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Scese la sera e con essa il cielo si dipinse d’arancio, colorando le piccole nuvole sparse sulla città. Adoravo osservare il tramonto. Sin da bambino, restavo affascinato dalle movenze di quella sfera luminosa che attraversava, da lato a lato, l’intero arco celeste sopra la mia casa. Lo conoscevo bene ormai: dalla mattina, quando gli fuggivo via fino a scuola; al pomeriggio quando invece gli correvo incontro, perché tramontava, come nelle più consuete scene di film, in mezzo a due monti e proprio sulla strada che percorrevo. Amo il sole, soprattutto il tiepido sole d’autunno che riscalda quel tanto che basta da non lamentarsi né del freddo né del caldo. Cosa avrei dato per vedere il tramonto su quel balcone. Purtroppo, potevo godermi solo quel rossore celeste nell’attesa del buio. La mia camera era orientata verso est e da lì, solo albe potevano passare. Meglio così, i tramonti mi regalano troppa malinconia, e scrollarmene un po’ da dosso non m’avrebbe fatto male…
Un profumo di carne e peperoni, stuzzicò un languore assopito nel mio stomaco. Qualcuna tra le mie vicine era intenta a cucinare quella prelibatezza, non curante di scatenare invidia in chi, come me, certe cose non poteva, né sapeva cucinarle. Il brontolare del mio stomaco mi ripeteva che era giunta anche per me l’ora di mangiare. Nei giorni precedenti, esclusi quelli in cui mia madre si era presa cura di me, avevo saltato parecchi pasti, mangiando poco e male in orari inconsueti. Era arrivato il momento di mettere mano a padelle e fornelli, come quando, a scuola guida, arriva il giorno di passare dalla teoria alla pratica.
Entrai in cucina con l’insolita sicurezza di un cuoco navigato. Vidi una padella arancione che spiccava tra le altre. Mia madre l’aveva lasciata qui, prima d’andarsene. La presi e la rigirai più volte sottosopra. L’osservai indeciso. Volevo preparare un semplice piatto di pasta ma iniziai a farmi mille domande. Quanta acqua? Quanto sale? Quanto sugo? Quanta pasta? Essendo un tipo abbastanza preciso e pignolo, provai angoscia per non aver quelle risposte pronte. Così, decisi di affidarmi al mio intuito, elemento di me, che mi ha tirato fuori da parecchie situazioni. Presi una pentola, la riempii d’acqua, accesi il fuoco. Salai l’acqua e buttai della pasta, misurata ad occhio in un piatto. Per il sugo lessi che bisognava solo riscaldarlo in padella e così feci, senza domandarmi per quanto tempo e a che fiamma. Il risultato fu gradevole alla vista ma il sapore era terribile. Rimasi quasi un minuto a domandarmi se riempirmi lo stomaco o farcire il cestino. Scelsi lo stomaco e con la mente cercai di contrastare ciò che le papille gustative stavano urlando spudoratamente.
Deluso ma con la pancia piena tornai al mio letto. Il sole ormai era tramontato e un altro giorno era finito. Uscii sul balcone con la solita pallina rossa tra le dita. Guardai il cielo e malinconico mi domandai: e le stelle dove sono?