Sono riuscita a fargli compiere almeno le ultime due azioni... e il risultato è che "Storie di fantasmi #5" mi sballa l'impaginazione del blog.
Amen :)
Me lo raccontarono, per sommi capi, quando andavo alle medie - durante una festa di classe, nella quale sistemammo le sedie in circolo e cominciammo a raccontarci storie di fantasmi (io non ne conoscevo; e, comunque, a raccontare ho sempre fatto vergogna con le favole, figuriamoci con una storia di fantasmi!). La figura del cavaliere senza testa mi piacque da morire.
A quel tempo, Internet non c'era ancora: o meglio, non era stato ancora lanciato il World Wide Web. La biblioteca scolastica esisteva solo di nome, quella comunale... ehem.
Così La leggenda di Sleepy Hollow è caduto pian piano nel dimenticatoio. Me ne sono ricordata anni dopo, grazie al film di Tim Burton, ma anche allora, pur essendomi ripromessa di recuperare l'antologia La leggenda di Sleepy Hollow e altri racconti, la storia del cavaliere scivolò tra le non priorità.
Il mese scorso, finalmente, ho acquistato l'eBook.
Ho letto il racconto.
E non mi è piaciuto nemmeno un po'.
La leggenda di Sleepy Hollow è stata un'amara delusione.
***
Scritto trovato tra le carte del defunto Diedrich Knickerbocker.
A pleasing land of drowsy head it was, Of dreams that wave before the half-shut eye; And of gay castles in the clouds that pass,Forever flushing round a summer sky.
J. Thomson
In seno a una di quelle vaste anse che segnano la riva orientale dell'Hudson, dove il fiume si espande in quel grande specchio d'acqua che gli antichi navigatori olandesi chiamarono il Tappaan Zee, e dove essi sempre ammainavano prudentemente le vele e si raccomandavano alla protezione di san Nicola, sorge una cittadina, un porto rurale, chiamata da alcuni Greens-burgh, ma in generale più propriamente conosciuta come Tarry Town. Si dice che questo nome le sia stato attribuito anticamente dalle massaie dei dintorni, per l'inveterata abitudine dei loro mariti di fermarsi alla taverna del villaggio nei giorni di mercato. Sia come sia, io non garantisco l'autenticità del fatto, ma ho voluto ricordarlo perché mi piace essere veritiero e preciso. Non lontano dal villaggio, forse a un paio di miglia circa, si trova una piccola valle, o meglio, una stretta conca fra due alte colline, che è uno dei posti più tranquilli del mondo. Il ruscello che scorre sul fondo, mormora quel tanto che basta per indurre al sonno chi si fermi a riposare, e lo stridio d'una quaglia o il colpettino secco d'un picchio sono i soli rumori che a tratti interrompono l'assoluto silenzio.
Ricordo che da ragazzo feci le mie prime esperienze nella caccia agli scoiattoli in un bosco di grandi noci che ombreggia un lato della valle. Mi ci addentravo verso mezzogiorno, quando tutta la natura è particolarmente tranquilla, e trasalivo a ogni colpo del mio fucile, tanto solenne era la calma domenicale rotta da quegli scoppi ripercossi e prolungati dall'eco rabbiosa. Se un giorno volessi ritirarmi lontano dal mondo e dalle sue distrazioni, e passare il resto della mia vita travagliata sognando tranquillamente a occhi aperti, non potrei scegliere un posto più adatto di quella piccola valle.
Per il senso di quiete indolente, e per il carattere speciale dei suoi abitanti, che discendono dagli antichi coloni olandesi, da molto tempo questo luogo appartato porta il nome di Valle addormentata, e in tutte le terre circostanti, i contadini che vi abitano sono chiamati «i ragazzi della Valle addormentata». Il luogo sembra pervaso da un'aura di sonnolenza e di sogno, e l'atmosfera stessa ne pare impregnata. Alcuni dicono che sia stato stregato da un negromante tedesco ai primi tempi della colonizzazione; altri che un vecchio capo indiano, profeta o stregone della sua tribù, vi tenesse le sue cerimonie rituali prima ancora che il paese fosse scoperto dal capitano Hendrick Hudson. Certo è che il luogo è tuttora sotto l'influsso di un potere magico che avvince le menti della buona gente che vi abita, facendola andare in giro assorta e trasognata. Essi sono inclini a credere a ogni sorta di storie meravigliose, sono soggetti a estasi e visioni, di frequente vedono cose strane, e sentono voci e musiche nell'aria. In tutto il circondario abbondano racconti leggendari, luoghi infestati da spettri e oscure superstizioni; si vedono più stelle cadenti e più meteore luminose in quella valle che in qualsiasi altra parte della regione, e la giumenta con i suoi nove nati sembra farne il teatro favorito per le sue folli corse.
Ma lo spirito dominante che abita questa regione incantata e pare essere il comandante in capo di tutte le potenze dell'aria, è una figura di un cavaliere senza testa. Alcuni dicono che sia lo spettro di un cavalleggero assiano, decapitato da una palla di cannone in una battaglia di cui non si sa il nome, durante la guerra di indipendenza. Di tanto in tanto lo spettro appare alla gente della campagna mentre cavalca nell'oscurità della notte come se fosse portato dalle ali del vento. Le sue visite non si limitano alla valletta, ma si estendono talvolta alle strade adiacenti e specialmente ai dintorni di una chiesa non molto distante. In verità, parecchi tra i più attendibili storici di quelle parti, che hanno raccolto con molta cura e collazionato le notizie imprecise riferite a questo spettro, attestano che, essendo il corpo del soldato sepolto in quel cimitero, il fantasma galoppi ogni notte verso il campo della battaglia in cui cadde per cercarvi la sua testa; e che la velocità pazza con cui a volte passa per la valletta, come un uragano notturno, sia dovuta al ritardo e alla fretta di tornarsene al cimitero prima dell'alba.
Tale è, a grandi linee, il contenuto di questa leggendaria superstizione, che ha fornito materia a molte storie paurose in quel paese di ombre, e in tutti i focolari della zona lo spettro è chiamato il Cavaliere senza testa della Valle addormentata.
E' notevole che l'indole visionaria, cui ho accennato, non sia propria solamente degli abitanti della valle, ma venga inconsciamente assorbita da chiunque vi rimanga per qualche tempo. Per quanto sveglio uno possa essere stato prima di entrare in quella regione sonnacchiosa, di sicuro, dopo breve tempo, comincerà a subire la magica influenza di quell'aria, a divenire immaginoso, a sognare e ad avere visioni.
Voglio precisare che parlo di questo pacifico luogo con tutta la riverenza possibile, poiché è in vallette olandesi appartate come questa, disseminate qua e là nel grande stato di New York, che la popolazione, gli usi e le abitudini rimangono inalterati, mentre i grandi flussi dell'immigrazione e del progresso, che causano continui mutamenti nelle altre parti di questo irrequieto paese, passano loro accanto senza che essi nemmeno se ne accorgano. Sono come quelle piccole gore d'acqua tranquilla che fiancheggiano un fiume tumultuoso, dove possiamo vedere le pagliuzze e le bolle galleggiare tranquillamente come se fossero ancorate, o girare adagio adagio dentro il loro minuscolo porto, per nulla disturbate dall'impeto della corrente. Per quanto siano passati ormai molti anni da quando passeggiavo sotto le ombre riposanti della Valle addormentata, credo che vi troverei ancora gli stessi alberi e le stesse famiglie che vegetano nella sua intimità riparata.
In questo angolo dimenticato di natura viveva, in un periodo lontano della storia americana, vale a dire una trentina d'anni fa, un rispettabile personaggio chiamato Ichabod Crane, che soggiornava, o, come egli usava dire, «si tratteneva» nella Valle addormentata allo scopo di istruire i fanciulli del vicinato. Era nativo del Connecticut, stato che fornisce l'intera Unione di pionieri sia del sapere sia della foresta, offrendole ogni anno legioni di boscaioli per le frontiere e di maestri elementari. Il cognome di Crane si adattava molto bene alla sua persona. Era alto e straordinariamente allampanato, con spalle strette, gambe e braccia lunghissime, mani che gli ciondolavano tre palmi fuori dalle maniche, piedi che sembravano pale, e tutte le giunture mal connesse. Aveva la testa piccola e appiattita, orecchie enormi, grandi occhi color verde bottiglia e un lungo naso fatto a becco di beccaccia, così che nell'insieme sembrava una banderuola infilzata su un'asta per indicare la direzione del vento. A vederlo scendere a grandi passi lungo la cresta di una collina in una giornata di vento, con gli abiti che gli svolazzavano e gli si gonfiavano addosso, lo si poteva scambiare per il dio della carestia sceso sulla terra, oppure per uno spaventapasseri scappato da un campo vicino.
La sua scuola era una casa bassa con una sola grande camera, rozzamente costruita con tronchi; le finestre sprovviste di vetri erano rappezzate con pagine di vecchi quaderni. Nelle ore in cui non si faceva lezione veniva chiusa molto ingegnosamente per mezzo di un vimine attorcigliato alla maniglia della porta, e di alcuni bastoni appoggiati contro le imposte delle finestre; cosicché, sebbene un ladro potesse entrarvi con la massima facilità, avrebbe avuto non poche difficoltà per uscirne; sistema di cui l'architetto Yost Van Houten aveva probabilmente tratto l'idea dal meccanismo misterioso di una nassa.
La scuola era situata in una posizione solitaria ma incantevole, proprio ai piedi di una collina boscosa, con un ruscello che le scorreva accanto, e un'imponente betulla da un lato. Nei giorni sonnolenti d'estate, da qui si poteva sentire il mormorio sommesso delle voci degli scolari che ripassavano la lezione, simile al ronzio di un alveare, interrotto di tanto in tanto dalla voce autoritaria del maestro in tono di comando o di ammonimento; oppure a volte dal minaccioso suono della verga, mentre egli incitava qualche pigro ritardatario lungo il sentiero fiorito del sapere. Poiché, a dire il vero, il maestro era un uomo coscienzioso, e teneva sempre presente l'aurea massima: «Chi risparmia la verga, rovina il fanciullo», non si può certo dire che Ichabod Crane rovinasse i suoi scolari.
