Storytelling e giornalismo ambientale. Da Eugene Smith al documentario interattivo

Creato il 13 maggio 2013 da Greeno @greeno_com
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Ogni giornalista ambientale – ci si augura – sa che si è da poco celebrato il 50^ anniversario della pubblicazione di Silent Spring, il libro di Rachel Carson che raccontava dell’uso indiscriminato dei pesticidi e delle sue conseguenze su micro e macrosistemi. Il libro della Carson è considerato da molti il primo valido esempio di giornalismo ambientale d’inchiesta e rappresenta un riferimento certo nella ricostruzione storiografica della disciplina. Prossimo a questo, c’è stato un altro anniversario da ricordare, forse meno conosciuto ma ugualmente fondamentale. Dieci anni dopo l’uscita di Silent Spring, nel giugno del 1972 la rivista americana Life pubblicò un’inchiesta dal titolo “La morte viene dalle tubature”. Era un crudo reportage fotografico ad opera di Eugene Smith, che raccontava con immagini raccapriccianti le conseguenze dell’avvelenamento da mercurio nella città di Minamata, in Giappone. Si testimoniavano le pratiche di smaltimento di rifiuti tossici della compagnia Chisso, lo sversamento di mercurio nell’Oceano Pacifico, i sintomi di avvelenamento degli abitanti del villaggio, le loro morti.

Come la Carson, anche Smith fu duramente attaccato per il suo lavoro. Nel suo caso anche fisicamente. Durante un incontro con le vittime del “morbo di Minamata”, organizzato dai capi della compagnia Chisso, alcuni uomini al loro servizio lo picchiarono selvaggiamente. Le percosse causarono a Smith la perdita di un occhio e le gravi lesioni, dalle quali non si riprese più, lo portarono alla morte sei anni più tardi. L’influenza del suo lavoro sul modo di raccontare storie, però, è sopravvissuta ben oltre le sue ferite. Le componenti tecniche dei reportage di Smith – gli allestimenti scenici, i dettagli, la centralità delle espressioni, le sequenze, la resa visiva di azione e reazione – restano ancora oggi un riferimento per chi faccia reportage fotografici.

Ovviamente, però, mentre alcuni aspetti tipici del modo di confezionare reportage ambientali sono rimasti inalterati, molto altro è cambiato. I ‘visual storytellers’ hanno oggi a disposizione una gamma di strumenti sorprendentemente ed infinitamente più varia di quella a disposizione di Smith al tempo dei suoi lavori in bianco e nero. Parliamo della garanzia che la modernità assicura con la pervasività dei supporti digitali, quella cioè di ‘iper-mostrare’ l’informazione. Il senso del detto “f 8 and be there” (f 8 è una misura di apertura dell’obiettivo), caro ai vecchi fotoreporter d’assalto, è ormai disinnescato in profondità proprio dalla riscrittura dell’idea di supporto e di presenza sul luogo. Quando oggi un fotografo arriva sul posto di un cosiddetto ‘breaking news event’, sa già di trovarvi decine di fotocamere già in azione. Ma il fatto di usare Instagram non vuol dire essere un buon fotografo, proprio come essere in grado di scrivere non vuol dire essere uno scrittore. Il fatto è che, ci diceva il fotografo Sebastiàn Liste in una chiacchierata di qualche tempo fa, bisogna non solo vedere, ma intravedere e comporre le relazioni fra le parti. E non è possibile farlo se non si è sviluppato un feeling con l’oggetto della tua indagine visiva. Gli elementi di una narrazione per immagini vanno uniti organicamente. E non esiste un’app per tutto questo.

E tuttavia, nelle mani giuste, anche la fotocamera di uno smartphone può essere un validissimo strumento. Esistono diversi casi di reportage, anche pluripremiati, costruiti con il supporto di un telefono mobile. “Vita di un soldato semplice” di Damon Winter del New York Times, ad esempio, è stato realizzato con scatti fatti dal cellulare. In questo caso la non intrusività di una tecnologia universalmente diffusa ha permesso all’autore di riscattare alla sua narrazione dei momenti decisivi che non avrebbe potuto immortalare con altrettanta naturalezza con una telecamera DSLR dotata di una grande lente. Si racconta la guerra in Afghanistan, alla mano.

Potremmo aprire una discussione tecnica sulla ‘preferibilità’, soprattutto da parte dei giornalisti ambientali, degli strumenti classici (camera DSLR – appunto, microfoni esterni, registratori aggiuntivi, tripodi, monitor esterni) in luogo dei più moderni.

Quello che ci interessa registrare in questa sede è il cambio di atteggiamento che, in un modo o nell’altro, i nuovi visual media hanno suggerito a chi si occupa di fare informazione ambientale in un periodo in cui, come detto, il ‘saper fare’ ed il ‘poter fare’ del fotoreporter sono stati completamente rimessi in discussione dall’accessibilità della tecnologia e dalla messa in comune dei luoghi e delle loro rappresentazioni, infinitamente più numerose rispetto al passato.

Il giornalismo ambientale (che avrebbe bisogno di darsi nuove e più pertinenti definizioni) non deve temere la contaminazione degli strumenti, ma deve semmai disciplinarla, trovando nuove forme di discorsi in grado di raccontare le cose in maniera differente. L’ambiente non fa notizia, se non in taluni casi. Non c’è abitudine alle notizie ambientali. Allora bisogna costruire narrazioni, creare abitudine al racconto. Che non vuol dire alterare i fatti, ma semplicemente “comporre le relazioni fra le parti”. È questo il motivo per cui abbiamo citato Rachel Carson ed Eugene Smith.

L’ambiente come racconto interattivo e partecipato

Ciò detto, le nuove tecnologie possono costruire una strategia che è molto più di una masquerade informativa (molto più che far mangiare le verdure ai bambini…). Il racconto è un progetto a cui educare chi ascolta, ma prima di tutto chi parla.

Bear 71 è il progetto di un documentario interattivo realizzato da Jeremy Mendes, Leanne Allison e la Commissione Cinematografica Nazionale del Canada. L’obiettivo è rendere i visitatori del sito partecipi della vita delle specie di un parco nazionale, sensibilizzandoli sulla bellezza e precarietà del loro habitat e del loro equilibrio. Include video, fotogrammi di “telecamere-trappola”, mappe animate che ricostruiscono gli spostamenti di decine di animali e un software grafico che consente di seguire non invasivamente la vita di un grizzly nella riserva del Banff National Park.

Powering a Nation dell’Università della North Carolina  è uno dei più ambiziosi progetti di giornalismo ambientale online al mondo. Foto, video, infografiche, animazioni e software interattivi raccontano le risorse del pianeta e le contraddizioni dello sfruttamento energetico.

L’ultima ‘puntata’ della serie, 100 Gallons, presenta nella sua homepage un brillante concept video che apre ai visitatori la possibilità di cliccare su vari punti della timeline per navigare attraverso storie scritte, grafiche interattive, video di approfondimento e persino un quiz.

Kupuna è un ritratto interattivo di La’ie, una piccola cittadina sull’isola hawaiiana di O’ahu. Il progetto è fatto di documentari personali, storie raccontate a voce, esibizioni, escursioni sull’isola, animazioni attraverso i miti della cultura locale.

Ora, pensate che storie avrebbe raccontato Eugene Smith con questi mezzi a disposizione.


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