefantini creati da Fidia per Atene, rimane solo una tenue testimonianza nella tradizione letteraria e in copie posteriori. A partire dal IV secolo la documentazione ritorna più che abbondante, grazie ai grandi centri di arte orafa che sorgono attorno alla corte di Filippo II di Macedonia e di Alessandro Magno ad Alessandria e in altri centri del mondo ellenistico, anche se, le oreficerie ellenistiche più importanti sono attestate nelle regioni periferiche della Magna Grecia, dell’Etruria e della Russia meridionale. Nel IV e III secolo a.C. è attivo, a Taranto, un’importante centro di oreficerie che condiziona gran parte della coeva produzione apula, campana ed etrusca. Da esso provengono corone funerarie a foglie in lamina d’oro e diademi di leggera delicatezza. Dalle stesse officine proviene anche un’importante serie di anelli d’oro con il castone inciso, modello che vedrà un’evoluzione anche nella forma del castone che diventa ovale e definita “a occhio”. Compare quindi a Taranto quella serie di soggetti che l’ellenismo propaga dalla Macedonia alla Crimea e che è costituito da scene mitologiche o da figure singole. In Grecia, a partire dalla fine del IV secolo a.C., entrano in voga gli anelli con gemme incastonate, i soggetti incisi corrispondono, in parte, con quelli degli anelli a castone d’oro massiccio e beneficeranno di grande fortuna nel mondo romano di età imperiale. L’ultimo tipo di gioielli ampiamente diffusi nel mondo ellenistico e realizzati anche a Taranto è rappresentato dai sontuosi orecchini a rosetta o a disco, con decorazione a filigrana o a granulazione, cui sono attaccati, con lunghe catenelle, pendenti di vario tipo. I pendenti mostrano una tale perfezione tecnica che è rimasta unica nelle età successive, non da meno è la raffinata fantasia inventiva che nelle produzioni della Macedonia, della Tessaglia e della Russia meridionale sfiora il barocchismo. A partire dal II secolo i pendenti sono saldati direttamente al gancio e la doppia lamina lascia il posto ad un’unica lamina.
La produzione delle oreficerie etrusche inizia ad assumere una propria fisionomia, solo nella seconda metà dell’VIII secolo a. C. La sempre più crescente richiesta di oggetti d’oro, considerati simbolo di benessere sociale, si rispecchia nella fama di sfarzo e ricchezza di cui godettero gli Etruschi. Ciò determina la migrazione, sulle coste dell’Etruria tirrenica, di artigiani siriani e fenici, esperti orafi e toreuti, che accostano le sofisticate tecniche della granulazione e della filigrana su un repertorio di oggetti di ornamento personale, quali fibule, affibiagli e cinturoni, ancora appartenenti alla tradizione villanoviana (X-IX secolo a. C.). Per quanto riguarda l’ideologia funeraria, largamente documentata, la nuova acquisizione di splendidi oggetti di ornamento personali si rivela, soprattutto, nei ricchissimi corredi delle maestose tombe risalenti al 675-650 circa a. C.; ne sono esempio la Regolini- Galassi, di Cerveteri, nell’Etruria Tirrenica e quelle Bernardini e Barberini di Palestrina nel Lazio meridionale etruschizzato.
Le tombe contenevano magnifiche parures di gioielli appartenenti alle defunte di alto rango, in esse deposte. Facevano parte del corredo spilloni, fermatrecce, fibule e bracciali d’oro, lavorato a sbalzo, con motivi a granulazione; le collane sono arricchite con pendenti di sicura ispirazione siro-fenicia, come i medaglioni rotondi o i busti femminili usati come fermagli per cinture, mentre i bracciali presentano sia un nastro trinato, chiuso da cerniere e ganci, che una fascia rettangolare in lamina d’oro con figure femminili a sbalzo. Questi modelli caratterizzano anche le oreficerie proprie dei corredi maschili come le fibule con staffa a disco. Provenienti dalla tomba Regolini-Galassi, sono la famosissima fibula con leoni, di modello assiro, realizzati su piccole lamine ritagliate e punzonate e l’altrettanto noto pettorale ovoidale, attribuito a una bottega di Caere (Cerveteri).
Nella prima metà del VI secolo a. C. diminuiscono i molteplici gioielli collocati nelle tombe e si riscontra anche una differente distribuzione dei maggiori centri di arte orafa. Alle città di Cerveteri, Vetulonia e Tarquinia, produttive nel periodo orientalizzante, subentrano quelle di Vulci e Populonia che, nella seconda metà del secolo, riflettono le influenze dell’arte ionica, presenti nella produzione figurativa etrusca.
