Di mia madre ricordo la treccia che toccava la strada, e gli occhi.
Suo padre fabbricava mattoni ad Amritsar, la città del Tempio d’Oro, era mussulmano ma non aveva il Corano nel cuore. Si chiamava Mohammed e sposò Ruttie. Nella prima notte dopo le nozze furono concepiti cinque gemelli. Mia nonna li partorì, uno dopo l’altro, ma tutti i maschi nacquero morti. Sopravvissero solo due bimbe, mia madre e mia zia.
Erano due bambine magre, che piangevano piano ma poppavano il latte con tenacia. Mohammed disse che erano state le femmine a succhiar via la vita dei maschi e pianse la morte dei suoi tre figli. - Se i miei figli sono morti - si lamentò, allora non ho nemmeno figlie.
Strappò le bambine alla madre e con loro vagò in mezzo alle baracche di fango e bambù dei quartieri poveri. All’alba, le consegnò ad una famiglia indù. - Eccovi del denaro - esclamò -allevate queste bambine come se fossero vostre, perché io non ho il coraggio di affogarle.
Una mattina di tredici anni dopo, Mohammed si trovò a passare nel quartiere dove vivevano le sue figlie. Seduta sulla soglia di una casa, c’era una fanciulla che impastava il chapati. Aveva una treccia nera che spazzolava il terreno, un naso dritto e delicato, guance di pesca. Era assorta nel suo lavoro e cantava sottovoce un inno alla dea Sita. Mohammed chiese ad un vicino chi fosse quella ragazzina. Scoprì che si trattava di una delle figlie che aveva ripudiato, e che gli indù l’avevano chiamata Suyeda. In quel momento comparve sulla soglia anche un’altra fanciulla. Dalla somiglianza, Mohammed capì che era l’altra gemella, cresciuta però più bassa, più tozza e più scura.
Erano passati molti anni, e Mohammed non sentiva più alcun legame di sangue con quelle due ragazzine. Figlia o non figlia, volle Suyeda per sé. Sua moglie Ruttie era invecchiata, sformata da troppe gravidanze dove tutti i bambini erano morti. Se Mohammed avesse avuto timore di Allah, avrebbe capito che quei lutti erano la punizione per avere abbandonato le sue figlie, ma lui non aveva il Corano nel cuore e quella sera non tornò da sua moglie.
Comprò da mangiare ed entrò nella casa di Suyeda.
- Eccovi del cibo- esclamò - ridatemi le mie figlie perché da questo momento sono di nuovo mia proprietà.
Si accoccolò sul charpoi, in mezzo alle due gemelle, ma per tutta la sera non ebbe occhi che per Suyeda. Giocò con la sua treccia, le raccontò storie divertenti e scelse per lei i bocconi migliori. Alla fine della cena, gettò una manciata di rupie fra le ciotole colme di frutta e di riso. Parlò nell’orecchio del padrone e subito tutta la famiglia decise di dormire per strada. - Fa troppo caldo, dissero.
Anche Suyeda ed Haria presero la loro stuoia. – No - ordinò quello che credevano il loro padre - voi due stanotte dormite dentro.
Ubbidirono, distendendosi sul charpoi che dividevano tutte le sere.
Quando Mohammed le raggiunse, stavano già dormendo, abbracciate. L’uomo si tolse in fretta la veste e sollevò il sari di Suyeda. La ragazza aprì gli occhi assonnati. Vide sopra di sé quell’uomo imponente, con la barba folta, gli occhi nebbiosi. Era nudo, con un enorme fallo rosso puntato contro di lei. - Non gridare, Suyeda, o sveglierai tua sorella - le disse - io sono il tuo vero padre e posso fare ciò che voglio di te.
Accanto, Haria stava rannicchiata e non si muoveva. Mohammed calò sopra Suyeda e con una mano le bloccò le spalle contro il terreno. Con l’altra le allargò le gambe, poi conficcò il suo membro dentro di lei. Suyeda soffiò con le narici, come un animale, ma non gridò. Haria rimase girata di schiena, immobile.
Il peso dell’uomo era immenso e schiacciava Suyeda contro il pavimento. Lei sentiva dentro la pancia una mazza dura che si agitava e sfregava, pelle contro pelle. Poi, d’un tratto, Mohammed si lamentò e Suyeda credette che la dea Sita lo avesse ucciso, per vendicarla.
