Storia di un condannato alla pena capitale

Da Nubifragi82 @nubifragi

La sera antecedente la sua esecuzione F.L. se ne stava con le gambe distese sul pagliericcio della cella e gli avambracci appoggiati in modo tale da tenere schiena e testa sollevati dal giaciglio. La stanza misurava pochi metri di lunghezza per un paio di metri di larghezza e il mondo esterno non era che un quadratino di pochi centimetri da cui una luce fredda fendeva quel microcosmo e il suo pulviscolo per il lungo fino a scagliarsi contro la piccola e fredda porta di metallo. Nelle ore in cui si faceva più intenso, quell’alito di luce permetteva a F.L. di percorrere con lo sguardo le rughe del muro scrostato, o forse mai intonacato, della cella. Negli ultimi giorni questa era stata la sua unica occupazione. F.L. si sdraiava sulla branda situata sul lato sinistro del muro, individuava un solco di suo piacimento e con l’indice della mano destra ne seguiva le bizzose traiettorie anche là dove la luce non gli permetteva di arrivare con lo sguardo. Era proprio dove l’immaginazione sostituiva l’osservazione che quelle linee prendevano forma. A poco a poco si distingueva un naso, una bocca, un mento e più quelle linee venivano calcate dall’indice di F.L. e più egli poteva riconoscere i lineamenti di uomini e donne, a lui noti, che pochi giorni dopo lo avrebbero visto esalare l’ultimo respiro davanti ad un plotone d’esecuzione.

Ma giunta che fu l’ultima sera della sua esistenza, quando ormai la luce si era ritirata del tutto e la cella era piombata nell’oscurità, F.L. non aveva più motivo di districarsi tra quelle crepe del muro. Adagiò la schiena al giaciglio, appoggiò la nuca sulle mani aperte e conserte, piegò la gamba destra e accavallò la sinistra su di essa. C’erano tutti. Li aveva rintracciati uno ad uno tra quella calce odorante muschio, sudore e disperazione. Chi per i tratti forti, chi per le spalle larghe, il seno appuntito, le labbra carnose, la pancia prominente, il sedere a mandolino, alla fine li aveva trovati tutti. Il mattino seguente, quando il giudice avrebbe letto la sentenza, i tamburi rullato, il comandante chiamato le fila, il plotone caricato, i fucili sparato e la sua anima se ne sarebbe volata chissà dove, loro sarebbero stati lì a nutrirsi del suo terrore. Qualcuno avrebbe strabuzzato gli occhi nel tentativo di intercettare il panico nei suoi. Altri avrebbero giurato di vedere i pantaloni macchiarsi di urina. Sicuramente qualcuno avrebbe udito un’invocazione alla madre, mentre i più si sarebbero tappati le orecchie per non udire le urla strazianti di quel poveraccio che un tempo era il timido e disgraziato F.L. e adesso solamente un disgraziato.

Ora che la luna emetteva un pietoso anelito di luce nella cella, quasi a voler vegliare le ultime ore di un condannato a morte, F.L. poteva distinguerli nel buio di quelle quattro mura e non occorreva certo tendere l’orecchio per udirli ciarlare i loro miserrimi pronostici. E tutti, nessuno escluso, erano pronti a scommettere che l’anima di F.L. non si sarebbe staccata tanto facilmente da quel corpo a cui tanto era affezionata. I loro volti contriti, le labbra fin troppo corrucciate, le palpebre tese all’inverosimile raccontavano dolore, ma celavano malamente la curiosità per l’odore di escrementi intriso alla polvere da sparo che F.L. avrebbe infine lasciato ai posteri.