Dalle necropoli di Populonia fanno la comparsa spilloni per capelli, sulla cui capocchia vi è una testa di animale, e soprattutto un nuovo tipo di orecchino “a bauletto”, decorato a filigrana con inserzioni in pasta vitrea. Questa propensione per le paste vitree dai colori vivaci, che si intervallano con grani e pendenti in oro, si rispecchia anche nelle collane, come quella rinvenuta a Vulci durante gli scavi archeologici dell’ottocento, in cui pendenti a testa femminile, di satiro e di Acheloo, si alternano con corniole e sardoniche. Unitamente all’orecchino “a bauletto” diffuso sia in l’Etruria che in territorio falisco, si attesta quello “a borchia”, di origine lidia che ritroviamo sia in preziosi esemplari che in vari monumenti, quali specchi in bronzo, cippi, pitture ecc.
A partire dalla seconda metà del VI secolo a. C. si diffondono rapidamente gli anelli digitali con il castone sbalzato, intagliato o inciso a cartiglio rettangolare; lo stile tipicamente ionico fa supporre una sicura migrazione in Etruria di artigiani greco-orientali. Non sono certamente casuali le coincidenze che questi anelli presentano se confrontati con una categoria di vasi creata a Vulci, fra il 540 e il 520 a. C.; ciò dimostra, come per gli orecchini “a borchia”, che proprio questa città rappresentò uno dei principali centri di officine orafe.
Il gusto ellenizzante dell’arcaismo etrusco si evidenzia nel V secolo a. C. e particolarmente nel IV. Per il V secolo si hanno solo testimonianze dall’Etruria padana , come gli orecchini da Spina (in Abruzzo) con teste femminili e di Acheloo. Dalla fine del V secolo, la limitata documentazione si completa con le oreficerie riprodotte sulle terrecotte del santuario di Lavinio (Lazio meridionale) che coprono più di un secolo.
Le statue di Lavinio presentano pettorali semicircolari con figure realizzate a sbalzo, i cui personaggi derivano dal mito greco, insieme a diademi con fascia a sbalzo, orecchini e collane con perle rotonde od ovali. Notevole è anche il complesso di terrecotte votive di Lavinio; gli artigiani per decorare queste grandi figure, fatte a stampo, usavano calchi eseguiti su modelli in oro autentici per riprodurle poi sulla creta.
Negli ultimi trent’anni del IV secolo a. C. i gioielli etruschi, ispirati da influenze di gusto locale, si aprono alle correnti alessandrine e traco-macedoni. In Etruria sono innanzitutto gli orecchini a imitare i modelli macedoni, presumibilmente mediati da Taranto. Sono particolarmente rappresentativi della moda dell’epoca i tipi con anforetta granulata fra catenelle, prodotti a Vulci e a Cerveteri per tutto il III secolo a. C. e oltre.
Nel periodo in cui Roma celebra i suoi trionfi sulle città etrusche (311-245 a. C.), l’influenza delle oreficerie tarantine riporta all’apice la predilezione per la granulazione e la filigrana, tecniche non più usate dopo lo splendore dell’età orientalizzante.
A Roma, i primi lavori d’arte orafa si rivelano molto semplici, questo perché sono rigorosamente contenuti dalle leggi suntuarie. La legge più antica, quella delle XII tavole, stabiliva, infatti, la quantità d’oro che si poteva seppellire col defunto, mentre quella Oppia, del 215 a. C., vietava alle matrone di portare più di mezza oncia (più o meno 13 grammi) di gioielli d’oro ognuna.
Dagli Etruschi, i Romani, copiarono l’uso dell’anello digitale come segno di diversificazione sociale e di ricchezza, riservato, fino al II secolo a. C., a poche classi di alto rango e con il propagarsi della moda delle gemme incise, tra la fine della repubblica e la prima età imperiale, divenne di uso comune, tralasciando però il ferro in favore dell’oro. Di moda etrusca era anche il medaglione circolare a borchia portato come amuleto dai bambini fino alla maggiore età.
Numerose iscrizioni ci riferiscono della presenza a Roma, durante l’età imperiale, di artigiani riuniti in corporazioni di cui facevano parte: cesellatori d’oro e d’argento, doratori, battiloro, fabbricanti di anelli e commercianti di perle. Esistono, a testimonianza, alcuni bassorilievi funerari che li ritraggono al lavoro. Il più antico è il fregio dalla casa dei Vettii a Pompei, in cui si vedono amorini orefici intenti a compiere varie operazioni tipiche della lavorazione del gioiello. Invece la cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio ci offre un’immagine fedele dell’amore e dell’esibizione di gioielli sempre più pesanti e dispendiosi da parte dei nuovi ricchi.
In età repubblicana le oreficerie romane continuano, impoverite, a seguire i modelli e il gusto di quelle tardo-ellenistiche, etrusche e magno-greche. La propensione per le superfici lisce o sferoidali, che già si intravedeva negli orecchini a grappolo etruschi, contraddistingue un nuovo tipo di braccialetto, realizzato con una doppia fila di semisfere d’oro, saldate due a due. Al medesimo gusto si ispirano gli orecchini “ a spicchio di sfera” che si avvicendano a quelli con perle, conosciuti col nome di crotalia (crotali) per il tintinnio che producevano le perle quando si muoveva la testa.
