Eccezion fatta per chi riesce a muoverle, i primi anni con le proprie orecchie non fanno di norma registrare eventi di una qualche rilevanza: le sfide cominciano più che altro con l’ingresso in società. L’asilo materno ci pone infatti davanti a una moltitudine di orecchie, e da subito sembra dirci spera di averle uguali agli altri. Nonostante la forma di qualsiasi orecchio abbia qualcosa di oscuro e inspiegabile, i bambini sono abili e lesti nell’individuare quelle oltremodo aliene, più comunemente note come orecchie a sventola. Fino all’adolescenza – compresa, nei casi limite – ci è fatto credere che le orecchie a sventola siano un ostacolo concreto a una vita sociale normale. Gli adulti partivano da lì per introdurci alla ginnastica della discriminazione, una pratica più avanti tristemente condita da mille altri ugualmente vani argomenti. A detta degli altri, le mie orecchie sembravano in regola.
Procede liscio perciò il primo ciclo di studi, alla fine del quale si scopre la possibilità del genere femminile di un’ulteriore customizzazione – che consiste banalmente nel praticarvi un buco e appenderci qualcosa. Un’esclusiva che decade pochi anni più tardi, quando, grazie a Maradona, l’Italia si dichiara possibilista circa il fatto che anche i maschi possano fare altrettanto. Affascinato dall’opzione, a sette anni circa, mi documento a proposito, ma vuoi per la lontananza della mia famiglia dall’immaginario di Maradona vuoi per la mia paura delle cose-che-ti-pungono, rinuncio. Nel frattempo comincio a sperimentare le prime significative esperienze uditive, tra le quali si distinguono Past Masters dei Beatles e il rumore del motore del primo aereo su cui sono salito – incredibilmente più fragoroso di tutti quelli presi dopo.
Le prime immersioni in mari di vacanza con genitore divorziato mi introducono invece alla pratica della compensazione, un rimedio popolare (che consiste nel chiudersi il naso e soffiare forte finché non si sente stap) a delle complesse leggi fisiche che più tardi non avrei comunque veramente capito. A dodici anni sbaglio manovra su un fondo sabbioso sotto diversi metri d’acqua e mi ritrovo a sanguinare per due settimane con conseguente annullamento di mia partecipazione alla corrida di un comunissimo villaggio vacanze, in cui avevo deciso di proporre un numero comico con esibizione canora finale di Keep Yourself Alive dei Queen (profondamente convinto che gli animatori avrebbero trovato la versione “solo base” del pezzo). Negli anni seguenti si cerca di riparare all’incidente, che aveva decisamente incrinato il rapporto tra me e le mie orecchie, promettendosi vicendevolmente rispetto e pazienza.
A quindici anni, io e loro entriamo per la prima volta in una sala prove: il colpo di fulmine è funestato dai colpi di rullante, ai quali le mie orecchie reagiscono ordinando agli occhi di chiudersi a tempo (un meccanismo che rende perlomeno complicato suonare un pezzo dall’inizio alla fine). Con l’abitudine si riesce pian piano a eliminare il problema, ma ancora oggi, nei giorni no, le mie orecchie mi ricordano quel giorno oscurandomi il mondo a intermittenza. A diciassette anni vado a un concerto dei Motorhead e, nonostante la mia abbondante dieta di decibel,vengo sopraffatto e tappo i padiglioni. A diciannove anni posso finalmente ascoltare la musica in macchina e lo faccio alzando finché non si sentono più gli abbassa di quelli dietro. A vent’anni le mie orecchie cominciano a fischiare e lo fanno per tre lunghi giorni, durante i quali visito dottori che mi fanno sentire dell’elettronica minimal per capire se ho qualcosa che non va. Ma il fischio passa com’era venuto e neanche un anno più tardi sono a un rave a vedere tipi tedeschi ballare molto meglio di me con la testa infilata nei coni dell’impianto. Li trovo bellissimi, e comincio a pensare che molte cose bellissime sono anche stupide.