Invece non era morto. Si levò in piedi e lasciò la casa.
Suyeda sentì Haria sospirare forte, come se per tutto quel tempo avesse trattenuto il respiro. Rimase distesa contro la schiena della gemella e non fiatò. Non mosse le gambe fino alla mattina e lasciò che il sangue, e quell’altra cosa viscosa, si rapprendessero sulle sue cosce. Era tutta pesta, come quando era stata picchiata per aver bruciato il chapati. Si sentiva ancora addosso quella barba ispida che le sbranava il seno, e riviveva lo strazio d’essere impalata fra le gambe da un uomo che aveva detto d’essere suo padre.
Né lei né Haria parlarono più di quell’uomo.
Suyeda non sapeva di essere incinta. Glielo dissero le donne della casa, picchiandola con un bastone sulla pancia che si era gonfiata. - Avrai un figlio - strillarono - e questa vergogna ricadrà su tutti noi.
Chiamarono un astrologo e lo pagarono perché leggesse nelle stelle il sesso del bambino. - Sarà un maschio - predisse l’astrologo. - Un maschio va bene - dissero le donne e lasciarono in pace Suyeda per il resto della gravidanza.
Non ebbe un maschio ma una femmina e quella femmina sono io.
Venni al mondo di notte, dopo che il monsone aveva soffiato per tutta la giornata. Le strade erano paludi e mia madre era inquieta come una tigre, mentre le raffiche di pioggia si abbattevano sulla sua casa e filtravano dal tetto.
Non aveva mai amato quel tugurio, né le persone che vi abitavano. Voleva bene solo a Haria, la sua gemella.
Mentre così rifletteva, inginocchiata a sorvegliare il masala che tostava nella tawa, con la pancia che le arrivava quasi sotto la gola, sentì un dolore così forte ed improvviso che credette d’essersi bruciata coi tizzoni. Guardò giù, col respiro affrettato d’una cavalla impaurita. Era troppo lontana dalle braci per essersi scottata e fra le sue gambe non c’era fuoco bensì acqua che bagnava il sari.
Si mosse, ma era come se una mano la tenesse inchiodata accanto al fuoco. Scivolò indietro, sulla schiena, soffocata da un altro dolore e, mentre annaspava per chiedere aiuto, sentì l’odore delle spezie che si carbonizzavano nella tawa. Mi picchieranno, pensò, come l’altra volta che ho bruciato il chapati. Ma anche se l’avessero picchiata con tutti i bastoni del mondo, non avrebbe potuto sentire più male di così.
Furono solo le prime doglie, le più leggere, d’un travaglio che doveva durare tutta la notte. Molte ore più tardi, Suyeda aveva smesso anche di urlare, mentre attorno a lei un cerchio di donne si affannava.
Fu chiamato di nuovo l’astrologo e il cerchio si aprì, reverente, al suo arrivo. In cambio di tre pugni di riso, l’astrologo lesse il futuro sul palmo della mano sudata di Suyeda. - Non va bene - brontolò - stanotte le stelle sono contrarie.
Erano ormai pallide, le stelle, quando Suyeda ebbe l’ultima contrazione. Si aggrappò alle braccia di Haria e gridò. Apparve la mia testa ed una vecchia l’afferrò e tirò. Fui strappata in questa vita dalle sue mani sporche.
- Ma non è un maschio! - esclamarono indignate le donne della casa. A turno guardarono il mio sesso. - E’ solo una femmina - disapprovarono - una femmina inutile e costosa. Liberiamocene!
Haria s’intromise, mi fece scudo col suo corpo. - Lasciatela a me, penserò io a lei!
Mi prese in braccio e, con il mio stesso sangue, segnò una tika sulla mia fronte.
- Ecco il tuo terzo occhio, nipote - disse - ti chiamerò Mandala, cerchio della vita.
E anche quando per tutti divenni Fatima, per Hariamasi sono sempre rimasta Mandala.
Suyeda si rimise a fatica del parto. Passò molti giorni distesa sul charpoi. La febbre le faceva vedere cose che non erano: un mostro con la barba, più alto del sole, che la inghiottiva; una lancia rossa che la trapassava da parte a parte; un bicchiere di latte che si mutava in sangue.
