Storia dell’olivicoltura in Sardegna
di Giandomenico Scanu
S’ignora l’epoca esatta della prima apparizione di Olea europaea in Sardegna ma gli spettri pollinici ricavati dai depositi di diversi siti provano la sua presenza nella copertura vegetale dell’isola già in età post glaciale. Dai reperti di carboni prelevati in siti del Neolitico è difficile stabilire se si tratti di legno di Olea europaea L. subs. sylvestris (Miller), o anche oleaster (Hoffm. et Link) oppure di Olea europaea L. var. sativa o
anche europea. Numerose informazioni testimoniano invece la presenza nell’isola dell’olivastro, la cui presenza è tutt’ora visibile. Le immense aree olivastrate estese per di migliaia di ettari, costituiscono, oggi come allora, parte integrante del paesaggio sardo. Alcuni ritengono che l’olivo poteva essere già presente nell’isola, in forme selvatiche spontanee, quando i sardi vennero a contatto con le civiltà dei Fenici e dei Greci. Sembrerebbe che talune delle venti varietà principali diffuse in Sardegna, di prevalente origine iberica, possano essere state introdotte durante la colonizzazione fenicio-punica. D'altronde esistono in Sardegna esemplari di alberi di olivo millenari, seppure rari e isolati, che scavalcano ampiamente l’età spagnola. Per quanto riguarda le piante di oleastro spontaneo plurimillenarie, si segnalano quelle di Santa Maria Navarrese (Oristanese), quelle di Luras (Gallura) e quella di Sarule (Nuoro) di circa tremila anni, dunque in piena età nuragica. Sono ben conosciute, fin dall’epoca nuragica, le tecniche di estrazione dell’olio di lentischio, usato anche per l’illuminazione, proveniente dalla flora spontanea che ricopre vastissime aree di tutto il territorio regionale. Le ricerche archeologiche degli ultimi anni, sviluppate in modo particolare nei siti nuragici, hanno ampiamente dimostrato l’importazione di olio d’oliva ed il suo utilizzo già dal XIV secolo a.C. Gli studi hanno messo in evidenza come parti di strutture rinvenute in alcuni siti possano essere attribuite a strumenti utilizzati per l’estrazione di olio; ma la mancanza di rinvenimenti di noccioli di olivo in ambito archeologico negano la possibilità di ipotizzare una qualche presenza dell’olivo coltivato. Tuttavia, non l’introduzione dell’olivicoltura, ma sicuramente l’immissione di olio d’oliva in Sardegna, può essere attribuita ai contatti tra l’ isola e le aree del Mediterraneo orientale connessa probabilmente alle importazioni metallifere, in particolare fra il mondo nuragico e la civiltà Micenea in cui l’olivo era coltivato a partire dal III millennio a.C. L’importazione di olio d’oliva in Sardegna, proveniente da diverse aree produttrici del Mediterraneo, è comunque attestata da numerosi ritrovamenti di materiali connessi alla sua diffusione. In epoca romana sono frequenti i riferimenti all’importazione di olio nell’isola per uso alimentare e per l’illuminazione. Più in dettaglio la Sardegna ha restituito imponenti quantità di anfore di tipo Africane, anche per il trasporto di olio, risalenti al III e IV secolo d.C. e rinvenute nei porti sardi di Karales (Cagliari), Nora, Bithia, Sulci, Neapolis, Tharros, Corpus, Sarcapos, e Turris Libisonis (Porto Torres). Nel VI secolo, durante il regno di Maurizio, dai documenti storici relativi ai dazi doganali si rileva che le merci importate dalla campagna sarda sono il grano, le palme, il bestiame, la carne, i buoi, i legumi, il vino, gli uccelli. Non compare così l’olio d’oliva. Anche in epoca romana non esistono dunque prove, né letterarie né archeologiche, per sostenere la produzione e/o l’esportazione di olio d’oliva della Sardegna. Nel medioevo la Sardegna ha visto l’alternarsi del dominio Genovese e Pisano con ripetuti scontri per il predominio del territorio. In questo periodo non sono riportati dagli storici riferimenti alla coltivazione dell’olivo anche se rimane nella memoria dei sardi il ricordo degli “olivi dei pisani”. Tanto Genova quanto Pisa, che vantano entrambi una