Storia di firenze: le feste e le condizioni di vita

Creato il 08 febbraio 2013 da Postpopuli @PostPopuli

di Luca Moreno

Siamo all’undicesima puntata della serie di articoli di Luca Moreno sulla storia di Firenze (che prende spunto dalla sua Storia della Città di Firenze – 59 a. C.-2010  , 432 pagg., inedita, seconda versione rivista e ampliata, in volume unico). Le immagini sono numerate in continuità con quelle del decimo articolo.

Non vorrei che aveste l’impressione che i fiorentini si occupassero, nel corso della loro vita, esclusivamente di politica, di combattere, di litigare e di costruire palazzi e chiese. Al contrario, il fiorentino è ancora oggi (e certamente già allora) un uomo capace di gustare la vita in tutti suoi aspetti e quindi particolarmente attento al divertimento, anche se la società del Trecento – e più in generale medioevale – non era un ambiente particolarmente favorevole agli svaghi.

Innanzitutto dobbiamo ricordare che l’aspettativa di vita era bassissima: o si aveva la fortuna di nascere e di nascere sani, altrimenti si cadeva nelle mani di una Medicina che, nella maggior parte dei casi, favoriva il decesso del paziente, anche se non colpito da mali di per sé mortali. Le condizioni di vita di chi non aveva denaro erano nel complesso migliori rispetto a quelle che l’uomo aveva conosciuto in epoca altomedioevale, ma la lotta giornaliera era comunque durissima, non solo perché le ore di luce erano dedicate quasi esclusivamente al lavoro, in cui il concetto di “condizioni igieniche” era del tutto assente, ma perché il cittadino, non essendo titolare, diremmo oggi, di diritti inalienabili, era di fatto alla mercé dello Stato e dei capricci dei potenti.

Figura 28: Giovane donna in cucina (anonimo fiorentino) (da “Il Dizionario di Firenze”, di Pier Francesco Listri, ed. Le Lettere)

Una famiglia media di salariati lavorava circa 3000 ore all’anno, e un lavoratore fiorentino riusciva a procurarsi appena 600 calorie giornaliere delle 2700 necessarie; così il ricorso al prestito era prassi costante; e questo aggravava ancor più la miseria. Un sintetico quadro del desinare povero fiorentino prevedeva pane, fave e farinate di miglio e di castagne; la domenica qualche pezzo di lardo o di trippa; nei giorni migliori, una frittata di uova. Con il pane raffermo, che tuttavia non avanzava spesso, i fiorentini facevano la “panata”, minestra della cucina povera. (figura 28) Con lo stomaco quasi semivuoto, salariati e piccoli artigiani andavano a finire la giornata bevendo un bicchiere di cattivo vino, in quelle bettole in cui, per ordine del Comune, erano vietati il gioco ed i cibi piccanti; luoghi, questi, che non potevano stare vicino alle chiese e chiudevano presto alla sera, al suono delle campane.

Se poi si aveva la sfortuna di nascere, oltre che povero, anche donna, le cose peggioravano, perché a quest’ultima era riservata una vita di lavoro relegata in casa, priva di qualsiasi capacità decisionale, soggetta prima al padre e poi al marito. Considerata un peso e una preoccupazione per gli uomini di casa, perché ne dovevano costantemente salvaguardare l’onorabilità, la donna – quando, fra la disdetta generale, nasceva al posto di un maschio – divenuta adulta (o quasi), doveva assumersi i maggiori e più pesanti disagi della vita familiare, fra cui la rischiosa frequenza dei parti e l’educazione dei bimbi, insidiati da un’altissima mortalità infantile. Solo quando diventava padrona di casa, la fiorentina poteva considerarsi, all’interno di quelle mura, una regina; ma questo accadeva esclusivamente alle donne abbienti.

È osservando le impegnative condizioni di vita degli uomini del tempo che possiamo capire la ragione per cui le giornate di festa avessero un’importanza enorme, rispetto al significato più contenuto che ad esse noi oggi attribuiamo; e ciò perché le feste – a differenza di quanto succede nella nostra società, dove gli svaghi sono a portata di mano – rappresentavano per quegli uomini delle occasioni praticamente uniche per sfuggire alla quotidianità e magari per incontrare e tentare di conquistare la donna dei propri sogni. Vi erano alcune feste canoniche e particolarmente attese dai fiorentini; ma prima è necessario ricordare che il computo dell’anno fiorentino era diverso da quello di altri luoghi. L’inizio infatti non cadeva il 1° gennaio bensì il 25 marzo e si concludeva il 24 marzo dell’anno successivo. Questo perché i fiorentini facevano coincidere l’inizio dell’anno ab Incarnatione, vale a dire dal giorno in cui l’Angelo annunciò alla Madonna la futura nascita di Gesù. In tale occasione si svolgevano grandi feste presso la Chiesa dell’Annunziata, da sempre tempio mariano. Nel 1582 Papa Gregorio XIII promulgò la riforma del calendario detto gregoriano (l’attuale). L’uso di esso diventò obbligatorio con i Lorena, nel 1750.

Ma vediamo ora alcune delle feste fiorentine più significative tra le quali, oltre ovviamente al Natale, la prima da ricordare è quella dell’Epifania; il mito dei Re Magi (che interesserà grandi artisti come il Beato Angelico, Leonardo e soprattutto Benozzo Gozzoli) era particolarmente diffuso tra il popolo; per le strade di Firenze la Compagnia dei Magi, con costumi pregiati, rappresentava il simbolico omaggio offerto a Gesù; la gente si tingeva il volto con il carbone per somigliare a quei Re orientali, oppure lanciava in aria un fantoccio di una donna sgraziata, amata però dai bambini perché a lei le mamme attribuivano la virtù di portar doni.