La zia Haria mi appoggiava vicino al corpo della sorella assopita, accostava la mia bocca al seno fino a che non trovavo da sola il capezzolo e mi ci attaccavo.
Lentamente, mia madre riacquistò le forze ma dalla febbre non guarì mai. Cominciò ad annusare l’odore del mio corpo e ad assaggiare le gocce di latte che mi sfuggivano dalle labbra. Teneva in bocca le mie mani ed i miei piedi e li scaldava col suo fiato.
Prese a sedere sulla soglia di casa. Non le importava di cosa poteva pensare la gente. Lei non era più una brava ragazza indù e non si sarebbe mai sposata. Si era congiunta col proprio padre, era diventata una paria fra i paria ed anche gli intoccabili la chiamavano impura ed evitavano di camminare nella sua ombra. Perciò abbandonò ogni ritegno. Scostava il sari e esponeva il suo seno di tredicenne per allattarmi in mezzo alla gente, senza pudore.
Quattro anni passarono, uno dopo l’altro. Crebbi sana e forte, mio malgrado, in quella casa dove ero invisibile per tutti, tranne che per le due gemelle. Somigliavo più a Haria che a Suyeda. Come lei avevo lineamenti forti, ossatura robusta.
La febbre e l’allattamento avevano assottigliato Suyeda, rendendola trasparente e bellissima. Aveva quell’aspetto di fiore sgualcito che accende la fantasia degli uomini.
La adocchiò Charim, il peggior sciupafemmine di tutta Amritsar. Aveva vent’anni, una moglie ricca e molto più vecchia di lui e due figli piccoli. Apparteneva alla casta dei mercanti ma era sua moglie a lavorare, mentre lui correva dietro a tutte le ragazze della città. Era il terrore dei padri e dei mariti. Si prendeva il suo piacere con mussulmane, buddiste ed indù, con vergini e con donne sposate, con cortigiane e persino con donne bandite dalla loro casta.
Vide mia madre e le piantò in faccia i suoi occhi baldanzosi. Passando e ripassando davanti alla sua casa, si lisciò i baffi, fece tintinnare i suoi ornamenti, si morse il labbro.
Suyeda aveva diciassette anni. La sua unica conoscenza degli uomini e dell’amore era il vecchio incubo di un demone che diceva di essere suo padre e la prendeva con la forza. Charim cominciò con lei una danza delicata. Scriveva il nome Suyeda sul terreno con un ramoscello. Era gentile con me, mi porgeva con la sua stessa lingua noci d’areca e foglie di betel. - Un giorno, piccola Mandala - mi diceva - sarai come la tua mamma che brilla più di una stella.
Ci raggiungeva quando sapeva di trovarci sole, e portava in dono a mia madre frutta e collane di fiori. Faceva mostra di rispettarla, come se, invece d’una fuori casta, fosse stata una vergine ch’egli intendeva sposare. Un giorno le mandò una vecchia mezzana che consegnò a mia madre noci, profumi, anelli, zafferano, e le parlò dell’amore ch’ella aveva suscitato nel cuore di Charim. Con voce lacrimosa, spiegò quanto lui avrebbe sofferto per un suo rifiuto. Le disse che la moglie di Charim era una donna brutta e cattiva, che maltrattava il marito e non gli voleva un briciolo di bene.
Suyeda ritrovò il pudore. Smise di sedere sulla soglia, se non quando sperava di veder passare Charim. Se lui era vicino, non lo guardava mai in faccia, ma abbassava la testa e rispondeva a mezza bocca alle sue domande. L’amore la rese timida come una cerbiatta.
Cominciò a sognare ad occhi aperti. Di sicuro, pensava, la moglie di Charim un giorno morirà. E’ vecchissima, c’è chi dice che ha addirittura trent’anni. Quel giorno, io diventerò la prima sposa e, dopo, riempirò la sua casa di fiori, farò brillare il pavimento e sarò sempre bella e profumata per lui. Mia sorella Haria e mia figlia Mandala vivranno con noi.
Erano sogni bellissimi, durante i quali Suyeda dimenticava di essere una fuori casta, una alla quale la sua stessa gente non rivolgeva la parola.