antica tradizione olivicola, durante il periodo di domino si sono limitate al controllo ed allo sfruttamento del territorio. La Sardegna medievale, suddivisa in Giudicati, vide la supremazia del governo Genovese e, in quanto sostenitori dello Stato Pontificio, favorirono l’arrivo di monaci provenienti dal resto dell’Italia. Essi provvidero anche alla costruzione delle chiese e dei monasteri cui furono annesse vaste aree di terre circostanti gli edifici. Col diffondersi degli ordini religiosi nel medioevo l’olivicoltura iniziò ad avere un certo sviluppo, localizzato però esclusivamente nei territori prossimi ai monasteri. Nella Chiesa cattolica, la cui tradizione del Cristianesimo affonda le proprie radici nella religione di Israele, le unzioni con olio benedetto rientrano in diversi sacramenti e pratiche liturgiche. Pertanto la coltivazione dell’olivo per la produzione di olio da parte degli ordini religiosi ha sempre costituito una “necessità sacrale” e non, quindi, una pratica finalizzata esclusivamente all’uso alimentare o per l’illuminazione. Dopo il mille, con l’avvento dei Vittorini, la coltivazione ebbe un nuovo impulso, in particolare dall’anno 1080 al 1120, con gli ordini dei Cassinesi, i Camaldolesi, i Vallombrosani, i Cistercensi; l’opera fu alacre ed intelligente nell’attivare le aziende agrarie dei monasteri e dei territori limitrofi. In epoca medievale non si hanno comunque notizie di coltivazioni di olivo e la produzione di olio doveva essere probabilmente limitata, come già citato, alle esigenze dei riti religiosi. Nella tradizione consuetudinaria sarda del Medioevo non vi sono riferimenti alla coltura olivicola, segno che non sarebbe ancora introdotta. Gli Statuti di Sassari (1316) e la Carta de Logu (1390-1391) ignorano, ad esempio, questo tipo di piantagioni pur auspicandone la coltivazione. Anche in questo periodo era noto l’utilizzo di olio estratto dal lentischio, usanza praticata dalle popolazioni isolane fino all’inizio del XX secolo. Ancora nel 1353 erano noti i dazi doganali per l’importazione di olio d’oliva nei porti di Terranova (Olbia) e di Cagliari. Nella Sardinia brevis historia et descriptio, pubblicata a Basilea nel 1550, il cagliaritano Sigismondo Arquer scriveva che nell’isola non si innestavano gli olivastri e che si continuava ad importare l’olio d’oliva dalla Liguria e dalle Baleari. Uno dei punti da tenere presente per capire i problemi legati alla diffusione dell’olivo in Sardegna, si ricollega alla perenne lotta tra agricoltori e pastori per il controllo del territorio. Da epoche remote l’allevamento ovino e lo sfruttamento estensivo dei terreni per il pascolo delle greggi, costituisce una delle principali fonti di reddito del sistema agricolo isolano che ha creato, per contro, una monocoltura diffusa in tutto il territorio regionale. La ricerca continua di pascoli, che ha dato luogo al noto fenomeno della transumanza e del nomadismo, non ha consentito lo sviluppo di altre coltivazioni, motivo questo che spesso ha compromesso la stessa sopravvivenza degli oliveti per i quali, in seguito, saranno emessi provvedimenti incentivanti e di tutela. Nel 1297 Papa Bonifacio VIII, per porre fine alle lotte tra Pisa e Genova, cede la Sardegna, come intero feudo, al Re d’Aragona; da qui inizia il dominio spagnolo che si protrarrà per quasi 400 anni. La dominazione spagnola rappresenterà la svolta decisiva per dare impulso all’olivicoltura in Sardegna che vide la sua nascita nella seconda metà del ’500. All’inizio del ‘600 lo storico ed ecclesiastico sassarese Giovanni Francesco Fara, nella Chorographia Sardiniae, affermava che la coltivazione degli olivi era stata introdotta nella seconda metà del XVI secolo. Queste affermazioni vengono comprovate dal fatto che il Viceré Don Giovanni Colonna, barone d’Elda, il 27 febbraio 1572 emanava le prime disposizioni legislative affinché s’innestassero gli olivi selvatici, sottolineando che in Sardegna non vi erano mulini di olio. Successivamente