Come facevano gli antichi abitanti del mio paese a sapere esattamente o, anche, con buona approssimazione, che ore fossero?
Come facevano a sapere quando era arrivata l'ora di lasciare il lavoro nei campi per arrampicarsi in paese per la notte, attraverso la salita della vecchia, impervia Strada Serra?Prima della seconda grande guerra gli orologi da polso non erano ancora troppo diffusi in paese, qualche raro esemplare era appannaggio solo dei pochi, ricchi notabili.
Si sarebbero dovuti aspettare gli anni dell'immediato dopoguerra, gli anni della ricca ricostruzione perchè mio nonno, il mitico Nonnu Salvatore, conosciuto da tutti in paese come zì Salvatore gl'arefece potesse cominciare a smerciare e a diffondere - antesignano del mercato parallelo - gli Zenith, i Longines, i Tissot, i Vetta, orologi meccanici a carica manuale, che qualcuno ancora mostra orgoglioso sul polso raggrinzito dalla vecchiaia, quando mi incontra per strada o viene al negozio per la manutenzione.
Mio nonno li comprava a Napoli, in Piazza Mercato, a Forcella, dietro alla Stazione Centrale, e li rivendeva a rate a Coreno, per una cifra che spesso valeva un mese di stimpendio.
Dovevano essere davvero soldi ben spesi, all'epoca, perchè quegli orologi sono sopravvissuti a molti proprietari e anche a mio nonno.
Stessa storia per gli orologi tascabili; solo chi aveva un ricco zio emigrato in America poteva vantare il possesso di un Elgin d'argentone o di un Roskoph, rumoroso ma indistruttibile, col quadrante in ceramica, se l'avo, invece di andare in Amrìerica col piroscafo, fosse restato a lavorare nel vecchio continente.
L'orologio della torre campanaria non so se c'era; e se c'era non si vedeva certo dalla campagna.
Allora, siccome dalle mie parti si dice ed è vero: "scarpe grosse, cervello fino"; la necessità aguzza l'ingegno, a qualcuno di quei villici arguti dev'essere venuta un'idea veramente brillante.
Si doveva cercare, individuare e sfruttare necessariamente un segno naturale sulla montagna di Fammera, che fosse facilmente visibile, anche da molto lontano, da chiunque si trovasse nelle campagne di Coreno ed avesse bisogno di regolarsi.
E così fu.
Fu segnalata una grossa formazione rocciosa, un enorme esemplare di calcare sporgente, bianco abbagliante, proprio a destra della base di uno sperone di roccia più grande, a metà dell'altezza della montagna: quando l'ombra di quello sperone fosse stata proiettata su quella pietra, spaccandola quasi a metà, potevi essere sicuro che erano le due del pomeriggio.
Si doveva interrompere il lavoro e cominciare a preparare la vappata o il saccapà perchè, di lì a poco, si doveva intraprendere la strada del ritorno, lunga e dura.
La lunga e dura giornata di lavoro nei campi sarebbe finita; ma non la strada per casa: quella attendeva immobile, inesorabile lungo i ripidi declivi della collina i contadini stanchi e sudati.
Per ironia della sorte, oggi che gli orologi si sono diffusi e inflazionati - tutti ne hanno almeno uno sul polso - non ci sono più contadini in campagna, che hanno necessità di sapere l'ora.
Nessuno butta più lo sguardo verso la roccia dimenticata sulla montagna di Fammera.
Qualche anno fa un gruppetto di buontemponi ha buttato ancora una volta lo sguardo verso Fammera: si è accorto che la pietra sulla montagna non si vedeva più.
Le pietre, dalle nostre parti, ingrigiscono col tempo, perdono il loro pallore lucente.
Allora ha raggiunto a piedi la roccia, armato di pennelli e vernice, l'ha dipinta di bianco, per farla vedere bene da lontano ancora una volta; anche se non si sa bene da chi.
Forse da tutta la gente del paese, che ha dimenticato la vecchia tradizione dell'orologio di pietra: per vedere l'ora, basta che si guardi sul polso.
smr