Una sera, Charim recò con sé una splendida collana. Era di pura filigrana d’argento, con un pendaglio che scendeva sul petto. - Per te, Suyeda - le disse - come pegno del mio amore. L’argento porta i segni delle mie unghie e dei miei denti.
- Shukria - rispose Suyeda - grazie, la terrò per sempre.
Quando si abbandonò fra le sue braccia, quella stessa sera, volle pensare di essere l’unica: Charim non aveva moglie e tutte le altre donne non esistevano più.
Avevo solo quattro anni, ma ricordo che stavo in un angolo, a spolpare i frutti di papaya che Charim mi aveva regalato, e guardavo mia madre e lui distesi sul charpoi. Lei aveva il sari sollevato. Lui le stava sopra.
La baciava sulla gola, sulle spalle, sulle braccia, sul viso. Si muovevano insieme ed il loro moto ricordava l’onda, la ruota, il cobra che esce dal suo cesto al suono del fakir. In mezzo a loro la collana brillava nell’ombra.
Avevo paura dei rumori che facevano, ma la papaya era dolce. Mi riempivo la bocca e mi coprivo le orecchie per non sentire.
Passarono alcuni mesi. Charim veniva da noi regolarmente. Ogni volta c’erano manghi per me, o foglie di betel, o noci. Ogni volta loro due si stendevano sul charpoi, oppure restavano in piedi, contro il muro, e facevano quei movimenti e quei rumori.
Poi Charim smise di venire. Ogni giorno Suyeda si sedeva sulla soglia e guardava in fondo alla strada.
Ad ogni giorno che passava senza che lui arrivasse, mia madre perdeva colore dal viso e scottava un po’ di più. Se mi avvicinavo a lei, mi scacciava irritata.
E poi venne il giorno della festa di Baisakhi. Per le strade c’erano maghi, indovini, e yogi che camminavano sui carboni ardenti o si trafiggevano le guance con fili di ferro. C’erano giocolieri, danzatori e incantatori di serpenti. C’era, ricordo, persino un elefante bardato.
In mezzo alla folla, vicino ad uno zingaro che aveva un cobra avvolto intorno al collo, scorgemmo Charim. Guardava i giocolieri e pareva divertirsi molto. Era accanto ad una fanciulla velata, che portava grandi orecchini smaltati e bracciali di ceralacca con pietruzze scintillanti. A tratti, Charim si chinava a sussurrarle qualcosa nell’orecchio. La fanciulla rideva, con grandi occhi di pece luminosa, e fingeva di coprirsi le orecchie per non sentire.
Per tutto il tempo, mia madre rimase inchiodata a fissarli, senza dire una sola parola. Quando la folla si disperse, li seguì, trascinandomi con sé.
Cercò in tutti i vicoli, dietro ogni muro, ogni bidone, ogni albero. L’istinto la guidò oltre la soglia di un cortile. Charim e la fanciulla erano avvinghiati nel buio d’una volta d’ingresso e si baciavano. La fanciulla non aveva più il velo e dimostrava a mala pena quattordici anni.
Suyeda rimase acquattata nell’ombra a spiarli. Io ero vicino a lei e non osavo neppure respirare.
Alla fine, Charim uscì dal cortile con aria soddisfatta. Mia madre gli si parò innanzi. - Charim! - lo chiamò - Charim...
Lui ci guardò appena. - Toglietevi dalla mia ombra, fuoricasta.
Mia madre gemette, si coprì la bocca con la mano. Fece un passo indietro, poi due, poi cominciò a correre.
Nei giorni successivi non disse più una sola parola. Le tornò la febbre e smise di mangiare. Rifiutava le foglie colme di riso che Haria le offriva e per molto tempo si nutrì solo di latte allungato con l’acqua.
Sedeva tutto il giorno sul charpoi, con la collana stretta fra le dita sempre più magre e febbricitanti. Si era fatta così trasparente che si accorsero che era di nuovo incinta solo quando il parto era ormai vicino.
Appena cominciarono le doglie, Suyeda disse alla sorella che sarebbe morta. Mi chiamò e mi mise in mano la collana di Charim. - E’ tua adesso, Mandala - disse, e mi strinse il pugno tanto forte che il pendaglio mi bucò il palmo. - Conservala sempre! Questa collana porta i segni delle unghie e dei denti di Charim.