Non vorrei tuttavia dare l'impressione che egli fosse uno di quei crudeli tiranni della scuola i quali godono del male che fanno ai loro sudditi; al contrario, egli amministrava la giustizia con equità piuttosto che con severità, alleviando il peso ai deboli, e caricandolo sulle spalle dei forti. Con i ragazzini palliducci, che solo a veder la verga levata tremavano, passava oltre e chiudeva un occhio con indulgenza, mentre le ragioni della giustizia erano doppiamente soddisfatte con quegli olandesi bassi, tarchiati e testardi che sotto la verga si impuntavano, strillavano e allungavano il broncio. Questo egli chiamava «fare il suo dovere di fronte ai genitori»; e non infliggeva mai un castigo senza accompagnarlo con l'avvertimento, quanto mai consolante per il monello, cui bruciava la schiena, che «se ne sarebbe ricordato e l'avrebbe ringraziato per tutto il resto dei suoi giorni».
Finite le ore di scuola egli era un compagno di gioco per i ragazzi più grandi, e nei pomeriggi di vacanza accompagnava a casa quelli tra i più piccoli che avessero sorelle graziose, o mamme note per le loro abilità culinarie. Gli conveniva, infatti, tenersi in buoni rapporti con i suoi scolari. Il provento che gli veniva dalla scuola era misero, e non gli sarebbe quasi bastato a pagarsi il pane, poiché era un gran mangiatore, e per quanto magro, aveva lo stomaco dilatabile come quello d'un anaconda. Perciò per aiutarlo a mantenersi, secondo le usanze della campagna, le famiglie dei ragazzi che istruiva gli offrivano vitto e alloggio nelle loro case a turni settimanali; così egli faceva periodicamente il giro del vicinato, spostandosi da una casa all'altra, con tutti i suoi beni avvolti in un fazzoletto di cotone.
Per non pesare troppo sulla borsa dei suoi ospiti campagnoli, soliti a considerare le spese scolastiche come particolarmente gravose, e i maestri come dei semplici parassiti, escogitava parecchi modi per rendersi utile e insieme piacevole. Di tanto in tanto dava una mano ai contadini nei lavori meno pesanti della campagna, aiutava a raccogliere il fieno, aggiustava le siepi, conduceva i cavalli a bere, portava a casa le mucche dal pascolo, o spaccava legna da ardere per l'inverno. E sapeva in tali occasioni mettere da parte tutta la dignità imperiale e tutto il potere assoluto con cui reggeva il suo piccolo stato scolastico, e si faceva meravigliosamente gentile e servizievole. Acquistava il favore delle madri coccolando i bambini, specialmente i più piccoli, e, come quel feroce leone che una volta tanto trattò l'agnello con delicata magnanimità, si faceva sedere un bimbo sulle ginocchia o dondolava una culla col piede per ore di seguito.
In aggiunta ai suoi diversi pregi, era anche il maestro di musica di tutto il vicinato, e racimolava parecchi scellini istruendo la gioventù nel canto dei salmi. Ed era per lui motivo d'orgoglio non piccolo potere, la domenica, piantarsi in prima fila di fronte alla galleria con una schiera di cantori scelti, e, come gli sembrava, eclissare completamente il povero curato. Certo è che la sua voce risuonava alta sopra quelle di tutti gli altri fedeli, e certi caratteristici trilli che ancora si possono udire in quella chiesa (anzi echeggiano a mezzo miglio di distanza, e fino alla riva opposta del laghetto del mulino la domenica mattina quando tutto è quieto) si dice discendano direttamente dall'apparato vocale di Ichabod Crane. Così, con vari piccoli espedienti e in quella maniera ingegnosa che si suol chiamare «di riffa o di raffa», il degno pedagogo sbarcava il lunario discretamente bene, e, a detta di quelli che non capiscono che cosa sia il lavoro intellettuale, faceva una vita beata.
Il maestro elementare generalmente è un personaggio assai importante nell'ambiente femminile campagnolo, poiché viene considerato come una specie di signore ozioso, che possiede gusti e talenti di gran lunga superiori a quelli dei rozzi giovanotti, ed è inferiore, in sapienza, soltanto al curato. Perciò il suo arrivo in qualche fattoria, al momento del tè, è sempre accompagnato da una certa eccitazione, e magari è l'occasione perché compaia sulla tavola un piatto in più di dolci o di tortelli, o forse anche una teiera d'argento. Il nostro letterato si sentiva particolarmente lusingato dai sorrisi delle giovani bellezze di quel villaggio. Bisognava vedere che bella figura faceva in mezzo a loro nel cimitero la domenica, nell'intervallo tra le funzioni! Raccoglieva per loro grappoli d'uva selvatica dalle viti che si arrampicavano sugli alberi circostanti; recitava gli epitaffi sulle lapidi, oppure passeggiava con un folto gruppo di ragazze su e giù per le sponde del laghetto del mulino, mentre i goffi cavalieri del paese se ne stavano indietro con aria impacciata, invidiando la sua eleganza e le sue maniere superiori.
A causa della sua vita vagabonda, egli era anche una specie di gazzettino ambulante, che portava di casa in casa l'intera collezione dei pettegolezzi locali, cosicché il suo arrivo era sempre accolto con piacere. Inoltre era stimato dalle donne quale uomo di grande erudizione, perché aveva letto parecchi libri dalla prima parola fino all'ultima, e conosceva alla perfezione la Storia della Stregoneria nella Nuova Inghilterra, di Cotton Mather, opera in cui, sia detto per inciso, credeva con piena e incrollabile fede.
Ichabod Crane rappresentava infatti una strana mescolanza di piccola astuzia e di ingenua credulità. Il suo appetito per le cose meravigliose non era meno straordinario della sua facilità ad assimilarle, ed entrambe le facoltà si erano in lui accresciute da quando abitava in quella regione fatata. Non c'era storia tanto grossa e mostruosa che egli non bevesse senza difficoltà. Spesso nel pomeriggio, dopo le lezioni, gli piaceva sdraiarsi sul rigoglioso letto di trifoglio che fiancheggiava il ruscello mormorante accanto alla scuola, e meditare sulle storie spaventose del vecchio Mather, finché la pagina gli si confondeva davanti agli occhi con il cader della sera. Allora, mentre costeggiava piccoli corsi d'acqua o attraversava paludi e boschi tenebrosi per giungere alla fattoria dove in quel momento era ospite, qualunque suono della natura in quell'ora stregata gli eccitava la fantasia: il lamento del succiacapre dalla collina, la voce di malaugurio del rospo che predice il temporale, il malinconico verso del gufo, o l'improvviso fruscio di un uccello che scappava spaventato dal suo nascondiglio in un cespuglio. Anche le lucciole, che splendevano vivissime nei punti più oscuri, ogni tanto lo facevano trasalire, tutte le volte che una più luminosa delle altre attraversava il sentiero; e se per caso uno stupido scarabeo lo urtava nel suo volo alla cieca, il povero diavolo moriva dalla paura, pensando di essere stato toccato dal dito d'una strega. Il solo mezzo che egli conoscesse in questi casi per riuscire a non pensare o per scacciare gli spiriti maligni, era di mettersi a cantare salmi; e la buona gente della Valle addormentata spesso, mentre sedeva la sera presso la porta di casa, si sentiva invasa dal timore udendo quelle melodie, cantate in tono nasale e «prolungate con dolce lentezza», giungere da una lontana collina o dalla strada già avvolta nell'ombra.
Altra sorgente di pauroso piacere per lui, era passare le lunghe serate d'inverno in compagnia delle vecchie comari olandesi, sedute a filare presso il fuoco, mentre le mele cuocevano e scoppiettavano sulla pietra del focolare, e ascoltare le loro storie meravigliose di spettri e di folletti, di campi stregati, di torrenti stregati, di ponti stregati, di case stregate, e soprattutto del Cavaliere senza testa, o, come talvolta lo chiamavano, dell'Assiano che galoppava per la Valle addormentata. A sua volta, poi, egli divertiva le vecchie con le sue storielle di stregoneria, e con racconti di sinistri presagi, di portentose visioni e di suoni vaganti per l'aria, un tempo così comuni nel Connecticut; e le spaventava oltremodo con profezie riguardanti le comete o le stelle cadenti, e con il fatto impressionante che il mondo gira completamente intorno a se stesso, e che perciò esse se ne stavano metà dei loro giorni a testa in giù!
Se la situazione era molto piacevole finché se ne stava comodamente raggomitolato a un angolo del camino, in una camera tutta illuminata dal bagliore rosso di un fuoco di legna scoppiettante, e dove, per conseguenza, non c'era spettro che avesse il coraggio di mostrare la punta del naso, pagava poi quel divertimento a caro prezzo con gli spaventi che si pigliava tornando a casa. Quali paurose forme e ombre non infestavano allora il suo sentiero nel debole chiarore spettrale di una notte di neve! Con che occhio fisso e attento osservava ogni raggio di luce che, dalla finestra di un lontano casolare, tremolasse attraverso i campi incolti! Quante volte si fermava terrorizzato davanti a un arbusto coperto di neve, che, simile a uno spettro ammantato di bianco, gli sbarrava la strada! Quante volte trasaliva al suono dei propri passi sulla crosta gelata, e non osava voltarsi indietro per paura di vedere qualche essere mostruoso camminargli alle spalle! E quante volte, al sibilo d'un colpo di vento improvviso, si era sentito perduto pensando che fosse l'Assiano che galoppava durante la sua ronda di mezzanotte!
