Storie di paese. 20

Creato il 15 dicembre 2012 da Salvatore Ruggiero @sally57
Mio nonno Salvatore, Nonnù o Nonnu Salvatore, come lo chiamavamo in famiglia, aveva un grande fiuto per i piccoli affari e aveva cominciato a commerciare abbigliamento di seconda mano, subito dopo la guerra.
Faceva i mercati nei paesi vicini e anche alcune grosse fiere.
Certe volte infilava la sua bancarella anche in qualche campo boario.
A quei tempi, in zona, si organizzavano spesso, per le compravendite di animali di tutte le taglie: dai pulcini alle vacche. 
Siccome non aveva mai preso la patente ma aveva comunque comprato una macchina, una Topolino Fiat, era accompagnato sul posto da un autista (di solito erano o Minicu Roccu o il cugino Frosinone) e spesso dall'altro mio nonno Gasparrino Biagiotti, che, in cerca di prima occupazione, momentaneamente gli faceva da assistente alle vendite.
Sebbene i rapporti tra i due non fossero proprio idilliaci: Gaspare tendeva ad essere sempre onestissimo e non aveva malizia, al contrario di Nonnù Salvatore.
Quando un villico si misurava un pantalone o una giacca che risultava di qualche taglia più grande il primo diceva chiaramente al potenziale acquirente che non andava bene e bisognava cambiare taglia; il secondo, con un po' di malizia, sapendo di non avere la taglia giusta, stringeva il pugno intorno alla stoffa in eccesso, alla vita o dietro le spalle e diceva al cliente che andava benissimo, anzi, che con quel capo addosso, era un vero elegantone.
La malizia di mio nonno Salvatore permetteva di non perdere solo la vendita, ma non produceva alcun danno all'icauto acquirente: quello si sarebbe presentato la settimana successiva a pretendere di cambiare il pantalone o la giacca, con uno di taglia inferiore.
Che mio nonno aveva tutto il tempo di procurare.
Tuttavia, nonostante i rimbrotti dei poveri clienti insoddisfatti, mio nonno, al quale prendere in giro i villici doveva procurare un immenso piacere, non aveva mai pensato di modificare i suoi sistemi di vendita. Ad esempio, assortendosi meglio.
Ma a lui piaceva avere un po' di soldi in tasca, anzichè investirli tutti in merce. E continuava così.
L'altro nonno finì presto di violentare le sue saldezze morali, quando, di lì a poco, trovò l'occupazione definitiva, lasciando nonnu Salvatore da solo, senza assistente e in ambasce.
Verso la metà degli anni '50 accettò un posto da usciere all'ospedale Gemma De Posis di Cassino, gentilmente offertogli da Giulio Andreotti, che all'epoca ancora non era il Divo Giulio.
Quel posto era davvero soddisfacente: fatica fisica nulla e tante relazioni pubbliche, per le quali mio nonno Gaspare, al contrario di Nonnù Salvatore, aveva un vero talento.
Dopo un po che faceva questo commercio Nonnù Salvatore, pensò bene di mettersi in proprio: aveva capito, finalmente, che avrebbe guadagnavato di più.
I vestiti li faceva tagliare e cucire con stoffa da poco, di quart'ordine, pagata davvero poco. Ma almeno era resistente.
Spesso usava la tela dei paracadute che i giovani di Coreno trovavano ancora in montagna, magari appessi al ramo di un albero.
Il paracadutista si era impigliato cadendo e aveva tagliato le corde per liberarsi e salvarsi dai soldati tedeschi sempre in agguato.
Il paracadute era rimasto lì per settimane se non per mesi, la stoffa era talmente pesante e impermeabile che restava quasi intatta, solo un po stinta.
Ma tanto mio nonno ne avrebbe dovuto ricavare pantaloni da lavoro per contadini, mica smocking per signori.
Tutti sapevano che mio nonno comprava e vendeva di tutto e portavano a lui tutto quello che trovavano in montagna: schegge, bossoli vuoti di proiettili, polvere da sparo, paracadute, proiettili di Garand inesplosi, perfino i denti d'oro estratti dalla bocca dei cadaveri insepolti.
Ovviamente era abbastanza intelligente per capire che l'oro andava scambiato solo con altro oro e cominciò così ad interessarsi di oreficeria.
Di lì a poco avrebbe iniziato una nuova attività da orefice-orologiaio, con tanto di negozio.
Normalmente, mio nonno andava a Napoli con l'amico barbiere e qualche altro piccolo commerciante di Coreno suo amico e piazzava tutta la merce a Forcella, il mercato nero dietro a Piazza Garibaldi, zona Stazione FS.
Con quello che ricavava comprava tutto quello che serviva a lui per il suo piccolo commercio e quello che gli era stato ordinato dai suoi clienti.