Dopo due giorni di travaglio, mia madre ebbe un altro figlio, mio fratello Kartar. Subito dopo il parto, morì di febbre emorragica, come aveva predetto.
Avevo solo cinque anni, ma quel giorno giurai che non avrei più permesso che una donna perdesse la vita per dare alla luce un bambino.
Da allora ho cambiato città, nome e religione, ma, fino ad oggi, ho sempre mantenuto la mia promessa.
Dopo la morte di Suyeda, la mia vita cambiò. Fu nostra zia Haria ad allevare me e Kartar. Crescemmo nella casa dei nostri parenti adottivi, che ci trattavano da paria. Per loro eravamo impuri, figli dell’incesto e dell’adulterio. Nessuno ci rivolgeva la parola, nessuno tollerava la nostra vista. A noi erano riservati solo i lavori più umili.
Kartar, il mio fratellastro, era un adolescente timido, chiuso in se stesso, pigro e trascurato. Fedele alla mia promessa, io divenni levatrice, ancor più impura agli occhi dei miei familiari. Le donne che aiutavo, però, mi erano riconoscenti.
Un giorno fui chiamata fuori città. Feci tutta la strada a piedi ed arrivai sudata e stanca ad una capanna di fango, dove un uomo di circa cinquant’anni mi mostrò la sua mucca che muggiva disperata.
- Sono una levatrice, non un veterinario - protestai. Feci per andarmene, ma, quando vidi la testa del vitello che sporgeva fra le gambe della bestia, la mia indignazione sfumò e mi detti da fare. Il vitello nacque sano e la mucca lo leccò contenta.
- Non ho soldi per pagarvi - confessò l’uomo. - Ma vi sono riconoscente. Quella vacca è tutta la mia ricchezza e, anche se non sono indù, per me è sacra. Adesso, grazie a voi, potrò vendere il vitello. Venite nel mio campo e prendete quello che volete!
Disse di chiamarsi Kalim Hussein e spiegò che la sua famiglia veniva dall’Arabia.
Una settimana dopo, lo vidi apparire, con un mazzo di fiori di campo e un sorriso umile sulla faccia. - Sono mussulmano - affermò - e sono povero. Ho solo il campo e la mucca ma vi chiedo di essere mia moglie.
Accettai. Insieme a Haria e a Kartar, lasciai la casa dove non ero amata e andai a vivere con Kalim Hussein. Riparammo il tetto della capanna coi miei soldi e comprammo un asino. Per sposare Kalim Hussein, dovetti convertirmi alla sua religione. Lo feci per dovere ma anche per riconoscenza. Imparai a compiere le abluzioni, a mettermi in ginocchio sapendo sempre dov’era la Mecca. Imparai a poggiare la fronte sul tappeto ed a pregare Allah misericordioso.
Prima del matrimonio, arrivò un mullah che mi fece ripetere alcuni versetti del Corano davanti a due testimoni. - Non c’è altro Dio che Allah e Maometto è il suo profeta.
Con queste parole, entrai nella luce dell’Islam, col nome di Fatima.
Ci sposammo senza dote, senza festa e senza invitati. Dopo la cerimonia, Kalim Hussein tornò nel campo, Haria in cucina, io al mio lavoro e Kartar a sonnecchiare al sole nel fosso.
Scoprii che mio marito era un uomo compassionevole e gentile. Non mi obbligò mai a mangiare carne di manzo e la sera, quando tornava dal lavoro, mi portava sempre un fiore.
Pian piano, grazie a lui, conobbi la vera fede. La legge del Profeta divenne iman dentro di me, spirito e luce nel mio cuore. Di mia volontà, scelsi di portare il velo, come segno di rispetto per mio marito.
Per due anni vivemmo del nostro lavoro, tirando avanti meglio che potevamo. Per ogni bambino e per ogni vitello nato vivo, io venivo pagata. Se nasceva un figlio maschio, mi pagavano anche il doppio. Haria si occupava della casa. Kartar dava una mano a Kalim Hussein nei campi, quando ne aveva voglia. Mio marito non si lamentava mai della pigrizia di mio fratello. - E’ giovane - diceva - beata la gioventù!
