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Il parlottio sommesso dei passanti aleggiava tutt’intorno, insieme al rumore delle macchine e di ogni cosa di comunemente cittadino. Un continuo sottofondo che, seppur presente, non riusciva a penetrare il mio udito. Percepivo la città come un’entità distante, amorfa, quasi surreale. Mentre camminavo, tutto ciò che mi girava intorno cercava di penetrarmi, d’incuriosirmi, di prendere possesso della mia mente, senza successo. Perché? Perché questo stato d’animo proprio quando la mia mano era finalmente riuscita a stringere le chiavi di quella casa? Dov’era la felicità? La mia eterna utopia… Il sogno di una vita nuova si stava realizzando, cos’altro voleva il mio inconscio?
Probabilmente avrei dovuto pazientare ancora un po’, almeno il tempo di riuscire ad aprire quella porta e ambientarmi.
Vedevo da lontano il palazzo. Cercai di scorgere tra i balconi quale fra quelli avrei abitato.
Mi seguiva, con passo ben allenato, il mio fedelissimo trolley. Finalmente, dopo il suo duro lavoro sulle vie milanesi, poteva riposarsi qualche giorno in un modesto ripostiglio; e con lui, anch’io potevo prendermi una pausa dalle notti insonni in albergo e i tour giornalieri obbligati. In questo senso, mi sentivo sollevato da un peso: non dovevo più svegliarmi con l’angoscia di non sapere in che posto avrei terminato la mia giornata.
L’ascensore terminò la sua corsa al quinto piano dell’edificio. Sapendo che solo un piano mi distanziava dal cielo, buttai l’occhio all’esterno, attraverso la finestra che sovrastava la tromba delle scale. Vidi diversi altri palazzi, ma nessuna cima. Probabilmente avrei visto i tetti qualche metro più in su.
Rigirai il mazzo di chiavi nella mano per scegliere quella giusta. Solo una era la candidata ad aprire la porta davanti a me. Infilai, girai, spinsi… entrai.
Un alone di oscurità circondava ogni cosa e spegneva ogni colore. Sembrava tutt’altra casa quella in cui ero. Era diversa da quella che avevo visto solo il giorno prima. Dov’era la luce, dov’era il sole? Sentivo il buio addosso come una seconda pelle. Cercai l’interruttore, fidandomi della mano che percorreva il muro accanto alla porta d’ingresso. Due piccole applique tentarono di diffondere un po’ di luce con scarsi risultati.
Vedevo le porte delle stanze aperte con la luce che dava l’illusione di voler entrare ma di non riuscirci. Feci un piccolo resoconto mentale: la cucina sulla destra, la camera da letto, il bagno e il salotto che doveva divenire la mia futura sistemazione. Entrai lasciando il trolley nell’ingresso, come un docile cane da guardia. Mi diressi a passo svelto verso la persiana. L’alzai bramoso di un sole che invece mi stava abbandonando. E ora che la luce era quantomeno adeguata, ricercai con gli occhi tutti i particolari che riconducevano ai ricordi della prima visita. Qualcosa però non tornava. Pur osservando e ripassando ogni dettaglio, mancava quel frammento che completava il quadro: quella casa era priva di un’anima. Non ci feci caso quando la visitai, poiché la proprietaria, da brava ammaliatrice, era riuscita, con storie ricche di dettagli, a riscaldare l’ambiente e renderlo vivo. Ora però, quella donna non c’era più ed erano rimasti solo un mucchio di mobili coperti di polvere a tentar di raccontare qualcosa.
Ad eccezione delle recenti nottate in camere d’albergo, non avevo mai vissuto da solo da qualche parte. La casa dei miei genitori, seppur di grandi dimensioni, sembrava sempre affollata tra fratelli e nonni. Raramente capitava un giorno in cui riuscivo a produrre eco tra le stanze vuote; e quando ne capitava uno di quelli, riempivo la casa con amici a far bisboccia.
E ora, con cosa avrei riempito quella casa? Non era passata nemmeno un’ora… e già mi sentivo solo.
Passai un dito sul bordo del tavolo per ritrovarmelo nero come il carbone.
C’è un gran bel daffare qui!