Tutti questi, però, erano soltanto terrori notturni, fantasmi dell'immaginazione che vaneggia nelle tenebre; e, sebbene in vita sua avesse visto molti spettri, e parecchie volte il diavolo gli fosse comparso in diverse forme durante le sue passeggiate solitarie, pure tutti questi incubi sparivano al sorgere del sole. Se la sarebbe passata ancora discretamente bene, a dispetto del demonio e delle sue opere, se non gli avesse attraversato la strada un essere che procura da solo maggiore inquietudine ai mortali di quel che facciano spettri, folletti e tutta la genia delle streghe messi insieme: voglio dire... una donna.
Fra le allieve di canto, che una sera alla settimana si riunivano per essere da lui istruite nell'arte del salmodiare, si trovava Katrina Van Tassel, figlia unica di un agricoltore olandese assai benestante. Era una ragazza diciottenne, fresca e florida, grassotta come una pernice, dalle guance rosee e tenere come le pesche del frutteto di suo padre, e universalmente celebrata non solo per la sua avvenenza, ma anche per la bella dote che l'avrebbe accompagnata. Era per giunta assai civettuola, come appariva anche dal suo modo di vestire, una mescolanza di mode vecchie e nuove combinate insieme per meglio far apparire le sue grazie: ornamenti di puro oro giallo, che la sua trisavola aveva portato da Saardam, il corsetto seducente del tempo antico, e una corta sottana birichina che metteva in mostra i più bei piedini e le caviglie meglio modellate di tutta la contrada.
Ichabod Crane aveva un gran debole per le donne; non c'è dunque da stupirsi se un bocconcino così ghiotto gli solleticasse subito l'appetito, specie dopo che l'ebbe vista in casa di suo padre. Il vecchio Baltus Van Tassel era il tipo perfetto di contadino prospero, contento e generoso. E' vero che ben di rado rivolgeva il suo pensiero o il suo sguardo a ciò che si trovava al di là dei confini della sua fattoria, ma al loro interno tutto era confortevole, ben fatto, e soddisfacente. Egli era contento d'esser ricco, ma non orgoglioso, e, più che di ostentare agiatezza, si compiaceva della sua cordiale generosità. Il suo feudo era situato sulle rive dell'Hudson, in una di quelle conche verdi, riparate e fertilissime in cui i coltivatori olandesi amano fare il loro nido. Un grande olmo copriva la casa coi suoi rami frondosi, e ai suoi piedi gorgogliava una sorgente d'acqua pura e freschissima, che si versava in un piccolo pozzo a forma di botte; poi correva via scintillando fra l'erba, per gettarsi in un ruscello vicino che si allontanava mormorando in mezzo agli ontani e ai salici. Presso la casa c'era un fienile grande come una chiesa, da tutte le finestre e da tutte le fessure del quale sembrava che le ricchezze della fattoria traboccassero. La trebbiatrice risuonava là dentro da mane a sera, passeri e rondini volavano cinguettando attorno alle grondaie, e schiere di piccioni stavano a godersi il sole sul tetto, alcuni con occhio che guardava in su come per studiare il tempo, altri con la testa sotto l'ala o sprofondata in seno, altri ancora che si gonfiavano, e tubavano facendo riverenze intorno alla loro compagna. Grossi maiali lucidi e quasi incapaci di muoversi grufolavano nella quiete e nella dovizia dei loro porcili, dai quali a tratti uscivano schiere di porcellini ad annusare l'aria. Un folto squadrone di oche, bianche come la neve, nuotava in uno stagno vicino, scortando intere flotte di anatre; reggimenti di tacchini facevano il loro verso su e giù per il cortile, e le galline faraone giravano qua e là con l'aria impaziente di massaie irritate, emettendo il loro grido scontento e stizzoso. Davanti alla porta del fienile passeggiava il gallo, galante, modello di marito, guerriero e gentiluomo perfetto, agitando le ali lustre, e cantando d'orgoglio e di contentezza, grattando ogni tanto la terra con le zampe, e chiamando generosamente la sua affamata famiglia di mogli e di piccini a godere di qualche buon boccone che aveva scoperto.
Il pedagogo si sentiva venire l'acquolina in bocca mentre guardava questa ricca promessa di ottime cene invernali. Con la fantasia del mangiatore, egli immaginava ogni porcellino come se fosse già arrostito e corresse con una bella farcitura e una mela in bocca; i piccioni comodamente adagiati a dormire in una bella torta e rimboccati con una copertura di pasta frolla; le oche immerse nel loro stesso sugo, e le anatre accoppiate nei piatti, tranquille come tanti sposini con la dovuta dote di salsa di cipolle. Vedeva le cosce dei maiali sotto forma di grosse fette di lardo e di appetitosi prosciutti, ogni tacchino gli appariva già accuratamente legato, col suo ventriglio sotto l'ala e magari con una collana di saporita salsiccia, e perfino lo splendido gallo gli sembrava se ne stesse supino in un grande piatto di portata, con le zampe all'aria, come se chiedesse da morto quella pietà che la sua cavalleresca natura non gli aveva permesso di implorare da vivo.
Mentre Ichabod, estasiato, si figurava tutto questo e girava i suoi grossi occhi verdi sui prati lussureggianti, sui campi ricchi di frumento, di segale, di granturco e saraceno, e sui frutteti carichi di frutta matura che circondavano la ricca fattoria di Van Tassel, il suo cuore sospirava per la fanciulla che avrebbe ereditato quell'impero, e la sua immaginazione si accendeva all'idea di come tutta quella roba si sarebbe facilmente convertita in denaro, e il denaro investito in immense distese di campagna incolta e in palazzi di tronchi. Anzi, la sua fantasia eccitata già gli mostrava il suo sogno realizzato, e gli faceva vedere la florida Katrina, circondata da una nidiata di bambini, seduta sulla cima di un carro carico di suppellettili domestiche, con casseruole e padelle che dondolavano disotto, e lui stesso in sella a una cavalla, con il suo puledro al seguito, in viaggio verso il Kentucky o il Tennessee, o per chissà dove.
Quando poi entrò nella casa, il suo cuore fu completamente conquistato. Era una di quelle spaziose fattorie, dai tetti aguzzi e inclinati dolcemente fin quasi a terra, fabbricata nello stile tramandato dai primi coloni olandesi, con le grondaie basse e sporgenti che formavano, davanti alla facciata, un riparo che poteva essere chiuso con il cattivo tempo. Sotto questo riparo erano appesi correggiati, finimenti, vari attrezzi agricoli e reti da pesca. Lungo i muri c'erano delle panche per la siesta estiva; un grande filatoio a mano da una parte e una zangola dall'altra mostravano i vari usi cui questo portico poteva venir destinato. Da qui lo stupefatto Ichabod entrò nella sala posta al centro della casa, dove la famiglia stava d'abitudine. I suoi occhi furono abbagliati da file di piatti di peltro lucente, allineate sopra una lunga credenza. In un angolo stava un enorme sacco di lana da filare, in un altro una quantità di panno appena tolto dal telaio; pannocchie di granturco e ceste di mele e pesche secche pendevano come grandi festoni dalle pareti, mischiate ai vivaci colori dei peperoncini rossi; attraverso una porta socchiusa si poteva dare un'occhiata al salotto buono, dove le sedie con le gambe a zampa d'uccello e le tavole di mogano scuro luccicavano come specchi; gli alari scintillavano in compagnia della paletta e delle molle nella loro custodia di vimini; sul caminetto, decorato di arance finte e di conchiglie, erano appese corone di uova d'uccelli colorate; nel centro della camera pendeva un grande uovo di struzzo, e un armadio d'angolo, lasciato volutamente aperto, metteva in mostra immensi tesori di vecchia argenteria e di porcellana ordinata con cura.
Appena Ichabod ebbe posato lo sguardo su questo mondo di delizie, non trovò più pace, e il suo unico pensiero era rivolto a come guadagnarsi l'affetto dell'impareggiabile figlia di Van Tassel. Con quest'impresa però andava incontro a difficoltà assai maggiori di quelle che in genere toccavano ai cavalieri erranti dei tempi antichi, i quali raramente avevano da lottare contro ostacoli che non fossero giganti, incantatori, draghi dalle bocche di fuoco e altri simili innocui avversari, e avevano semplicemente da oltrepassare porte di ferro e di bronzo e muri di diamante per giungere alla torre dove era rinchiusa la donna del cuore; tutte cose che compivano con la stessa facilità con cui voi e io arriveremmo con il coltello al centro di una soffice torta; e subito dopo, s'intende, la dama concedeva loro la mano. Ma Ichabod invece doveva farsi strada fino al cuore di una civettuola di campagna, circondata da un labirinto di ghiribizzi e di capricci, che di continuo facevano nascere nuove difficoltà e nuovi ostacoli; egli doveva misurarsi con un esercito di avversari in carne e ossa, cioè con i numerosi pretendenti locali che assediavano tutte le porte del cuore di lei guardandosi l'un l'altro in cagnesco, sempre pronti però a far causa comune contro qualsiasi nuovo concorrente.