il Viceré Gastone de Moncada il 20 giugno 1591 promulgò un pregone in cui si richiamava l’osservanza delle disposizioni precedenti. L’impulso maggiore a favore dell’olivicoltura fu dato sicuramente dal Viceré Juan Vivas (1624) che ribadiva la necessità di un graduale innesto degli olivastri, della multa di 40 soldi per chi non innestasse almeno 10 alberi all’anno, dell’acquisizione del fondo da parte del vassallo che avesse innestato gli alberi e dell’obbligo di costruire un mulino nei luoghi in cui vi fossero almeno 500 alberi, anche se non ancora innestati. Sempre lo stesso Vivas deliberava di chiamare da Valencia e Maiorca 50 specialisti innestatori per istruire i proprietari e i coltivatori sardi. A comprovare le chiare origini spagnole dell’olivicoltura sarda restano in uso ancora oggi i nomi di località iberiche attribuite a varietà di olive sarde: Palma (sinonimo di Bosana) Majoraca e Sivigliana. Altre varietà tutt’ora presenti e coltivate in Sardegna come la Pizz’e Carroga e Cornetti, presentano morfologia analoga alle cultivar spagnole Cornicabra e Cornezuelo. In seguito, sempre sotto la dominazione spagnola, i regnanti che si sono succeduti hanno difeso e rafforzato le disposizioni a favore dell’olivicoltura. Le ordinanze più articolate si avevano nel 1700 col pregone di Don Ferdinando de Moncada, duca di San Giovanni e Viceré di Sardegna. Nel Pregon general, tradotto in lingua italiana, si ordinava che tutti coloro che possedevano terreni comunque chiusi fossero obbligati a piantare olivi, pena 50 ducati di ammenda. I censori, funzionari incaricati per lo sviluppo agricolo, vigilavano affinché gli oliveti fossero tenuti separati dalle terre destinate al pascolo. Chi ottemperava all’obbligo di chiudere gli oliveti e di fare gli innesti avrebbe avuto in concessione il terreno. Per i proprietari vi era inoltre l’obbligo di installare un mulino. Il periodo Aragonese si concluse con l’avvento della dominazione Sabauda a partire dal 1714. I Savoia in Sardegna proseguirono l’opera di tutela e diffusione dell’olivicoltura anche per l’azione svolta nel secolo XVIII da due grandi scrittori e conoscitori dell’agricoltura sarda: il piemontese Francesco Gemelli ed il cagliaritano Giuseppe Cossu. Essi furono grandi ispiratori di atti legislativi a favore dell’agricoltura in generale e dell’olivicoltura. In particolare il Cossu, nominato Censore, si arrogava il potere legislativo che non gli competeva con l’emanazione di provvedimenti sotto forma di istruzioni. Nel 1789 veniva pubblicata a Torino una sua Istruzione olearia ad uso dei vassalli del Duca di San Pietro. Il testo, corredato da numerose tavole raffiguranti i diversi tipi di frantoi, si occupava essenzialmente “Dell’arte di estrarre l’olio dall’uliva” Sempre il censore Giuseppe Cossu nel 1771 ispirò il pregone del Viceré Des Hayes in cui si cominciò ad elaborare un processo di chiusura delle terre che si concluderà nel 1820 con il Regio Editto delle chiudende. Risulta altrettanto interessante l’opera del Gemelli che contiene pagine illuminanti sulla coltivazione dell’olivo, in cui viene analizzata la tecnica per l’impianto dell’oliveto e per l’estrazione dell’olio. Nell’inizio dell’800 si andava affermando il principio della “proprietà perfetta” caratterizzata dall’emergere di un nuovo ceto di medi e piccoli proprietari. Questo processo è stato in qualche modo agevolato da alcuni provvedimenti legislativi come quello dell’Editto sugli oliveti del 3 dicembre 1806. Le disposizioni dell’Editto concedeva il titolo di cavalierato a chi avesse piantato almeno 4000 olivi e autorizzato la chiusura e la privatizzazione delle terre nelle quali crescevano olivastri, a condizione che questi venissero innestati. Inoltre ordinavano che la Chiesa dovesse investire denari nell’innesto di olivastri e favorire l’olivicoltura fornendo tutte le istruzioni necessarie. Pene gravissime, non esclusa la pena di morte, per coloro che avessero abbattuto i muri o distrutti gli olivi