Kartar era affezionato a Kalim Hussein, ai suoi occhi tutto ciò che egli faceva era ben fatto, tanto che volle convertirsi anche lui e mise nella nuova fede tutto il fervore della sua età.
Hariamasi non si convertì, perché per lei la religione non aveva significato. - Io credo in quello che vedo - diceva. Era una donna concreta e generosa che non si lamentava mai.
Ero giovane allora, e non amavo Kalim Hussein di quell’amore di cui parlano le canzoni o i racconti, ma lo consideravo un uomo pio e giusto. Quando ci univamo, nel fruscio notturno della nostra capanna, lui era premuroso ed attento anche al mio piacere.
Nel 1947, l’anno in cui l’India divenne indipendente, ero incinta anch’io. Il quindici agosto fu un giorno di gioia per molti, ma non per noi.
Un’orda di sikh si rovesciò nel nostro villaggio, ad ovest di Amritsar. Arrivarono in bicicletta, a piedi, ad ondate, come cavallette furiose, brandendo kirpan, bastoni e mazze. Piombarono sugli uomini, li accerchiarono, li massacrarono.
Kalim Hussein era nel suo campo. Tentò di fuggire, mi dissero, ma gli saltarono addosso e lo sgozzarono fra le zucche, con l’asino che correva impazzito e la mucca che muggiva di terrore.
Quel mattino, mi trovavo in casa di una partoriente, accompagnata da mio fratello e da Haria. Un gruppo di uomini urlanti circondò la casa. Kartar sbarrò la porta, mentre io gli gridavo di scappare, di nascondersi. - Viva la luce dell’Islam! - gridò invece. - Viva la vera ed unica fede!
Lo fecero a pezzi davanti ai miei occhi.
Aveva diciassette anni, mio fratello. La voce non mi bastò per urlare quando gli mozzarono la testa e le gambe.
In cinque irruppero nella casa. Ci picchiarono col piatto dei pugnali e ci strapparono le vesti di dosso. Stuprarono me, mia zia e tutte le donne della casa. Un uomo mi gettò in terra, di traverso alla porta, e mi montò sopra.
Il collo inondato della sua barba fetida, la testa rovesciata all’indietro, io vedevo il cielo ed il cortile ed i cani che si azzuffavano intorno al corpo di Kartar. Udivo le grida della donna che partoriva. Un uomo stava spingendo a forza il suo membro dentro di lei, ricacciando indietro la testa del bambino.
Non sentivo i morsi, i tagli, il bruciore e il peso dell’uomo su di me. Ero assordata dai rantoli della partoriente e di una ragazza alla quale stavano strappando dalle mani un neonato.
Persi conoscenza un minuto, forse due, tre. Quando riaprii gli occhi, l’uomo non era più sopra di me, ma addosso ad una bambina che urlava e si divincolava. Rimasi distesa sulla soglia, incapace di muovermi, pesta e bruciante. La bambina fu presa, non più di otto anni aveva, ed inchiodata. Sentivo piangere, in fondo alla casa, singhiozzi straziati. La giovane mamma strisciava carponi sul pavimento verso qualcosa di piccolo, di inerte.
Alla fine ci trascinarono fuori. Ad una ad una ci spinsero, barcollanti, seminude, coperte di sangue, di graffi e di lividi, tagliuzzate dai pugnali.
Per prima uscì Haria. Mi resi conto che, per tutto il tempo, non avevo udito un solo grido dalla sua bocca. Venni fuori anch’io, poi la bambina, che uscì piangendo, con la mano fra le gambe, ed il sangue che colava lungo i polpacci esili. Per ultima apparve la giovane madre. Aveva recuperato il cadavere del suo bambino e lo teneva stretto al petto. Vacillava, guardando lontano, con gli occhi vuoti, fissi, spaventosi.
Poi non uscì più nessuno e la casa rimase in silenzio.
Il sole bruciava, gli avvoltoi ed i corvi stridevano e si abbassavano su di noi fino quasi a toccarci, i cani grufolavano e ringhiavano. I singhiozzi delle donne si spegnevano, poi tornavano a divampare.
Ci costrinsero a sfilare attraverso tutta Amritsar, insieme alle altre donne, fino al Tempio d’Oro. Superammo inebetite la passerella di marmo, accecate dal riflesso dell’acqua e dalle cupole di rame arroventate dal sole.