Tra costoro il più formidabile era un certo attaccabrighe tarchiato e spaccone chiamato Abraham, o piuttosto, secondo l'abbreviazione olandese, Brom Van Brunt, una specie d'eroe locale, che faceva risuonare tutto il paese della fama delle sue imprese di forza e di coraggio. Aveva spalle larghe e possenti, capelli neri corti e ricciuti e un'espressione prepotente, ma non spiacevole, di arroganza burlona. Per via della sua corporatura erculea e per la grande forza dei suoi muscoli era stato soprannominato Brom Bones (cioè Brom dalle ossa dure) e tutti lo conoscevano con quel nomignolo. Aveva fama di grande competenza e abilità nel cavalcare, e in verità, quando era in sella, valeva un tartaro. Era sempre presente a tutte le corse e a tutti i combattimenti di galli, e grazie all'autorità che la sua forza fisica gli conferiva sulla gente di campagna, era arbitro di tutte le dispute, e sentenziava, col cappello sulle ventitré, con un'aria che non ammetteva né replica né appello. Era sempre pronto a menar le mani o a fare scherzi; ma era di animo più birbone che cattivo, e al fondo della sua natura tracotante e irruente c'era una vena di scherzoso buon umore. Aveva due o tre compagni che lo consideravano il loro modello, alla testa dei quali scorrazzava per la campagna partecipando a ogni rissa e a ogni festa che si tenesse nel giro di molte miglia. D'inverno lo si riconosceva facilmente per il suo berretto di pelo sormontato da una coda di volpe ondeggiante, e quando in un ritrovo campestre la gente vedeva da lontano il ben noto pennacchio sventolare in mezzo a una squadra di cavalieri in corsa, tutti si facevano da parte preparandosi al peggio. Talvolta, di notte, in prossimità di qualche fattoria, si udivano le urla e gli schiamazzi della sua banda al galoppo, simile a una compagnia di Cosacchi del Don; le vecchie, svegliate di soprassalto, stavano a sentire un momento, finché lo scalpito si perdeva lontano, poi esclamavano: «Senti, senti, Brom Bones e la sua banda che passano!» I suoi compaesani lo guardavano con un misto di timore, di ammirazione e di simpatia, e quando si aveva notizia nel vicinato di qualche tiro birbone o scoppiava qualche rissa paesana, scuotevano la testa e giuravano che di sicuro c'era lo zampino di Brom Bones.
Questo chiassoso eroe aveva da qualche tempo scelto la bella Katrina quale oggetto della sua rozza galanteria, e sebbene le sue dimostrazioni d'affetto avessero la gentilezza delle carezze e delle moine d'un orso, tuttavia si bisbigliava che la ragazza fosse ben lontana dal non incoraggiarlo. Certo è che alla sua comparsa si ritirarono i candidati rivali, nessuno dei quali sentiva il desiderio di contrariare il leone nella sua impresa amorosa; e quando la domenica sera si vedeva il suo cavallo legato alla palizzata di Van Tassel, segno certo che il suo padrone stava facendo la corte alla figliola, o, come si usava dire, era dentro a fare lo spasimante, tutti gli altri pretendenti tiravano dritto, e disperati se ne andavano a portar guerra su altri fronti.
Tale era il formidabile avversario contro cui Ichabod Crane doveva combattere, e, tutto considerato, un uomo più forte di lui si sarebbe ritirato dalla lotta, e uno più saggio si sarebbe messo il cuore in pace. Ma la sua natura era una felice combinazione di adattabilità e di perseveranza; somigliava, nel fisico e nel morale, a un ramo di betulla che cede, ma non si spezza; così egli si piegava, ma non si rompeva mai, e sebbene la minima pressione lo curvasse, non appena quella cessava, eccolo là, di scatto, dritto e con la testa più alta di prima.
Entrare apertamente in campo contro un rivale di quel tipo sarebbe stata follia; infatti Brom non era uomo da sopportare che lo si contrastasse nei suoi amori più di quel che lo fosse il prode Achille, amatore tempestoso.Ichabod pertanto fece i suoi primi approcci in maniera tranquilla e dolcemente insinuante. In qualità di maestro di canto, faceva frequenti visite alla fattoria; non che avesse nulla da temere da un inopportuno intervento dei genitori, che così sovente sono un ostacolo sul sentiero degli innamorati. Balt Van Tassel era un brav'uomo che viveva e lasciava vivere, amava sua figlia anche più della pipa, e, come conviene a ogni persona ragionevole e a ogni ottimo padre, le lasciava fare tutto quello che voleva. La sua mogliettina, donna eccellente, era occupatissima con la casa e il pollaio, poiché, come saggiamente osservava, le oche e le anatre sono bestie stupide che bisogna governare, mentre le ragazze possono badare a se stesse. Così, mentre la signora era affaccendata per casa o faceva andare il filatoio a un capo del portico, l'onesto Balt se ne stava seduto all'altro, facendo la sua pipata vespertina e osservando le evoluzioni di un piccolo guerriero di legno che, con una spada per mano, combatteva valorosamente contro il vento sulla cima del granaio. Intanto Ichabod faceva la corte alla figliola sotto il grande olmo vicino alla fontana, o passeggiava su e giù nell'ombra del crepuscolo, in quell'ora così favorevole all'eloquenza degli innamorati.
Giuro di non sapere come si faccia a prender d'assalto e a vincere i cuori delle donne. Per me sono sempre stati incomprensibili e meravigliosi. Alcuni sembrano avere solo un punto vulnerabile, una sola porta d'accesso, mentre altri hanno mille viali, e si possono conquistare in mille modi differenti. E' certo un trionfo d'abilità non trascurabile guadagnare i primi, ma è prova di genio bellico assai più grande mantenere il possesso dei secondi; poiché in questo caso il conquistatore deve difendere ogni porta e ogni finestra della fortezza. Perciò colui che vince mille cuori è degno di fama, ma colui che riesce a dominare indisturbato sul cuore di una civetta è senz'altro un eroe. Ora, il temuto Brom Bones non era certamente un eroe in questo senso, e da quando Ichabod Crane cominciò l'assalto, le azioni del primo presero visibilmente a calare, il suo cavallo non fu più visto legato alla palizzata della fattoria la domenica sera, e una terribile lotta s'ingaggiò a poco a poco tra lui e il precettore della Valle addormentata.
Brom, la cui natura aveva qualcosa di rozzamente cavalleresco, avrebbe volentieri deciso le sorti della rivalità in campo aperto, e avrebbe sostenuto le sue pretese alla mano della dama in singolar tenzone, secondo il metodo di quei semplici e concisi ragionatori del buon tempo antico che furono i cavalieri erranti. Ma Ichabod conosceva troppo bene la superiorità fisica del suo avversario per lasciarsi trascinare in campo contro di lui; egli aveva di nascosto sentito Bones vantarsi che avrebbe «piegato in due quel maestrucolo e messo a dormire su uno scaffale della scuola»; ed era troppo prudente per porgergliene l'opportunità. Per Brom c'era qualcosa in questo atteggiamento ostinatamente pacifico che lo faceva ammattire; poiché non gli lasciava altre risorse che fare assegnamento sul capitale di arguzia rusticana a sua disposizione, e giocare al suo avversario dei tiri grossolani. Così Ichabod divenne vittima delle reiterate burle di Bones e della sua masnada di sfrontati cavalieri. Essi iniziarono a invadere i suoi domini, rimasti fino allora così pacifici: gli affumicavano la scuola di canto turandogli il camino, penetravano di notte nella classe, a dispetto della formidabile chiusura di vimini e bastoni, e mettevano ogni cosa a soqquadro; tanto che il povero maestro era indotto a credere che tutte le streghe del paese vi tenessero adunanza. Ma, ciò che era anche più spiacevole, Brom coglieva ogni occasione per renderlo ridicolo in presenza della sua bella; aveva insegnato a quel furfante del suo cane a guaire nella maniera più comica del mondo, e lo presentava come maestro di canto concorrente di Ichabod nell'insegnare alla fanciulla l'arte del salmodiare.
Le cose andarono avanti così per qualche tempo senza produrre alcun notevole effetto sulla posizione dei due contendenti. In un bel pomeriggio d'autunno Ichabod, in vena di meditazione, se ne stava maestosamente seduto sull'alto sgabello dal quale di solito dominava il suo piccolo regno letterario. In mano teneva la ferula, scettro simbolico di potere assoluto, la verga di giustizia riposava sopra tre chiodi, dietro al trono, quale minaccia costante per i malfattori, mentre sulla cattedra davanti a lui erano visibili parecchi oggetti di contrabbando e parecchie armi proibite trovate addosso a qualche piccolo fannullone, come mele mangiate a metà, cerbottane, trottole, gabbiette da mosche, e un'intera collezione di piccoli galli di carta. A quanto sembrava, doveva essere stato compiuto recentemente qualche terribile atto di giustizia, poiché gli scolari erano tutti fissi con grande attenzione sui loro libri, o vi si nascondevano dietro bisbigliando con prudenza e tenendo d'occhio il maestro, mentre in tutta la classe regnava una strana calma ronzante. Ma la quiete fu improvvisamente turbata dall'apparire di un negro, vestito con giacca e pantaloni di tela di sacco, sul capo un avanzo di cappello a punta simile all'elmetto di Mercurio, e montato sopra un puledro irsuto, matto e quasi selvatico, che il cavaliere guidava con un pezzo di corda al posto delle redini. Giunse con gran fracasso fino alla porta della scuola, e riferì a Ichabod l'invito a una festa che doveva aver luogo in casa di Mynheer Van Tassel. Dopo aver esposto il suo messaggio con quell'aria boriosa e quella forzata ricercatezza nel parlare che i negri sfoggiano nel compiere tali piccole ambasciate, attraversò con un salto il ruscello e corse via per la vallata, tutto fiero dell'importanza e dell'urgenza della sua missione.
Nella classe, così tranquilla pochi momenti prima, tutto fu subito movimento e subbuglio. Il maestro fece concludere il lavoro ai ragazzi senza badare a bazzecole; quelli che erano svelti ne saltarono metà impunemente, mentre i ritardatari vennero di tanto in tanto incoraggiati a far presto, o aiutati a trovare il senso di qualche parola difficile con delle vigorose vergate ai posteriori. Si buttarono via i libri a casaccio invece di riporli sugli scaffali, si rovesciarono i calamai, si mandarono all'aria le panche e fu concessa l'uscita all'intera scolaresca un'ora prima del solito; tutti quei monelli saltarono fuori come una schiera di giovani demoni, urlando e facendo chiasso sul prato per la grande gioia di quella anticipata liberazione.