F.L. si alzò ordinatamente dalla branda, con una manciata di passi attraversò la composita fauna che popolava la cella e si posizionò sotto la feritoia. L’apertura verso l’esterno aveva la sua base non più di dieci centimetri sopra la sua testa. F.L. poteva sentire l’aria fresca e pulita accarezzargli i capelli e la luce riflessa dalla luna benedirne il capo. Solo allora si accorse che per tutti quei giorni in cui era rimasto chiuso in quella cella non aveva pensato ad altro che al momento dell’esecuzione. Non un pensiero al passato, non al futuro dissoltosi un paio di mesi prima davanti allo scranno di un giudice, non alle montagne che non avrebbe più osservato innevarsi in autunno e rinverdire in primavera, non all’odore dei temporali estivi, non alle vespe ubriache attorno alle vinacce, non agli occhi spalancati e luccicanti di una donna innamorata, non al rumore delicato dei ricci di castagne quando dall’albero precipitano a terra, non ai ricordi dei primi infantili Natali, non ad una maestra che lo guardava fiera dopo l’interrogazione, non alle risate scroscianti degli astanti dopo una battuta riuscita. F.L. chinò la testa e per la prima volta si rese conto di quanto sarebbe successo il giorno dopo. Appoggiò le mani e la fronte al muro. Sentì che qualcosa si stava condensando nel suo petto e gli occhi parevano volergli esplodere dalle orbite. In quel momento qualcuno gli mise una mano sulla spalla e altri gli si fecero attorno bramanti lacrime e disperazione. Erano loro. F.L. aveva dimenticato, ma loro erano lì e lo cingevano pietosi come il giorno seguente avrebbero attorniato il patibolo.

Povero F.L., povero ragazzo. Così attento alle parole degli altri. Così plasmato sul giudizio degli altri. Povero F.L., proprio lui che fingeva di stare bene quando il mal di pancia gli contorceva le budella con una tenaglia, che aveva intravisto nello sguardo del giudice tutte le migliaia di occhi che lo avevano perlustrato in vita sua, che aveva spacciato un’immagine fasulla di sé e alla fine ci si era conformato, che si vedeva e pensava in terza persona. F.L., povero ragazzo. Lui, così riservato, così attento a nascondere tutto sé stesso in una maschera colorata. Che ne potrà essere del suo decoro di fronte alla morte? Certo finirà liquefatto tra le lacrime. Povero, povero F.L.

F.L. si staccò dalla parete e dall’abbraccio, ormai fattosi stretto, di quelle presenze. Andò alla porta e si voltò, in modo da avere questa alle spalle e gli astanti davanti a sé. No, disse, non mi avrete mai. E così dicendo tirò fuori la maschera migliore del suo immenso repertorio. Impostò un sorriso. L’avrebbe mantenuto fino alla scarica finale.

Disse il sacerdote che il condannato F.L. il mattino seguente pareva pacificato con Dio e con sé stesso. E disse anche, pur con un qualche riserbo, che gli pareva di aver notato una certa fretta nei modi. Che avesse voluto raggiungere il redentore il prima possibile? Ma questo il sacerdote lo pensò solamente. E comunque, ne era poco convinto.

Disse il secondino che lo prelevò dalla cella che di condannati a morte ne aveva visti tanti, ma nessuno gli era parso così docile come F.L. E da allora nei bar in cui era solito ubriacarsi raccontò a tutti di come un uomo può presentarsi fiero e dignitoso alla fine dei suoi giorni.

Disse il comandante del plotone di esecuzione che F.L. attendeva quel momento da una vita e da una vita si era preparato per il plotone. E tutta quella solennità, aggiunse il comandante alla moglie, puzzava di cerone. Ognuno recita una parte, amore mio, e a quell’uomo era stata assegnata una sola scena. Quella della sua dipartita.

Disse un vagabondo che passava per caso di là e che aveva assistito a tutta la scena che non aveva mai visto nessuno piangere con cotanta veemenza. Quando la grazia del governatore era infine giunta e non era difficile distinguere tra la folla una certa delusione per il mancato spettacolo, quando il plotone se n’era andato senza colpo ferire, quando quell’uomo destinato alla morte aveva recuperato la vita con un colpo di coda, fu proprio allora che lo spettacolo ebbe inizio.

Dissero che era stata la tensione a giocargli un brutto scherzo. Che prima della scarica avrebbe sicuramente ceduto e qualcuno disse pure che il pianto era iniziato prima ancora della grazia. E in tanti gli si fecero tutto attorno e lo rincuorarono con parole ignoranti.