Allora il mercoledì sera si portava appresso fasci pesantissimi di fioretti di ferro per le cave di marmo, balle di cartine per sigarette, buste piene di tabacco trinciato e sigari Toscani, lamette per rasoi da barba, abiti e scarpe nuove ed usate, orologi meccanici di marca, e molto altro ciarpame che comunque fosse suscettibile di essere venduto ai paesani.
Perfino le pietrine che si mettevano negli acciarini a benzina tipo Zippo.
Ovviamente insieme a tutta questa roba, per noi affascinante ma inservibile, portava anche qualche regalino per mia madre e per noi.
Per mia madre si trattava di cose da indossare, ma che mia madre non indossava mai perchè le reputava troppo dozzinali.
Dopo tutto era la figlia di Nonno Gaspare, e si sa, la mela non cade mai molto lontana dall'albero.
Secondo il giudizio di mio nonno era semplicemente fanatica.
Per noi bambini si trattava quasi sempre di cose da mangiare.
Specialità gastronomiche napoletane, vere e proprie leccornìe.
Mi ricordo con struggente nostalgia le pizzette napoletane al pomodoro e mozzarella, i panzerotti ripieni di mozzarella, acciughe, pomodoro e basilico, i tarallucci morbidi glassati e le trecce di pasta lievitata candite e spolverate di zucchero. Oltre alle immancabili sfogliatelle.
E sotto Natale gli struffoli o la cicerchiata con i diavoletti colorati sopra.
Ma che panettoni, pandori, torroni e copeta.
Gli struffoli sono tutt'oggi il mio dolce natalizio preferito.
In pratica, mio nonno tornava da Napoli carico come un asino: allo stesso modo o forse anche di più di come era partito.
Ma la cosa più strana che abbia mai portato da Napoli fu un grosso fucile con una sola canna, un Beretta calibro 20 con tanto di bandoliera piena di cartucce.
Strana perchè mio nonno stava ad un'arma come il Papa poteva stare a un romanzo erotico.
Quando si presentò alla porta di casa col fucile in spalla e la bandoliera a tracolla e l'immancabile cappello in testa e le mani piene di buste e sacchetti mia madre non poteva credere ai suoi occhi.
Siccome era in possesso di un'ironia pungente e proprio mio nonno era il suo bersaglio preferito, gli fece cenno di entrare ma prima...
"Mi è parso, per un attimo, di avere sull'uscio di casa il brigante Faosaperata."
Non so se sia mito o storia, ad ogni modo il brigante Faosaperata si chiamava così da quando sfuggi ai gendarmi che lo inseguivano sulla neve, facendosene beffa perchè si era infilate le scarpe al contrario, producendo delle tracce che sembravano andare nella direzione opposta alla sua.
Ad ogni modo, dopo essere entrato in casa, mio nonno si era infilato in bagno per darsi una sciacquata e per pensare la replica.
Ne era uscito raggiante e felice come un bambino.
Siccome non si perdeva mai d'animo, e anche per non darla vinta a mia madre, come se niente fosse successo, si era seduto al tavolo della cucina per rifocillarsi e aveva cominciato a raccontare.
"Ad un certo punto della vita uno deve pur prendersi qualche soddisfazione, deve farsi passare qualche sfizio, o dovrebbe soltanto lavorare come un mulo.
Disse. E proseguì, teneramente:
"Allora oggi ho pensato bene di comprare questo fucile, una vera occasione, perchè il mio desiderio, da sempre, era di averne uno tutto mio. E mi piacerebbe andare a caccia e sparare ai beccafichi sotto gli alberi degli Vallisconti."
E poi quei beccafichi li avrebbe spiumati  a mano, uno per uno, eviscerati, cotti, arrostiti sul fuoco, e mangiati, caldi caldi, quasi interi, con tutte le ossa, che sono molto tenere e gustose, quanto e più della poca carne che hanno attaccata.
L'idea a me non sembrava affatto malvagia, anzi tutt'altro, mi pareva divertente, anche perchè aveva detto subito che a me sarebbe stato affidato un compito di grande responsabilità: raccogliere e recuperare gli uccellini caduti a terra prima che li prendesse il nostro Fido e li mangiasse lui con tutte le penne.
Naturalmente il suo restò un sogno realizzato solo a metà.
Come era successo per la Topolino, aveva comprato il fucile ma non poté mai usarlo perchè non aveva la licenza di caccia e non aveva tempo e voglia di prendersela.
Sono passati quasi cinquant'anni e ancora sto aspettando che nonnu Salvatore venga a svegliarmi per una battuta di caccia.
Di quei bei tempi mi restano mille di questi semplici, meravigliosi ricordi e il piccolo fucile a una sola canna Beretta calibro 20.
I primi gelosamente conservati nella mia testa, il secondo conservato, altrettanto gelosamente, nell'armadietto di caccia in cantina.
Insieme ai fucili da caccia veri di mio padre.

smr

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