Il galante Ichabod dedicò almeno una mezz'ora di più alla sua toeletta, spazzolando e lisciando il suo migliore, anzi unico e già stinto abito nero, e ravviandosi il ciuffo davanti a un pezzo di specchio rotto, appeso a una parete della scuola. Per comparire dinanzi alla sua bella come conviene a un cavaliere, si fece prestare un cavallo dal contadino presso cui stava in quel momento a pensione, un vecchio olandese collerico, chiamato Hans Van Ripper, e, così superbamente montato, se ne partì simile a un paladino in cerca d'avventure. Conviene però che, secondo il vero spirito delle storie romantiche, io dia qualche notizia sull'aspetto e sull'equipaggiamento dell'eroe e del suo destriero. L'animale che egli cavalcava era un cavallo rovinato dall'aratro, che con l'età aveva perduto ogni bella qualità, ma conservato tutti i vizi; era magro e irsuto, con un collo da pecora e una testa a forma di martello; la criniera spelacchiata e la coda erano tutte aggrovigliate con bacche spinose; un occhio era senza pupilla, e guardava fisso come quello di uno spettro, ma l'altro conservava un luccichio davvero diabolico. Pure a giudicare dal suo nome, «Polvere da sparo», doveva essere stato un tempo un cavallo focoso e vivace; era stato infatti il favorito del suo padrone, il rabbioso Van Ripper, un cavaliere furibondo che probabilmente aveva infuso nella bestia un po' del suo carattere, poiché, per quanto apparisse vecchio e malandato, aveva in corpo più diavoli di qualsiasi giovane puledra dei dintorni.
Ichabod era una figura degna di un tale cavallo. Le staffe corte gli innalzavano le ginocchia quasi all'altezza del pomo della sella; i gomiti aguzzi puntavano all'infuori come le zampe dei grilli, teneva in mano il frustino in posizione verticale come uno scettro, e mentre il cavallo trotterellava, le sue braccia sbattevano come un paio d'ali. Un berrettuccio di lana gli scendeva fin sul naso, data l'assenza quasi totale di fronte, e le falde della giacca nera gli ballonzolavano dietro fin quasi sulla coda del cavallo. Tale era l'aspetto diIchabod e del suo palafreno, nell'uscire, con andatura un po' strascicata, dal cancello di Hans Van Ripper, e posso assicurare che una visione simile in pieno giorno è cosa rara.
Era, come già dissi, una bella giornata d'autunno; il cielo era sereno e limpido, e la natura era vestita di quel ricco manto dorato che siamo soliti associare all'idea dell'abbondanza. Le foreste si erano tinte di giallo e marrone, mentre qualche albero più delicato, già punto dal gelo, si era colorato di brillanti sfumature d'arancione, di porpora e di scarlatto. Lunghe file di anatre selvatiche cominciavano a comparire in volo, alte nell'aria, il verso dello scoiattolo giungeva dai boschi di faggi e di noci selvatici, e il richiamo della quaglia risuonava di tratto in tratto lamentoso nei vicini campi di stoppie.
Gli uccelli più piccoli facevano le ultime scorpacciate della stagione. Nell'entusiasmo del festino volavano cinguettando e giocherellando da un cespuglio all'altro, da un albero all'altro, capricciosi nei loro gusti per la grande abbondanza e varietà di mangime. C'era il bravo pettirosso, preda favorita dei monelli, che faceva udire la sua nota forte e querula; i merli fischiavano volando qua e là come nuvole nere; e c'era il picchio dalle ali dorate, con la cresta rossa, la larga gorgiera nera e lo splendido piumaggio; e l'uccello del cedro, con le ali dalla punta rossa, la coda dalla punta gialla e il ciuffetto di piume che sembra un berrettino; e c'era la gazza azzurra, questa vanitosa chiacchierona, col suo vivace mantello color del cielo a risvolti bianchi, che strillava e cianciava, e abbassava la testa, e faceva inchini e riverenze, e si dava l'aria d'essere in grande confidenza con tutti i cantori del bosco.
Mentre Ichabod trottava adagio per la strada, i suoi occhi, sempre pronti a registrare ogni segno di abbondanza gastronomica, si posavano beati sui tesori del festoso autunno. Da tutte le parti vedeva una profusione di pomi, alcuni pendenti dagli alberi carichi fino a schiantarsi, altri già raccolti in ceste e barili e pronti per il mercato, altri ancora radunati in grandi mucchi in attesa del torchio. Più lontano apparivano vasti campi di granturco, con le pannocchie d'oro che facevano capolino tra le foglie, e promettevano dolci e pasticci; sotto il granturco enormi zucche gialle voltavano al sole le pance rotonde e lucide e suggerivano l'idea di torte meravigliose; poi comparivano i fragranti campi di grano saraceno, che sprigionavano profumo d'alveare, e mentre Ichabod guardava, già gustava con la fantasia i delicati tortelli bene imburrati e spalmati di miele o melassa dalla piccola mano gentile e paffutella di Katrina Van Tassel.
Così nutrendo la mente di pensieri dolci e di «fantasie zuccherate», proseguiva il cammino lungo una fila di colline, da cui si gode una delle viste più meravigliose del grande fiume Hudson. Il sole a poco a poco scendeva col suo disco infuocato verso occidente. Il vasto bacino del Tappaan Zee si stendeva immobile come uno specchio, solo interrotto qua e là da una leggera ondulazione che prolungava le ombre azzurre delle montagne lontane. Qualche nuvola ambrata stava sospesa nell'aria, senza che il minimo soffio di vento la muovesse; l'orizzonte era tutto una splendida luminosità dorata, che mutava a poco a poco in verde chiaro e purissimo, per cambiare poi in azzurro cupo. Un raggio obliquo indugiava sulle creste boscose che orlavano i precipizi a picco sul fiume, evidenziando la profondità dei fianchi rocciosi dalle tinte grigio-scure e purpuree. In lontananza una barca discendeva pigramente con la corrente, con la vela floscia e inutile che pendeva dall'albero, e nel riflesso del cielo sull'acqua tranquilla la barca sembrava sospesa a mezz'aria.
Ichabod giunse al calar della sera alla proprietà di mastro Van Tassel, e la trovò affollata del fior fiore di tutta la contrada. C'erano vecchi coltivatori, dalle facce magre e dalla pelle simile a cuoio conciato, vestiti di giacche e calzoni di panno tessuto in casa, calze azzurre, scarpe gigantesche con magnifiche fibbie di peltro. E c'erano le loro mogli, rugose ma vispe, con cuffie minutamente arricciate, corte gonne con la vita larga, sottogonne di panno rustico, tasche di percalle dai colori vivaci che contenevano forbici e torselli; floride ragazze vestite secondo una moda antiquata, come le loro madri, salvo un cappello di paglia, un bel nastro o magari una sottana bianca a dimostrazione che le novità cittadine non erano loro del tutto sconosciute. I giovani indossavano giacche corte dalle falde quadrate, con file di magnifici bottoni di ottone; la maggior parte aveva i capelli legati a codino secondo la foggia di quei tempi, specialmente quelli che avevano potuto procurarsi una pelle di anguilla per fermarli, essendo tale ornamento ritenuto in tutta la contrada un ottimo sistema per rafforzare e far crescere i capelli.
Ma il re della festa era Brom Bones, giunto sul suo cavallo favorito, Daredevil, una bestia dotata, come il suo padrone, di vivacità e di voglia di far scherzi, e che nessuno, salvo lui, sapeva dominare. Di Brom infatti era nota la la predilezione a montare cavalli bizzarri e capricciosi, che mettessero il cavaliere in continuo pericolo di rompersi il collo, poiché riteneva un cavallo domato e docile una cavalcatura non degna di un giovane che si rispetti.
Mi piacerebbe soffermarmi a descrivere il mare di delizie che apparve dinanzi agli occhi estasiati di Ichabod appena egli ebbe varcata la soglia del salotto buono di Van Tassel. Non parlo delle grazie delle molte ragazze fiorenti, nel loro lussuoso sfoggio di bianco e rosso; parlo degli incanti generosi di un'autentica sala da tè olandese, in campagna, durante la ricca stagione autunnale. Che abbondanza di dolci, di qualità tanto varie da non poterle quasi descrivere, e note soltanto alle esperte massaie olandesi! C'erano pasticcini a pallottola, pasticcini teneri e pasticcini croccanti; paste dolci lunghe e corte, quelle con lo zenzero, quelle col miele, e quelle di tutte le qualità. E poi c'erano torte di mele, e torte di pesche, e torte di zucca; e poi prosciutto e carne affumicata a fette; e per di più piatti deliziosi di susine, di pere, di pesche e di cotogne in conserva, per non parlare delle aringhe e dei polli arrosto; e ancora grandi scodelle di latte e di panna, il tutto mescolato alla rinfusa un po' così come l'ho descritto, accanto alla panciuta teiera che mandava fuori nuvole di fumo in mezzo a tutto quel ben di Dio. Santo cielo! Ci vorrebbe fiato e parecchio tempo per descrivere quel banchetto come meriterebbe, ma io sono impaziente di andare avanti con la mia storia. Per fortuna, Ichabod Crane non aveva la fretta che ha il suo storico, e così seppe fare onore a tutti i piatti.
Egli era di natura disposto alla gratitudine, il suo cuore si allargava man mano che la pancia gli si riempiva di cibi gustosi, e la sua fantasia si accendeva mangiando, come ad altri succede quando alzano il gomito. Inoltre non poteva fare a meno, mentre mangiava, di girare gli occhi attorno, e gongolare al pensiero che un giorno o l'altro avrebbe forse potuto essere padrone di tutto quel paradiso di dovizia che quasi superava l'immaginazione. Allora, pensò, avrebbe subito dato l'addio alla sua vecchia scuola, infischiandosene di Hans van Ripper e di tutti gli altri suoi avari patroni, e avrebbe messo alla porta a calci qualsiasi pedagogo ambulante che avesse osato chiamarlo collega!