o gli olivastri già innestati. Questo editto contribuì ad incentivare l’olivicoltura: ai tradizionali oliveti già impiantati nel XVI e XVII secolo, si aggiunsero quelli di altre zone della Sardegna. Ancora oggi in Sardegna sono noti alcuni latifondisti che godono di titolo nobiliare acquisito all’epoca dell’editto del 1806; a questi i popolani avevano affibbiato il titolo di Barone de olia, Barone dell’olivo, per distinguerli dai baroni “veri”, nobili con titolo conferito dal Re o dai Giudici. Nel 1853 il Vescovo ed il Prefetto di Nuoro, per superare le cause di disagio della zona, guidarono la popolazione ad innestare, obbligatoriamente, i colossali e robusti olivastri, indipendentemente dalla proprietà, contribuendo alla valorizzazione delle colline nuoresi. La formazione del primo catasto sardo avvenuta a partire dalla prima metà dell’Ottocento, permette di stabilire che alla fine del XIX secolo gli oliveti coprono una superficie di 24.000 ettari su un totale di 632.000 ettari di terreno coltivato. All’inizio del XX secolo la produzione dell’olio sardo doveva essere diffusa ed organizzata se, all’esposizione del 1901 di Cagliari, parteciparono 12 produttori imbottigliatori provenienti da tutte le aree olivicole della Sardegna. Nel maggio del 1951 nasceva l'ETFAS, Ente per la trasformazione fondiaria e agraria in Sardegna. La riforma prevedeva l'espropriazione delle terre incolte, l'esecuzione di vasti e organici piani di colonizzazione e di trasformazione e la creazione di importanti infrastrutture prima di procedere all'assegnazione delle nuove aziende ai contadini. Fra il 1952 e il 1954 furono bonificati 65.271 ettari, dissodati e messi a coltura fra cui, oltre i seminativi e i pascoli migliorati, furono realizzati vigneti, oliveti, agrumeti, frutteti e colture legnose migliorate (in genere olivastri innestati ad olivo). L’ETFAS, per realizzare gli oliveti nelle aree bonificate, dovette ricorrere a vivaisti toscani, siciliani e pugliesi poiché in Sardegna non esistevano vivai organizzati per fornire le piantine di olivo necessarie per i nuovi impianti. Con questi interventi sono state introdotte cultivar di olivo fino a quel momento assenti dal patrimonio varietale regionale. Dopo un periodo di abbandono l’olivicoltura sarda ebbe un nuovo impulso avvalendosi dei finanziamenti comunitari assegnati dai regolamenti CEE 2052/88 e CEE 2081/93. Gli aiuti comunitari, oltre alla ristrutturazione dei vecchi impianti, erano rivolti soprattutto allo sviluppo dell’olivicoltura da mensa. Ciò ha consentito la realizzazione di nuovi oliveti razionali, irrigui, ubicati in terreni idonei e non più in aree marginali; inoltre la scelta varietale è ricaduta sulle migliori cultivar locali a duplice attitudine, operazione resa possibile, questa volta, dalla presenza di un vivaismo olivicolo isolano e da una efficiente assistenza tecnica pubblica. Sul finire degli anni ’90 in Sardegna si contavano oltre 5000 Ha di nuovi oliveti che hanno determinato un sensibile incremento delle aree olivetate; superficie che ha raggiunto gli oltre 40.000 ettari. L’azione di ristrutturazione degli oliveti e la realizzazione di nuovi impianti prosegue ancora oggi con le misure cofinanziate dall’UE attraverso il POR Sardegna. La ricerca, l’assistenza tecnica ed i programmi di miglioramento delle produzioni oleicole hanno determinato, in poco meno di un ventennio, un salto di qualità dell’olio sardo ottenendo in breve tempo riconoscimenti ed affermazioni in campo nazionale ed internazionale. Questo dato positivo si contrappone con il deficit delle produzioni olearie sarde; a fronte di una produzione media annua di olio d’oliva di 80-90.000 q., la Sardegna importa altrettanti quantitativi per il proprio fabbisogno alimentare.
M. ATZORI – A. VODRET, Olio sacro e profano - Sassari, 1995
RELAZIONE STORICA , DOP olio Sardegna - Cagliari, 1999
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M. BRIGAGLIA – Almanacco Gallurese 2001-2002 - Tempio, 2002