Molto diverso invece il Carnevale: dopo la benedizione delle candele – la Candelora del 2 febbraio – ci si dedicava alle follie; si realizzavano carri allegorici e cortei con abiti di ogni tipo: si cantavano allegramente motivi che invitavano a lasciarsi andare alla pazza gioia. Nei giorni precedenti, i fiorentini che potevano spendere invadevano le botteghe di Via Calimala, Via Vacchereccia e di Por Santa Maria per acquistare stoffe da utilizzare per l’occasione: la scelta dei colori da abbinare era uno dei culti più coltivati del tempo.

Se il Carnevale era amatissimo dai fiorentini, non era da meno la Corsa del Palio; qui dominava la lotta, la gara, la sfida. La gente si radunava per vedere passare in piena corsa i cavalli in sella con il loro cavaliere. Il Palio era un trofeo rappresentato da un drappo di stoffa preziosa, spesso bordata di pelliccia di pregio. L’oggetto era amato, più che per il suo valore in denaro – anche se esso poteva arrivare a 300 fiorini –, per il fatto che testimoniava una vittoria, vantata e ricordata negli anni. Il Palio più bello era quello che si celebrava il 24 giugno, il giorno del patrono della città: San Giovanni Battista.

Figura 29: Lo Scoppio del Carro (da corriere.it)

Non possiamo poi dimenticare lo Scoppio del Carro ed il Volo della Colombina (figura 29) che ha origine nel XII secolo. Si narra che Pazzino de’ Pazzi, distintosi durante la Prima Crociata nella riconquista di Gerusalemme, avesse ricevuto come premio da Goffredo di Buglione tre scaglie di pietra del Santo Sepolcro; al ritorno a Firenze, Pazzino ed i suoi discendenti ebbero l’onore di accendere con quelle pietre il fuoco del Sabato Santo, che veniva portato dapprima con una fiaccola, poi con il carro alla Cattedrale, accompagnato dallo scoppio di fuochi d’artificio, davanti alla casa dei Pazzi. Se ancora oggi vi recate a Firenze nel giorno di Pasqua, potete assistere, nelle ore mattutine, davanti a Santa Maria del Fiore, all’accensione di un cero, posto su un carro del Quattrocento (ma più volte restaurato) che avvia un razzo a forma di colombina che, correndo su un cavo d’acciaio, va a incendiare i fuochi del carro: dall’esito del volo della colombina si traevano (e si traggono) auspici per il raccolto.

Vi era poi la Festa di Calendimaggio, pensata e studiata per esprimere le dichiarazioni d’amore. Anche il più timido degli innamorati osava, in quel giorno, staccare un ramo di fiori da un albero e appenderlo alla porta della fanciulla amata; se la richiesta era accolta, lei avrebbe conservato il ramo, e il maggio avrebbe dato il frutto sperato.

Figura 30: Stemma della Città di Firenze (da comuni-italiani.it)

Cinquanta giorni dopo Pasqua si festeggiava invece la Pentecoste (dal greco antico: πεντηκοστή ημέρα, cioè “cinquantesimo giorno”), durante la quale i fiorentini assistevano, nella grande Piazza del Mercato, alla sfilata delle milizie cittadine. Il Carroccio comunale avanzava con le sue insegne, mentre le Compagnie della Milizia si muovevano al comando dei loro Capitani, in attesa che il Podestà offrisse a ognuna di esse lo stendardo che le spettava. Il Capitano del Popolo era alla loro testa; un suo luogotenente portava il vessillo bianco, con in campo una grande croce rossa; simbolo con il quale i fiorentini guelfi si erano confrontati con i ghibellini; per loro questo simbolo aveva più valore che non il giglio dello stemma ufficiale del Comune. A questo proposito ricordiamo che il “giglio bianco su campo rosso”, che era l’insegna amata dai ghibellini, fu abbandonato o meglio invertito in “giglio rosso su campo bianco” quando furono i guelfi a prevalere; ed ancora oggi questo è lo stemma di Firenze che potete vedere in figura 30.

Il 26 luglio del 1343 Firenze caccia Gualtieri di Brienne, Duca di Atene; quale migliore occasione per festeggiare la cacciata di un tiranno? E così il 26 luglio, giorno di Sant’Anna, divenne festa “nazionale” per secoli, anche quando i fiorentini, ai tiranni, avrebbero dovuto farci l’abitudine (visto che affideranno la loro libertà prima ai Medici e poi ai Lorena).

Concludiamo questa modesta descrizione delle feste fiorentine ricordando il Ferragosto, perché quella giornata era un’occasione per godersi la brezza dei colli, ma solo se la data cadeva di domenica; altrimenti era giorno lavorativo, salvo poi nel pomeriggio andare alle funzioni religiose, che si tenevano in onore di Maria Assunta. In questa occasione i Magistrati della Firenze repubblicana recavano in omaggio alla Madonna, splendidi canestri colmi di frutta fresca.

Ovviamente vi era la possibilità, per chi se lo poteva permettere, di trascorrere giornate in campagna al di fuori delle festività; erano fughe particolarmente apprezzabili in estate, quando a Firenze fa davvero molto caldo; occorreva però disporre, se non di una villa, almeno di un casolare, dove ospitare gli amici per cene gustose e abbondanti; i fiorentini infatti hanno amato, fin dai tempi remoti, il buon cibo; e sia i ricchi che i poveri hanno sempre cercato di fare della cucina una vera e propria arte.


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