Il vecchio Baltus Van Tassel si aggirava tra i suoi ospiti con una faccia raggiante di gioia e di buon umore, tonda e gioconda come la luna piena. I suoi modi ospitali erano semplici, ma espressivi, poiché si limitavano a una stretta di mano, a un colpetto sulla spalla, a una risata di cuore, e a un caldo invito «a farsi sotto e servirsi a piacere».
Poi dalla grande sala di riunione giunse una musica che invitava a ballare. Il sonatore era un vecchio negro dalla testa grigia che da più di cinquant'anni formava da solo l'orchestra ambulante di tutto il vicinato. Il suo strumento era vecchio e malandato come lui, e quasi tutto il tempo non fece altro che grattare due o tre corde insieme, accompagnando ogni colpo d'arco con un movimento della testa, inchinandosi quasi fino a terra, e battendo forte il piede sul pavimento ogni volta che una nuova coppia si lanciava nella danza.
Ichabod si vantava delle sue abilità di ballerino non meno che delle sue qualità di cantore. Non c'era muscolo o fibra della sua persona che restasse ferma; e a vedere quella figura dinoccolata in pieno movimento caracollare per la stanza, avreste detto che san Vito, protettore benedetto del ballo, vi stesse davanti in persona. Egli suscitava l'ammirazione di tutti i negri d'ogni età e statura, i quali, piovuti dalle fattorie vicine, formavano piramidi di facce nere e lucenti a tutte le porte e a tutte le finestre, contemplavano con infinito piacere la scena, facevano roteare il bianco degli occhi e, ridendo, mettevano in mostra file di denti di candido avorio che andavano da un orecchio all'altro. Come avrebbe potuto l'onesto fustigatore di monelli non essere pieno di contentezza e animazione? La donna del suo cuore ballava con lui, e rispondeva con graziosi sorrisi a tutte le sue occhiate amorose, mentre Brom Bones, crudelmente ferito dall'amore e dalla gelosia, se ne stava in un angolo a mangiar rabbia da solo.
Finita la danza, Ichabod si avvicinò a un gruppo di anziani i quali, con il vecchio Van Tassel, sedevano a un'estremità del portico, fumando e chiacchierando dei tempi andati, e narrando storie interminabili della guerra. Il luogo, al tempo del nostro racconto, era uno dei più indicati per l'abbondanza di memorie storiche e di grandi uomini. Durante la guerra la linea di combattimento angloamericana si era trovata assai vicina; perciò il paese era stato teatro di razzie, e infestato da profughi, cowboys e da ogni sorta di avventurieri. Era ormai passato un tempo sufficiente perché ciascun narratore potesse infiorare le sue storie con qualche azzeccata invenzione, e potesse inoltre, grazie allo stato di confusione in cui si trovavano i suoi ricordi, dipingersi come l'eroe di ciascuna impresa.
Ecco la storia di Doffue Mart-ling, un grosso olandese dalla barba nera, il quale poco mancò che catturasse una fregata britannica con un vecchio cannone da nove libbre, puntato dietro un riparo di fango, se disgraziatamente il pezzo non fosse scoppiato al sesto colpo. E poi quella del vecchio signore, di cui non farò il nome, essendo personaggio troppo danaroso per farne menzione alla leggera, il quale, maestro nell'arte della scherma, alla battaglia di Whiteplains parò con la spada una palla di moschetto con tale precisione da sentirla fischiare intorno alla lama e saltar via sull'elsa; a prova del fatto era disposto, in qualsiasi occasione, a mostrare la spada con l'elsa leggermente ammaccata. Parecchi altri erano stati grandi sul campo di battaglia, e tutti, dal primo all'ultimo, non dubitavano che si doveva in non piccola misura anche a loro se la guerra era finita felicemente.
Ma tutto questo è niente paragonato alle storie di spettri e di apparizioni che seguirono. Già si è detto che il paese è ricco di tesori di tale natura, poiché le superstizioni fioriscono a meraviglia in questi recessi di antica colonizzazione, mentre vengono calpestati dalla folla mutevole che forma la popolazione di molte nostre campagne. Inoltre, nella maggior parte dei nostri villaggi gli spettri non sono incoraggiati, poiché non hanno nemmeno il tempo di finire il loro primo pisolino e voltarsi dall'altra parte della fossa, che già la gente che li conobbe da vivi se n'è andata da quei luoghi, cosicché, quando di notte vanno fuori a fare un giro, non sanno più a chi far visita. E questa forse è la ragione per cui si sente così di rado parlare di spettri, salvo che nelle nostre vecchie comunità olandesi.
Però la causa prima del proliferare di storie soprannaturali in queste parti era la vicinanza della Valle addormentata. Perfino l'aria che spirava da quella regione stregata sembrava possedere un influsso generatore di sogni e di fantasie che invadevano l'intero paese. Alla festa di Van Tassel erano intervenuti parecchi abitanti della Valle addormentata, che ora, come di solito, stavano propinando qualcuna delle loro stupefacenti e pazze leggende. Raccontarono di aver visto processioni funebri e di aver udito grida lamentose presso il grande albero dove il disgraziato maggiore André era stato fatto prigioniero, albero che sorgeva a non grande distanza. Si parlò della donna vestita di bianco che appariva nella scura valletta della Roccia del Corvo, dov'era morta tra la neve, e dove la si udiva spesso strillare nelle notti d'inverno prima di una tempesta. Ma la maggior parte dei racconti si imperniavano sullo spettro più conosciuto della Valle addormentata, il Cavaliere senza testa, che era stato visto parecchie volte, ultimamente, vagare per la campagna, e che, a quanto si diceva, ogni notte legava il suo cavallo a un albero tra le fosse del cimitero.
La posizione appartata dell'attigua chiesa l'aveva sempre resa un luogo preferito dalle anime in pena. Essa sorge infatti in cima a un monticello circondato da acacie e da grandi olmi, tra i quali si scorgono i muri semplicemente imbiancati, come una luce di purezza cristiana che scintilli fra le ombre del raccoglimento. Un dolce pendio scende da qui verso uno specchio d'acqua cristallina, attorniato da alti alberi tra i quali spuntano a tratti le azzurre colline dell'Hudson. Guardando il cimitero coperto d'erba, su cui i raggi del sole sembrano assopirsi, si direbbe che almeno là i morti possano dormire in pace. Lungo un lato della chiesa si apre un dirupo boscoso, sul fondo del quale un impetuoso torrente rumoreggia fra rocce infrante e tronchi d'albero caduti. In un punto dove l'acqua è profonda e nera, non lontano dalla chiesa, c'era un tempo un ponte di legno; la stradina che vi portava e il ponte stesso erano avvolti nell'ombra fitta degli alberi sovrastanti, che rendevano il luogo fosco persino di giorno, mentre di notte lo avvolgevano di tenebre paurose. Questo era uno dei luoghi prediletti dal Cavaliere senza testa, il posto dove lo si incontrava più di frequente. Si raccontava di un certo Brouwer, irriducibile miscredente in fatto di spettri, che una volta si era imbattuto nel Cavaliere mentre tornava dalla sua scorribanda nella Valle addormentata, ed era stato forzato a salire in groppa dietro di lui; avevano galoppato insieme per macchie e brughiere finché erano giunti al ponte; qui il cavaliere si era di colpo trasformato in uno scheletro, aveva scagliato Brouwer nel torrente ed era balzato via galoppando al di sopra degli alberi con un grande fragore di tuono.
A fare il paio con questo racconto seguì immediatamente l'avventura strabiliante di Brom Bones, il quale iniziò a parlare dell'Assiano come se non fosse che un famoso imbroglione. Raccontò che una sera, tornando dal vicino villaggio di Sing-Sing, era stato raggiunto da quel soldataccio nottambulo, e aveva scommesso un boccale di punch a chi fosse arrivato prima a non so che punto; Brom avrebbe anche vinto la scommessa, visto che il suo Daredevil si mangiava in un boccone il cavallo fantasma dell'altro, però, proprio mentre giungevano al ponte della chiesa, l'Assiano se la svignò e scomparve in una nuvola di fuoco.
Tutte queste storie, raccontate con quel tono di voce basso e sonnacchioso con cui la gente parla al buio, mentre i lineamenti degli ascoltatori appena si intravedono di quando in quando, al momentaneo bagliore di una pipa accesa, suscitarono grande impressione nella fantasia di Ichabod. Egli restituì loro pan per focaccia attingendo a diversi brani del suo autore preferito, Cotton Mather; e aggiunse molti altri eventi meravigliosi avvenuti nel Connecticut, suo paese natale, e paurose apparizioni che aveva visto nelle sue camminate notturne attraverso la Valle addormentata.
La festa volgeva al termine. Gli anziani proprietari terrieri raccoglievano le loro famiglie sui carri, e il rumore delle rudimentali ruote si allontanava lungo le strade della valle e oltre le colline. Alcune ragazze montavano in sella dietro il loro cavaliere favorito, e le loro risa vivaci, unite al trotto sonoro del cavallo, echeggiavano lungo i boschi silenziosi, sempre più debolmente, fino a perdersi e morire a poco a poco; così la scena di chiassosa allegria rimase deserta e silenziosa. Soltanto Ichabod non se ne andava ancora, cercando, secondo l'usanza degli innamorati di campagna, di parlare da solo con l'ereditiera, pienamente persuaso di essere ormai sulla via del successo. Che cosa sia avvenuto durante questo colloquio non posso dirlo perché... non lo so. Temo però che qualcosa sia andato di traverso, poiché non molto dopoIchabod fu visto andarsene via con la testa bassa e con un'aria sconsolata. Ah, queste donne! queste donne! Che la ragazza gli avesse giocato qualcuno dei suoi tiri da civetta? Che l'incoraggiamento dato al povero pedagogo non fosse che una messinscena per conquistare il rivale? Lo sa il cielo; io non ne so nulla. Basti dire cheIchabod se ne andò con l'espressione di uno che abbia tentato di saccheggiare un pollaio, anziché vincere il cuore di una bella fanciulla. Senza più guardarsi intorno per osservare quella scena di opulenza rurale di cui aveva tanto spesso fantasticato, andò di filato nella stalla, e, con calci e spintoni, fece alzare con poca cortesia il suo ronzino dal comodo angolo dove dormiva placidamente, sognando montagne di frumento e di biada, e intere valli d'erba medica e di trifoglio.
