Storia di due Italie: L’Immorale (1967)

Creato il 26 gennaio 2016 da Cicciorusso

“Lo sa che lei è un uomo fortunato? Non fa che incontrare donne perfette”.

Come dicono i Saint Vitus, I was born too late. Di preciso, mi sarebbe piaciuto molto nascere tra il ’35 e il ’40. Quella era una generazione come si deve, ragazzi. Alla fine Miss Italia non aveva detto una cazzata, affermando che avrebbe voluto vivere la seconda guerra mondiale, posto che avesse coinciso con l’infanzia. Se non eri finito orribilmente menomato durante un bombardamento o non eri stata iniziata alle gioie della gang bang a otto anni da un plotone di goumier, si era comunque usciti vivi e in salute da una fottuta guerra mondiale. Guardi alla vita con ottimismo, dato che è statisticamente improbabile che ti capiti qualcosa di peggio e hai scoperto presto cosa fosse la morte. Sarei stato troppo piccolo per andare al fronte a giocarmi la pelle e, dopo il ’68, troppo vecchio per andare a scannarmi con qualcuno che aveva idee politiche diverse dalle mie ma pur sempre abbastanza giovane per godermi i vantaggi di sesso, droga e rock’n’roll. Vuoi mettere. Mica come ora che la gente sclera perché qualcuno su internet scrive qualcosa con la quale non è d’accordo. Avrei campato scrivendo di abigeati e bardane su un giornalaccio locale, avrei girato in seicento e avrei trascorso le mie serate all’osteria bevendo mirto, cazzeggiando con gli amici e insidiando le cameriere, mentre mia moglie a casa stava picchiando a sangue mio figlio, reo di aver fatto l’ennesimo gavettone di piscio al gatto dei vicini. Adesso per cose del genere gli animalisti praticherebbero atti di autolesionismo davanti al ministero dell’ambiente. Poi la gente mi contraddice quando sostengo che bisognerebbe reintrodurre con urgenza la leva obbligatoria. Certo, non ci sarebbe stato il metallo ma comunque c’era roba di un certo livello da vedere dal vivo, sempre se avevi i soldi per farti un giretto a Londra ogni tanto. Che poi all’epoca si faceva l’autostop.

Questo mio eterno rovello è tornato a tormentarmi con inedita intensità pochi giorni or sono, quando, rincasato da Varsavia, ho provato ad annegare lo spleen da ritorno nell’eccelso Buongiorno Papà, del quale vi ha resi edotti Roberto ieri. Subito dopo sono tornato in camera mia e, dato che mi sto rivedendo tutta la filmografia di Pietro Germi (il mio regista italiano preferito, morto prematuramente di cirrosi dovuta all’alcol come il chitarrista del mio gruppo preferito), mi sono dedicato a L’Immorale, 1967, e ciò che era rovello si è tramutato in illuminazione.

I due film hanno sorprendenti analogie tematiche: un protagonista che in un momento di crisi chiede un consiglio a un mentore e la lodevole sensibilità nei confronti del pubblico appassionato di fanciulle in fiore. Solo che in questo caso non c’è l’insopportabile figlia zecca del povero Raoul Bova ma Stefania Sandrelli ventenne che interpreta una diciassettenne: Marisa, che nella prima scena viene compromessa da Sergio Masini, interpretato da Ugo Tognazzi, un violinista poligamo che ha già due famiglie parallele sulle spalle e cinque figli, che mantiene esibendosi financo nelle balere più sordide e approfittando dell’imprevedibile agenda dei musicisti per tenere in bilico tutta la complessa baracca.

“Io ho tre sveglie in tre case diverse, sa, il mio è un lavoro curioso con orari strani, bisogna essere sempre pronti. E poi due famiglie e mezza danno proprio un gran daffare”.

