Storie di vita: metodologia nel lavoro sociale

Creato il 12 dicembre 2013 da Postpopuli @PostPopuli

di Claudia Boddi

Parlando dell’uso delle storie di vita come metodologia nel lavoro sociale, nel post precedente abbiamo concluso affermando che, attraverso di esse, gli operatori possono rendere evidenti ed efficaci negli interventi le relazioni esistenti fra gli eventi e i fatti che si sono verificati nelle diverse biografie prese in esame, sottolineandone le correlazioni nei biogrammi, mediante i supporti teorici, di matrice soprattutto sociologica, che argomentano da vari punti di vista il problema dell’identità.

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In questa fase delle nostra analisi, è opportuno invece affrontare l’aspetto delle difficoltà e dei rischi che questo approccio può comportare. Il tema dell’oggettività, insieme a quello delle interpretazioni personali, rappresentano senza dubbio le più grosse insidie che in questo percorso possono essere incontrate. Spada di Damocle che pende inesorabilmente sulla testa di coloro i quali si occupano di scienze umane e sociali, il problema dell’oggettività apre numerosi interrogativi poiché, non esistendo un paradigma conoscitivo specifico di riferimento, esso rimane strettamente legato alla legittimazione della fonte e del processo. Impossibile perseguire l’oggettività assoluta: le letture delle storie che possono essere avanzate devono poter essere sempre integrate, riviste o reinterpretate da altri punti di vista. È necessario guardarsi dall’arbitrio assoluto che, nel servizio sociale tout court, può assumere le sembianze di giudizi di tipo valoriale veicolati da stereotipi e pregiudizi privi di fondamento sul piano empirico. Avvicinarsi alle storie con un corretto atteggiamento professionale che sia in grado di renderci consapevoli di quali siano le corde personali che risuonano dentro di noi durante uno dei passaggi narrativi, significa poter essere capaci di non proiettare su di essi i nostri contenuti o i nostri sistemi valoriali.

Risulta infatti fondamentale leggere le storie di vita senza attribuire ad esse i nostri significati personali: in questi casi, il pericolo potrebbe essere quello di travisare il senso vero che determinati eventi o vissuti avevano realisticamente assunto per le persone interessate. Da molteplici indagini realizzate, emerge come elemento degno di particolare nota, l’importanza di non porre come verità assolute e immodificabili nella riflessione, considerazioni che nascono come deduzioni proprie dell’osservatore.

Se si riescono a tenere sempre presenti, come riferimento teorico, le basi sulle quali si fonda l’ottica sistemica, non è difficile comprendere come la prospettiva attraverso la quale un professionista può leggere una biografia sia solo una delle molteplici angolazioni tramite le quali poter correlare fra loro i dati. Lo studio delle storie di vita non parte mai come un cammino che ha davanti a sé una meta ben precisa cui giungere. Al contrario, esso nasce con l’obiettivo di delineare una traiettoria, un’ipotesi sistemica delle situazioni. Altrettanto importante è ricordare che le biografie, rilette dall’operatore sociale, devono rispecchiare la realtà ed essere verosimili. Non può esserci niente di inventato o aggiunto dall’osservatore. Questo implica la necessità di conoscere le vicende nella loro complessità e articolazione.

Un altro importante rischio, a cui chi lavora con le storie può andare incontro, è ovviamente il problema dell’impatto emotivo che esse possono avere su di lui poiché questo può pericolosamente alterare la capacità di lettura delle informazioni. Per far fronte a questo inconveniente, sarebbe utile che nei servizi fosse garantita la possibilità di riflettere sugli input ricevuti attraverso un confronto costante con un professionista nel ruolo di supervisore e con gli altri membri dell’équipe di lavoro al fine di oggettivare i vissuti per evitare di agirli attivamente nelle storie che si andranno a trattare.

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