Era proprio l'ora delle streghe quella in cui Ichabod, a capo chino e triste in cuore, si mise a trottare verso casa lungo i fianchi delle alte colline che dominavano Tarry Town, dove era passato nel pomeriggio con tanto buon umore. La scena era tenebrosa quanto i suoi pensieri. Laggiù si stendeva la cupa e indefinita distesa d'acqua del Tappaan Zee, su cui, qua e là, dondolava l'alto albero di una barca tranquillamente ancorata a riva. Nel profondo silenzio della mezzanotte si sentiva l'abbaiare di un cane da guardia sull'opposta sponda dell'Hudson, ma il suono era così debole e indistinto che dava a Ichabod soltanto l'idea della grande distanza che lo separava da questo fedele compagno dell'uomo. Di tanto in tanto il canto prolungato di un gallo, svegliatosi per caso, giungeva da lontano, da qualche fattoria perduta tra le colline, ma era un suono udito come in sogno. Accanto a lui, non un segno di vita, salvo ogni tanto il malinconico richiamo di un grillo, o, dalla vicina palude, il verso gutturale di un bull-frog che pareva non potesse dormire bene e si rivoltasse di colpo nel letto.
Ora tutte le storie di spettri e di folletti di cui Ichabod aveva sentito parlare nel pomeriggio gli si affollavano nella mente. La notte diveniva sempre più scura; sembrava che le stelle sprofondassero nel cielo, e qualche nuvola vagante ogni tanto le nascondeva. Non si era mai sentito tanto solo e triste, e per di più si stava avvicinando proprio ai luoghi che erano stati il teatro delle apparizioni di cui aveva ascoltato il racconto. Nel bel mezzo della strada sorgeva un enorme albero, che troneggiava come un gigante al disopra degli alberi vicini, e formava una specie di barriera naturale. I rami erano nodosi e di forme fantastiche, grossi quanto il tronco di un albero comune, scendevano attorcigliandosi tra loro quasi fino a terra, e poi si rialzavano di nuovo in aria. L'albero era legato alla tragica storia dello sventurato André, il quale era stato fatto prigioniero lì vicino, ed era perciò conosciuto da tutti con il nome di albero del maggiore André. La gente lo considerava con un misto di rispetto e di superstizione, un po' per la compassione ispirata dalla triste sorte di chi gli aveva dato il nome, e un po' a causa di certe storie di strane apparizioni e di voci lamentevoli che si raccontavano al riguardo.
Nell'avvicinarsi al terribile albero Ichabod si mise a fischiare, e gli parve di sentire qualcuno rispondere al suo fischio, ma era soltanto un soffio d'aria sibilante fra i rami secchi. Accostandosi ancora di più, credette di vedere qualcosa di bianco sospeso al centro dell'albero; si fermò e smise di fischiare; ma, guardando meglio, vide che in quel punto l'albero era stato colpito da un fulmine, che lo aveva scortecciato, facendo apparire il legno bianco. Poi improvvisamente gli parve di sentire un gemito; allora cominciò a battere i denti e le ginocchia gli tremarono contro la sella: era soltanto un ramo che, agitato dal vento, sfregava contro un altro. Passò dunque oltre incolume; ma al di là dell'albero nuovi pericoli l'attendevano.
Circa duecento metri più avanti un torrentello attraversava la strada e andava a gettarsi in una valletta acquitrinosa e folta di boscaglia, detta la Palude di Wiley. Alcuni tronchi messi per il lungo uno accanto all'altro servivano da ponte sopra il ruscello. Dalla parte della strada dove il piccolo torrente entrava nella palude, un gruppo di querce e di castagni, coperti da un groviglio di viti selvatiche, gettavano un'ombra tenebrosa. Il passaggio di questo ponte era la prova più terribile; poiché proprio lì lo sciagurato André era stato catturato, e proprio sotto quei castagni e quelle viti si erano nascosti i rozzi soldati che lo avevano sorpreso. Da allora in poi il torrente è stato considerato stregato e gli scolari, che devono attraversarlo da soli, dopo il tramonto, hanno una paura da morire.
Mentre Ichabod si avvicinava al torrente, il cuore cominciò a battergli forte; si fece coraggio, sferrò una dozzina di calci nella pancia del cavallo e tentò di passare velocemente al di là del ponte. La maledetta bestiaccia, però, invece di lanciarsi in avanti, scartò di lato e andò a sbattere contro la siepe. Ichabod, cui la paura cresceva con l'indugio, tirò le briglie dall'altra parte menando calci nel fianco del cavallo. Ma non servì a nulla; perché l'animale si mosse, è vero, ma solo per andare a gettarsi dalla parte opposta della strada in una macchia di ontani e di rovi. Il povero maestro si mise allora a lavorare di frusta e di stinchi alle costole scarnate del vecchio Polvere da sparo, il quale balzò innanzi soffiando e sbuffando, ma poi si fermò di colpo proprio accanto al ponte, così inaspettatamente che per poco il cavaliere non finì lungo e disteso per terra, passandogli sopra la testa. Ma ecco che proprio in quel momento un rumore di passi lungo il ponte, come di chi cammini su terreno acquitrinoso, colpì l'orecchio teso di Ichabod, e nell'ombra oscura del bosco, al margine del ruscello, egli vide una figura enorme, nera e torreggiante. Quella cosa non si muoveva, ma sembrava raccolta su se stessa nella tenebra, come un mostro gigantesco, pronto a lanciarsi sul viandante.
All'atterrito pedagogo si drizzarono i capelli. Che fare? Per volgere le spalle e fuggire era troppo tardi; e d'altra parte come sperare di scappare da uno spettro o da un folletto, se di spettro o folletto si trattava, capace di volare sulle ali del vento? Provò dunque a fare il coraggioso e chiese balbettando: «Chi è là?» Nessuna risposta. Ripeté la domanda con voce ancora più tremante. Di nuovo silenzio. Allora riprese a picchiare la groppa del suo cavallo irremovibile, e, chiudendo gli occhi, e con involontario fervore, si mise a cantare un salmo. In quel momento l'ombra spaventosa si mosse, e con tre balzi fu nel bel mezzo della strada. Ora, sebbene la notte fosse fosca e oscura, era possibile distinguere confusamente la forma di quella cosa misteriosa. Sembrava una specie di cavaliere di proporzioni gigantesche, montato su un cavallo nero altrettanto grande. Il cavaliere non dava alcun segno di ostilità o amicizia, ma si teneva in disparte sul lato della strada corrispondente all'occhio cieco del vecchio Polvere da sparo, cui ora erano passate la paura e l'ostinazione.
A Ichabod quello strano compagno notturno non andava affatto a genio, perché gli ricordava l'avventura di Brom Bones e dell'Assiano senza testa; spronò quindi il ronzino, sperando di distanziarlo. Ma lo sconosciuto accelerò a sua volta. Ichabod tirò allora le redini, e si mise ad andare al passo, sperando di poter restare indietro; ma l'altro fece lo stesso.Ichabod cominciò a sentirsi mancare il cuore; provò a riprendere il suo salmo, ma la lingua secca gli si era appiccicata al palato, e non riuscì a emettere una nota. Nel cupo e assoluto silenzio di quel caparbio compagno c'era qualcosa di misterioso e inquietante, e ben presto Ichabod ne comprese la ragione. Nel salire una collinetta la figura del cavaliere si stagliò per un momento contro il cielo, gigantesca di statura, avvolta in un mantello, e, come Ichabod vide con indicibile orrore, senza testa! Ma l'orrore crebbe a dismisura quando il poveretto si accorse che lo sconosciuto portava davanti a sé, sul pomo della sella, la testa che avrebbe dovuto tenere sul collo. Il terrore mutò in disperazione e Ichabod scaricò una tempesta di calci e di frustate su Polvere da sparo, sperando con un balzo improvviso di sparire davanti al suo compagno; ma lo spettro con un salto gli fu vicino. Partirono entrambi, allora, al galoppo, per viottoli e sentieri, facendo volare pietre e scintille a ogni salto. I leggeri indumenti di Ichabod sventolavano e nella furia della corsa egli piegava la lunga schiena sopra il collo del cavallo.