Qua Tognazzi ha la stessa età di Bova nel capolavoro di cui sopra, 37-38 anni. Lì il povero Bova, per essersi pomiciato una diciannovenne, veniva esecrato dal suocero hippie, che gli aveva trombato la mamma, e dal coinquilino fuori sede coetaneo, che ne aveva fatto ubriacare la figlia diciassettene per farsela. In questo film anche Tognazzi dà dare bere a una minorenne ma è la sua figlia piccola, alla quale a San Silvestro, anche se ha quattro anni, bisogna far bere il bicchierino di spumante, mica come oggi che ai bambini si danno al massimo gli psicofarmaci. All’epoca non c’erano complicazioni come insegnanti fighe di legno come l’Attrezzo, che ti giudica perché fai lo scemotto con le sue allieve, o suoceri hippie che ti trombano la mamma e poi pretendono di insegnarti come stare al mondo. Né andava ancora di moda quel mentecatto di Sartre con le sue crisi esistenziali. Sergio conosce Marisa alla stazione di un paesino e, da vero maschio italiano d’altri tempi, se la porta nel fienile. Pochi anni più tardi sarebbe stato costretto a sedurla usando quell’altro imbecille di Marcuse come argomento di conversazione. Qua è tutto più lirico e sereno: due chiacchiere, una risata e via, nel fienile.

Come inevitabile, Marisa si innamora di lui, già impegnato con Giulia, la moglie ufficiale trentaquattrenne che Sergio “ama sempre con la stessa dolcezza”, e Adele, soprano ventinovenne che aveva consolato dopo una performance disastrosa e poi da cosa nacque cosa (due splendidi maschietti). Come evitabile, rimane incinta anche Marisa. Questo è il momento di rottura che, nella morfologia della fiaba di Propp, vede l’eroe soccorso dall’aiutante magico, in entrambi i casi una figura paterna che prova a riportarlo sulla retta via. Raoul Bova era uno che prima si divertiva nelle discoteche con la cocaina e le bagasce quindi, quando si ritrova davanti il frutto dei suoi lombi, non sa gestire la situazione ed esce talmente di capa da prendere sul serio i patetici ammonimenti dell’Attrezzo, del Nonno Zingaro che gli ha trombato la mamma e del coinquilino fuori sede scroccone che lo ha appoggiato a sua figlia, ritenendoli persone serissime e degne di credito. Ugo Tognazzi, che è un italiano vecchia scuola e ha già due famiglie alle spalle, si rivolge al prete, Don Michele, interpretato dall’immenso Gigi Ballista. Perché in una comunità equilibrata e a misura d’uomo le uniche persone che contano sono il prete, il medico, il farmacista e il maestro elementare, che diamine. Infatti Don Michele, che è un vero dritto, gli propone subito la soluzione giusta: divorziare dalla moglie e sposare la diciassettenne. Perché i preti servono anche a questo: metti incinta una minorenne e vedi se il parroco riesce a tirarti fuori dai casini. “Il divorzio? Ci odiassimo, lo capirei ma noi ci amiamo“, replica nondimeno Sergio.

La sua vita è una menzogna continua: non fa che mentire, mentire, mentire sempre“. “Sì ma a fin di bene, e non l’ho fatto mica per divertimento, sa. Voglio che siano contente tutte“.

Buongiorno papà dipinge un universo nichilista dove la condizione di equilibrio di partenza non è avere l’amore ma ripassarsi le sciampiste in discoteca, che oggi  è un punto di vista rispettabilissimo, soprattutto se l’alternativa è farsi incastrare da tipe come l’Attrezzo. Infatti, quando nella vita di Bova entra l’amore, va tutto a puttane, anche se il regista, vivendo in un mondo diverso dal mio, probabilmente voleva esprimere il concetto contrario. Sergio Masini, invece, non fa che incontrare donne perfette e ha talmente tanto amore da dare da restarne soffocato. Proprio un’altra concezione del mondo. Quelli erano tempi, o fratelli del vero metal. (Ciccio Russo)