Pompei, Ercolano, Torre Annunziata (l’antica Oplontis), centri dell’area campana, sepolti dall’eruzione del Vesuvio (79 d. C.), forniscono, fra il I secolo a. C. e il I secolo d. C., un quadro alquanto articolato di questi e di altri tipi di gioielli in voga nella società romana, quadro, tanto più prezioso in quanto la documentazione di Roma risulta largamente carente.
I numerosi anelli provenienti dai centri vesuviani sono in oro con un castone massiccio, accanto a quest’anello, di tradizione ellenistica, è presente anche quello serpentiforme a più spirali, il cui centro primario di irradiazione è stato individuato in Alessandria d’Egitto, dove il serpente era legato al culto di Iside e di Serapide. Culto che nel 48 a. C. fu introdotto a Roma.
Nel I secolo d. C. in questi luoghi si manifesta un vivace interesse per la policromia, tanto che le collane intervallano sempre più frequentemente i grani d’oro, agli smeraldi, alle perle, alle acquemarine, agli zaffiri e ai topazi; le pietre non sono più incastonate ma legate soltanto con un filo d’oro.
Particolarmente interessante è il gruppo di gioielli ritrovati, intorno al 1984, in una villa di Oplontis, attribuita a Lucio Crasso Terzio, distrutta nell’eruzione del Vesuvio. I gioielli rinvenuti sui corpi delle vittime del Vesuvio e nei forzieri delle ville, annoverano orecchini “a spicchio di sfera” con ampie superfici in oro, o con pietre di quarzo sistemate con motivo a “canestro”. Non mancano orecchini con pendenti di perle, mentre fra i molteplici anelli digitali risaltano quelli arricchiti da una maschera in altorilievo d’oro riproducente un attore comico e quelli a filo godronato, con o senza perla. Fra le collane, ve ne erano alcune lunghe, arricchite con pendenti, che arrivavano fino ai fianchi, ed altre a girocollo impreziosite da smeraldi grezzi alternati a grani rotondi in lamina d’oro.
Considerando il limitato periodo cronologico e culturale in cui si collocano i gioielli di Oplontis, i vari tipi, possono considerarsi propri di tutte le oreficerie romane della prima età imperiale: ciò è avvalorato sia dalla semplificazione delle forme e delle tecniche di tradizione alessandrina che dalla preferenza per l’oro massiccio, le pietre dure e le perle.
Nella ricostruzione della storia dei gioielli, dove questi non esistono più fisicamente, rimangono in ogni modo consistenti documentazioni pittoriche che ci rivelano un continuo cambiamento del gusto e delle tecniche. I più antichi sono i ritratti realistici del Fayoum (160-170 d.C.), eseguiti a tempera su legno, che immortalavano personaggi con ornamenti molto sobri.
Il vivace cromatismo supplisce spesso alla scarsa creatività dell’artigiano tanto che costituirà la premessa di un nuovo gusto diffuso nelle oreficerie del tardo impero, dall’Italia a Bisanzio e più lontano ancora in quelle del Medioevo europeo.
E’ evidente che la storia dei gioielli è indissolubilmente legata a quella dell’oro; metallo, luminoso e pesante, facile da lavorare che è ancora oggi il bene più desiderato. Il destino dell’oro è inimmaginabile: se sottoposto a fusione e rimodellato in nuove forme potrebbe esser stato da principio nei gioielli dei Maya, poi in monete spagnole, ma anche trasformato in gioielli dagli inglesi, rubato agli ebrei dai soldati tedeschi, o addirittura nascosto nei caveau svizzeri in depositi intestati a regnanti arabi.
Forse possiamo aggiungere che la storia dell’oro è una storia di avidità? E’ possibile, e di esempi ve ne sono tanti. Nella celebre Saga de “Il Signore degli Anelli” di Tolkien, il simbolo del male è incarnato proprio da un anello che attrae per il potere e che inevitabilmente corrompe, mentre l’eroe è colui che resiste a questo richiamo. Non è un caso che le religioni si siano sempre schierate contro l’oro, perché visto come simbolo del male; non dimentichiamo il giudizio di Mosè contro il vitello d’oro. Cosa dire del puritano Cromwell, che appena conquistato il potere in Inghilterra, alla prima metà del Seicento, fece fondere molti gioielli della corona inglese? Cosa dire della purezza religiosa che cede di fronte alla credenza popolare? Dove i gioielli diventano pegni di sottomissione all’Essere Supremo e le statue dei Santi sono ricoperte d’oro e di pietre preziose. Per fortuna la storia dei gioielli non è soltanto un intreccio di ambizione e di debolezze umane ma è principalmente la narrazione dello sviluppo delle capacità artigianali dell’uomo nel tempo.