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Storia della lingua italiana in pillole: ancora sul Manzoni e su “I promessi sposi” (parte V)

Creato il 05 gennaio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Claude_Faurieldi Ivana Vaccaroni. L’attenzione alla lingua nell’Ottocento è preminente negli scritti di tutti gli autori ma, per quanto riguarda Manzoni, è senza dubbio motivo di studio approfondito e necessario per la stesura delle sue opere, in particolare, ovviamente per il suo capolavoro.

Nella lettera indirizzata a Claude Fauriel, nel 1806, l’autore lamenta la divisione politica italiana e la indica come uno dei principali motivi di frammentazione pure della lingua, così differente tra scritto e parlato. A causa di ciò la moltitudine non poteva essere acculturata, non poteva conoscere “il bello e l’utile”. Occorreva quindi fornire un idioma che elevasse il livello del popolo e nello stesso tempo fosse comprensibile a un numero sempre crescente di persone alle quali far così arrivare il messaggio risorgimentale di sperare in un’Italia unita e libera.

Complesso il percorso di variazioni linguistiche apportate da Manzoni a partire dalla poesia, in opere quali gli Inni Sacri o le Tragedie, variazioni accolte con riserve dai linguisti specialmente dal punto di vista formale, come la scelta del metro che infrange la tradizione lirica italiana, mentre a livello poetico si inserisce nel linguaggio poetico coevo.

Dopo le Tragedie e l’ultima redazione della Pentecoste Manzoni non scriverà più in versi. La prima opera in prosa sarà le Osservazioni sulla morale cattolica, del 1819, in cui appare subito evidente la costruzione retorica della pagina, dove egli si dedica già a «sottrarre la lingua letteraria[…] all’irrigidimento convenzionale procuratole dalla disciplina grammaticale del Cinquecento, per riportarla alla libertà della fase antica[…]reinserendo cioè nell’uso scritto costrutti anomali di cui era ricca la lingua antica».

Il punto da cui ripartire sarà indicato nella seconda Introduzione al Fermo e Lucia del 1821/23, in cui egli comprende di dover colmare un vuoto che lo impegnerà fino alla fine dei suoi giorni: ruppe infatti con la tradizione aristocratica della letteratura, ponendo le basi su altri principi e con differenti proponimenti: ciò perché, come ho accennato all’inizio, la questione non era privata e letteraria, ma pubblica e sociale.

C’è già comunque un accenno all’uso letterario toscano, mentre il lessico è attinto da quello vivo e la sintassi predilige l’ordine progressivo già verificatosi nella Morale cattolica.

Al lombardo si sostituiscono espressioni comprensibili «ad ogni lettore italiano». La prosa risulta quindi moderna e si allontana dalle rigide regole di puristi e classicisti.

Dal 1824 al ’27 Manzoni riscrive il romanzo e cambia parecchio anche la struttura della lingua: abbandona ogni eclettismo formale, ricercando una lingua «viva e vera» di matrice toscana.

Il toscano costituiva infatti un fondo comune e accessibile a tutta l’Italia, crogiuolo di tutti i dialetti delle diverse regioni.

Questa prima edizione ebbe un successo straordinario e verrà accolta come profondamente innovativa da romantici e liberali, come negativa peraltro per puristi e classicisti più tradizionali.

A questo punto lo scrittore si trasferisce a Firenze e i suoi attenti e approfonditi studi lo convincono che la definitiva omogeneità linguistica e la separazione da ogni artificiosità letteraria verranno raggiunte solo con l’uso del fiorentino delle classi colte.

Dal 1836 Manzoni riesaminerà ogni singola pagina del romanzo e la «quarantana», l’edizione definitiva che uscirà a fascicoli tra il ’40 e il’42 incontrerà ancora una volta pareri discordi. I pregiudizi riguardavano quasi esclusivamente la linguistica, mentre lo stile era considerato non troppo dissimile rispetto all’edizione precedente. Fonetica, morfosintassi, lessico erano gli ambiti più discussi, nei quali era ormai accertato che il modello era appunto il fiorentino parlato dai colti. Lingua viva, quindi, in evoluzione e continuo mutamento, risultato di un’operazione peraltro molto articolata, analitica e coerente.

Il 14 Gennaio 1868 il neoministro della pubblica istruzione Emilio Broglio istituì una commissione per «ricercare e proporre tutti i provvedimenti e i modi, coi quali si [potesse] aiutare a rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia»: fu chiamato a presiederla proprio Manzoni.

Tale commissione era distinta in due nuclei, uno fiorentino e uno milanese e in quest’ultimo lo scrittore lombardo propose una teoria fortemente toscano-centrica, con soluzioni decisamente sbilanciate a favore della lingua di Firenze. Tale oltranzismo non convinse l’altra commissione, che si attestò su posizioni tradizionalistiche.

Le reazioni alle idee di Manzoni furono, come si può immaginare, particolarmente critiche. Gino Capponi, marchese membro del nucleo fiorentino, contestava l’eccessiva attenzione manifestata al lessico, sottolineando il fatto che gli usi di una lingua «sono diversi quanto sono diverse le relazioni cui deve servire» e ipotizzando che «la lingua in Italia saprà essere quella che sapranno essere gli Italiani».

Graziadio Isaia Ascoli arrivò a negare il predominio del fiorentino sulle altre lingue, indicando piuttosto il tedesco come modello cui ispirarsi, poiché la Germania aveva ottenuto l’unità linguistica prima di quella politica. Egli ribadiva inoltre la necessità della distinzione tra scritto e parlato, richiamando l’attenzione sull’importanza della varietà dei registri linguistici e dell’adattamento dello stile ai contenuti.

Tutto ciò non fece che dare maggiore impulso alle tesi manzoniane, portando il romanzo a essere adottato nelle scuole e facendo assumere Luigi Morandi, manzoniano convinto, quale precettore del giovane Vittorio Emanuele III, il futuro re.

A tutt’oggi il ruolo de I Promessi Sposi rimane fondamentale nello studio dell’italiano. Molte espressioni adottate tra l’edizione ventisettana e la quarantana coincidono con forme correnti, anche se l’uso ha travalicato in certi casi le intenzioni dell’autore.

Manzoni volle dunque tendere quanto più possibile verso una lingua unitaria, compatta a tutti i livelli: da quello grammaticale a quello lessicale, in virtù del quale ogni termine deve indicare lo stesso oggetto in tutta la penisola: ciò sarà fondamentale anche nella composizione della nostra lingua moderna.

Featured image, Charles-Claude Fauriel

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