E, dentro, fu davvero la fine.
Ricordo che urlavo, che il pavimento del tempio era rosso di sangue, che le donne scappavano e sbattevano contro le pareti come falene intrappolate. Venivano sgozzate e cadevano una sull’altra. Ricordo che il sangue schizzava sui muri e che l’eco raddoppiava la violenza delle grida.
Non può succedere, pensavo, non è vero. Haria era accanto a me, impietrita. Insieme corremmo, cercando scampo verso il fondo del tempio. Inciampavamo nei corpi, i nostri piedi nudi scivolavano sul sangue, mani agonizzanti ci afferravano le caviglie. Scalciammo per liberarci, senza pietà. L’unico istinto era fuggire, uscire di lì.
Un uomo afferrò mia zia per i capelli, la immobilizzò. Haria era nuda, il corpo scosso da un tremito violento, lo sguardo d’un animale braccato. Mi aggrappai a lei, cercai di trascinarla via, di strapparla dalle mani dell’uomo, ma scivolai e caddi a faccia in giù nel sangue.
L’uomo tagliò la gola di Haria. Le vene zampillarono, le allagarono il petto, mi inondarono. Rimasi a terra, accanto al corpo floscio di mia zia, paralizzata, in attesa della morte. Non avevo più volontà.
Fu il caso a salvarmi. Una donna passò correndo vicino, urtò l’uomo che aveva già alzato il kirpan contro di me. Con un urlo di rabbia, lui rivolse la sua furia contro di lei. Le squarciò il petto. La donna cadde addosso a Haria ed io rotolai via. Strisciai sul ventre, mi rannicchiai immobile, nascosta in mezzo ai cadaveri.
Attorno a me, il massacro continuò. Sentivo grida disumane, vedevo le donne correre in cerchio, folli di terrore. Avvertivo che anche la mia ragione vacillava, mi abbandonava. Avevo gli occhi annebbiati, la pelle viscida, ero soffocata dall’odore del sangue e della paura. Non so per quanto rimasi lì, ferma e raggomitolata, mentre intorno a me le urla si spegnevano e restavano solo i gemiti delle moribonde.
Poi gli uomini tornarono a casa, dalle loro mogli, dalle loro sorelle e figlie.
Non cercai più il corpo di mia zia. In quel momento non potevo pregare, né per lei né per nessun altro. In quel momento non esisteva più nulla per me. L’importante era riuscire a muovere le gambe, fare un passo dopo l’altro, mandare giù l’aria nei polmoni e farla uscire di nuovo. Ero una bestia, un cane braccato che voleva sopravvivere.
Il dolore arrivò più tardi, ed insieme al dolore, l’odio.
Trovai mio marito dentro un fosso. I cani gli avevano divorato il fegato ed i genitali. Il corpo era nero di mosche. Lo trascinai fuori. Mi parve leggero, o forse era il furore a darmi la forza. Lo seppellii dietro la nostra casa.
Recuperai l’asino ed andai a cercare mio fratello. Il tronco era ancora nel cortile, davanti alla casa. Rinvenni le gambe, quel che restava delle braccia, ma non riuscii a trovare la testa. Seppellii quello che avevo trovato.
Nella capanna c’erano altri due cadaveri. Uno apparteneva ad una vecchia. L’altro era della partoriente. Fra le sue gambe spalancate, martoriate, si vedeva ancora la testa del bambino. Quella era stata l’unica volta che non ero riuscita a fare il mio lavoro fino in fondo.
Il rimorso per avere abbandonato Haria mi colpì all’improvviso. Caddi in ginocchio in mezzo al cortile e piansi. Piansi per lei, piansi per Kalim Hussein e per Kartar. Pregai Allah che accogliesse le loro anime in paradiso.
Era buio quando caricai l’asino. Presi una coperta, un sacco di riso, il Corano, la collana di mia madre.
Ormai, non avevo più nessuno ad Amritsar. Lasciai il Punjab e scesi a Benares, dove misi al mondo Ahmed. L’unica cosa di cui ringraziai Allah, il giorno in cui Ahmed nacque, è che era figlio di Kalim Hussein e non degli uomini dal cuore nero che avevano distrutto la mia vita.
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