Del suo caso hanno parlato giornali, organizzazioni per i diritti umani e le voci si sono rincorse su Internet, attraverso i social network e le pagine dei magazine online.
La sua vicenda, potenzialmente, poteva accadere a chiunque. Proprio così e per un motivo molto semplice: nessuno ha la possibilità di scegliere dove nascere e spesso neppure dove vivere (almeno la prima infanzia). Le variabili che creano la nostra esistenza e la nostra individualità non le possiamo proprio controllare e questo dovrebbe spingerci a riflettere sulle possibilità e i diritti che abbiamo, sui passi futuri che possono aiutarci a migliorare e sulla sensibilità riguardo determinate tematiche.
Dicendo questo arriviamo al secondo punto fondamentale di un’analisi dei casi come quello di Meryam: l’errore più comune commesso da molte persone è quello di credere che gli avvenimenti accaduti in posti geograficamente lontani non riguardino loro e non abbiano alcuna conseguenza sulle loro vite.
Anche stavolta ciò è vero fino a un certo punto: no, nessun allarmismo, nessuna minaccia e nessun complotto dietro a queste parole. Solo l’invito a riflettere su ciò che accade lontano da casa nostra perché oggi viviamo in un mondo che assomiglia sempre più a una sorta di rete (non mi riferisco solo a quella virtuale) nella quale elementi individuali e fattori geopolitici non sono poi così distanti tra loro.
Questa lunga premessa serve per entrare nel vivo della storia di Meryam, che è anche e soprattutto la vicenda di un essere umano privato della libertà e, subito dopo, la storia di una donna sudanese, una cristiana accusata di adulterio, apostasia e, per questo, incarcerata a condannata a morte.
Meryam, infatti, è figlia di un musulmano e di una etiope cristiana e ha sposato un uomo cristiano.
Secondo l’Islam, però, la religione attraversa le generazioni per via paterna, ovvero tutti i figli di padre musulmano “ereditano” la religione del loro padre, nascono musulmani e non vi è altra possibilità.
Inoltre, alle donne musulmane è consentito sposarsi unicamente con un correligionario (ciò non vale per gli uomini).
Secondo la Shari’a, in vigore in Sudan dal 1983, Meryam avrebbe violato entrambe le norme, rendendosi colpevole di adulterio e apostasia, per i quali, rispettivamente, sono previste le pene di cento frustate e la morte.
A nulla sono valse le contestazioni della giovane mamma, rinchiusa in prigione mentre era in attesa del secondo figlio, la quale ha sempre dichiarato di essere stata cresciuta unicamente da sua madre, dopo l’abbandono del padre e di appartenere alla comunità cristiana.
Le organizzazioni internazionali come Amnesty International e Italians for Darfur si sono mobilitate in favore di Meryam e persino Papa Francesco ha chiesto la sua liberazione e la cancellazione della pena.
Rilasciata dopo poche ore, la giovane attende ancora il nullaosta per partire, secondo quanto riferito dall’Agenzia Ansa.
I suoi avvocati sperano che la questione si risolva in pochi giorni e gli Stati Uniti, il Paese dove Meryam inizierà una nuova vita, si sono già attivati per aiutare e supportare la donna e i suoi familiari, insieme all’organizzazione Italians for Darfur e al suo presidente, Antonella Napoli, che hanno seguito tutta la vicenda e lottato con Meryam.
Questa è la storia di una donna che ha dovuto trovare il coraggio per spravvivere e della parola libertà ancora da scrivere per intero, ancora da realizzare, senza frontiere e senza barriere.
E la libertà è affare di tutti, talmente vicina a ciascuno di noi da toccarci la pelle, la mente e il cuore ogni giorno.
Written by Francesca Rossi