I due avevano raggiunto la strada che si inoltra nella Valle addormentata, ma Polvere da sparo, che sembrava aver il diavolo in corpo, invece di imboccarla, svoltò d'improvviso a sinistra e si lanciò per l'altra strada in discesa, che conduce, attraverso una conca sabbiosa, alberata e scura, per circa un quarto di miglio, al ponte tanto famoso nelle storie dei folletti, e subito dopo alla collina verde su cui sorge la chiesa bianca. Il panico del cavallo di Ichabod aveva procurato fino a quel momento un certo vantaggio al suo poco esperto cavaliere, ma, proprio a metà della conca, le cinghie della sella cedettero, ed egli se la sentì scivolare via di sotto. L'afferrò per il pomo, tentando di tenerla a posto, ma invano; ebbe appena il tempo d'afferrarsi al collo di Polvere da sparo per non fare un capitombolo, che la sentì cadere a terra, e rotolare sotto le zampe del cavallo del suo inseguitore. Per un momento lo spettacolo dell'ira di Hans Van Ripper gli attraversò la mente, poiché quella era la sua sella di gala; ma non era il momento per simili paure; lo spettro gli era alle calcagna, ed egli, povero cavaliere maldestro, aveva il suo da fare a mantenersi in groppa: ora scivolava da una parte, ora dall'altra, ora picchiava con tanta forza sulla spina dorsale del suo cavallo, che gli pareva di sentirsi tagliare in due. Una radura tra gli alberi finalmente lo confortò facendogli sperare che il ponte della chiesa fosse vicino, e il riflesso tremulo di una stella sull'acqua del torrente gli dimostrò che non aveva sbagliato. Vide i muri della chiesa biancheggiare debolmente sotto gli alberi, e si ricordò che in quel punto lo spettro in gara con Brom Bones era scomparso. «Se riesco a raggiungere il ponte», pensò Ichabod, «sono salvo.» Proprio in quel momento udì il soffio e l'ansimare del cavallo nero immediatamente dietro di lui, anzi, gli parve persino di sentirne il fiato caldo. Ancora un calcio disperato sulle costole di Polvere da sparo, e l'animale si slanciò sul ponte, rumoreggiò sui tronchi con un fracasso di tuono e raggiunse la riva opposta; a questo punto Ichabod si voltò indietro per vedere se il suo inseguitore fosse sparito, secondo la regola, in mezzo a una grande fiammata sulfurea. Vide invece lo spettro che si alzava sulle staffe e faceva l'atto di scagliargli la testa contro. Ichabod tentò di schivarla, ma troppo tardi; l'orribile proiettile gli arrivò sul cranio con uno schianto tremendo che lo fece volare a capofitto nel polverone della strada, mentre Polvere da sparo, il cavallo nero e il cavaliere diabolico gli passarono accanto come un turbine.
Il mattino seguente fu trovato il cavallo di Van Ripper, senza sella e con le briglie tra le gambe, mentre mangiava tranquillamente l'erba davanti al cancello della cascina del suo padrone. A colazione Ichabod non comparve; venne l'ora del pranzo, eIchabod non si fece vivo. I ragazzi si riunirono intorno alla scuola, e iniziarono a gironzolare lungo la riva del ruscello, ma del maestro nemmeno l'ombra. Hans Van Ripper cominciò a sentirsi inquieto sulla sorte del povero Ichabod e... della propria sella. Cominciarono le ricerche, e, dopo diligenti indagini, si poté giungere sulle sue tracce. In un punto della strada che conduce alla chiesa fu trovata la sella tutta pesta e infangata; il fondo della strada portava profonde impronte di zoccoli di cavallo, a indicare una corsa sfrenata; le orme continuavano fino al ponte, e al di là di questo, sulla riva del torrente, in un punto dove l'acqua è profonda e nera, fu ritrovato il cappello del povero Ichabod, e vicino una zucca fracassata.
Venne scandagliato il torrente ma non si trovò il cadavere del maestro. Hans Van Ripper, in qualità di esecutore testamentario, aprì il fagotto che conteneva tutti i suoi beni; questi consistevano di due camicie e mezza, due colletti, un paio o due di calze di lana, un vecchio paio di calzoni di fustagno, un rasoio arrugginito e un libro di salmi pieno di orecchie alle pagine. Quanto ai libri e ai mobili della scuola, era roba della comunità, a eccezione della Storia della Stregoneria di Cotton Mather, di un volume dell'Almanacco della Nuova Inghilterra e di un libro sui sogni e sull'arte di predire la fortuna; in quest'ultimo si trovò un foglio di carta protocollo, scribacchiato e zeppo di cancellature, contenente parecchi tentativi non riusciti di versi in onore dell'ereditiera Van Tassel. Tutti questi libri magici, insieme allo scarabocchio poetico, furono all'istante gettati alle fiamme da Hans Van Ripper, il quale, a cominciare da quel giorno, decise di non mandare più i suoi bambini a scuola, asserendo di aver capito benissimo che da tutto quel leggere e scrivere non era mai venuto fuori niente di buono. Tutto il denaro che il maestro probabilmente possedeva, aveva appunto ricevuto un trimestre di stipendio un paio di giorni prima, doveva averlo avuto con sé al momento della scomparsa.
La domenica seguente, all'uscita della chiesa, il misterioso avvenimento fece fiorire molte congetture. Gruppi di persone si raccolsero a osservare e a discutere nel cimitero, vicino al ponte e sul luogo dove erano stati trovati il cappello e la zucca. Si richiamarono alla memoria i racconti di Brouwer, di Bones e di molti altri, e dopo averli passati tutti diligentemente in rassegna e confrontati con l'ultimo caso, la gente scosse il capo e concluse che Ichabod era stato portato via dall'Assiano senza testa. Poiché era scapolo e non aveva obblighi con nessuno, nessuno si preoccupò di lui; la scuola fu spostata in un altro punto della valle, e un altro pedagogo gli successe nell'incarico.
Vero è che un vecchio fattore, che alcuni anni dopo soggiornò per qualche tempo a New York, e dal quale ho udito il racconto di questa avventura soprannaturale, riferì che Ichabod Crane era ancora vivo, che aveva abbandonato quel paese un po' per paura del fantasma e di Hans Van Ripper, e un po' per l'umiliazione d'esser stato inaspettatamente rifiutato dall'ereditiera; aggiunse che si era trasferito in una zona lontana dello stato, aveva insegnato e contemporaneamente studiato legge, era diventato avvocato, s'era dato alla politica, impegnato nelle elezioni, era divenuto giornalista e infine l'avevano fatto Giudice di Tribunale.
Quanto a Brom Bones, il quale poco dopo la scomparsa del suo rivale condusse trionfalmente all'altare la prosperosa Katrina, tutte le volte che sentiva raccontare la storia diIchabod dimostrava di saperla lunga, e scoppiava in una sonora risata quando si parlava della zucca, tutte cose che inducevano a sospettare che di quella accenda egli ne sapesse assai più di quel che voleva lasciar intendere.
Comunque le vecchie contadine, che dopo tutto sono i giudici più competenti in queste materie, continuano ancora oggi a sostenere che Ichabod fu rapito da qualche forza soprannaturale; la sua storia è tra le preferite e più spesso raccontate nelle sere d'inverno attorno al fuoco. Il ponte diventò oggetto di superstizioso timore ancor più di prima; forse questa è la ragione per cui, in questi ultimi anni, fu cambiato il tracciato della strada, così che adesso si arriva alla chiesa costeggiando lo stagno del mulino. La scuola, non più frequentata, ben presto cadde in rovina, e si disse che fosse abitata dallo spettro del disgraziato pedagogo; e i contadini che tornano lentamente dai campi nelle tranquille sere d'estate spesso immaginano di sentire la sua voce da lontano cantare mestamente dei salmi, laggiù nelle solitudini silenziose della Valle addormentata.
Poscritto rinvenuto fra gli appunti di mano del signor Knickerbocker.
La narrazione che precede è stata da me riportata quasi con le medesime parole con cui l'ho udita narrare durante un'assemblea delle Corporazioni dell'antica città che già fu dei Manhattan, incontro a cui presenziavano molti tra i suoi cittadini più autorevoli e illustri. A narrarla fu un vecchio dall'aria distinta, simpatica e dimessa, con un abito color sale e pepe e con sul viso un sorriso triste, il quale mi diede la netta impressione di rientrare nel novero dei poveri, giacché si sforzava di riuscire divertente. Quando lo ebbe terminato, il suo racconto fu accolto da molte risa e frasi di approvazione, in particolare da parte di due o tre viceconsiglieri comunali che avevano dormito per quasi tutto il tempo. Però vi fu un vecchio gentiluomo alto e asciutto, dalle sopracciglia aggrondate, che per tutto il tempo aveva sempre mantenuto un viso grave e piuttosto severo; incrociando di quando in quando le braccia, inclinando la testa, guardando il pavimento, come se stesse rimuginando tra sé e sé qualche grave dubbio. Era uno di quegli uomini circospetti che non ridono mai, se non su solide basi, allorché hanno la ragione e la legge dalla parte loro. Quando le risate degli altri si furono spente e si ristabilì il silenzio, egli si appoggiò con una mano al braccio della sedia e, postasi l'altra sul fianco, domandò, con un cenno del capo leggero ma estremamente autorevole e un impercettibile aggrottar di sopracciglia, quale fosse la morale del racconto e che cosa, con esso, si volesse dimostrare.
Il narratore, che si stava allora accostando alle labbra un bicchiere di vino per ristorarsi dopo le fatiche del parlare, tacque un istante, guardò con aria di infinita deferenza il suo interlocutore e, abbassando lentamente il bicchiere sulla tavola, osservò che il racconto intendeva, a ragion di logica, mostrare:
«Che non c'è situazione nella vita che non comporti certi suoi vantaggi nonché certi suoi lati piacevoli, a patto che si sappia stare allo scherzo.
«Che perciò chi sfida a correre a cavallo lo spettro di un soldato di cavalleria deve aspettarsi una cavalcata rude, a dir poco.
«Ergo, per un maestro di campagna che chieda la mano di un'ereditiera olandese, ricevere un rifiuto è il trampolino di lancio che porta ineluttabilmente a fare una brillante carriera in politica.»
Dopo questa spiegazione, il vecchio gentiluomo circospetto aggrottò ancor di più le sopracciglia, profondamente dubbioso sulla correttezza del sillogismo, mentre mi parve che il signore dal vestito color sale e pepe lo sbirciasse con qualcosa di sarcastico e di trionfante nell'espressione. Infine l'interlocutore osservò che tutto questo gli andava bene, ma che continuava a giudicare la storia un tantino strampalata: sussistevano ancora uno o due punti sui quali nutriva forti dubbi.
«Signore, le assicuro», replicò allora il narratore, «che, se è solo per questo, io stesso non ne credo neppure la metà.»
FINE.