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Storytelling – Un giorno il destino ti ripagherà con la stessa moneta

Creato il 14 ottobre 2014 da Abattoir

di Pigi Arisco

Mi chiamo Victor.
Ho trentaquattro anni.
E finalmente sto per compiere il mio destino.
Non il destino per cui sono nato, intendiamoci, non penso che qualcuno nasca con uno scopo prefissato, penso piuttosto che durante la propria vita, ad un certo punto, in un certo luogo, si prenda una decisione su ciò che si deve assolutamente fare prima di morire.

Sembra che questo sia il mio momento, se riuscirò nel progetto a cui lavoro da tanti anni finalmente tutto avrà avuto un senso.
Un progetto lungo dodici anni.
Non so se può sembrare tanto, in ogni caso la vicenda ha inizio proprio allora, all’università, quando, come un qualsiasi imbecille ossessionato da carica ormonale, mi innamorai della ragazza più bella dell’università.
Manuela.
Capelli ricci, occhi scuri, carnagione olivastra ed un sorriso che era in grado di illuminare e rasserenare anche gli animi più tristi e bui.
Josè, il mio più caro amico d’infanzia, si prendeva gioco di me, mi diceva: «Ma come puoi pensare che quella ragazza possa avere interesse per te, non vedi com’è presa dalla politica, sempre lì a far assemblee, distribuire volantini, organizzare sit-in. Cosa vuoi che se ne faccia di un povero imbecille appassionato di videogiochi e fumetti!?».

Josè è sempre stato uno stronzo. Ma ha sempre avuto il pregio di non nasconderlo al mondo; se doveva dire una cosa che poteva ferirti lo faceva con tutta la schiettezza di cui era capace, ti apriva gli occhi sul mondo e lo faceva dandoti, metaforicamente, un pugno sul naso.
Ovviamente non gli davo retta, non si è mai sentito di un innamorato che dà retta ai consigli realistici del migliore amico, specie se quello gli consiglia di volare basso. Un innamorato che vola basso, figuriamoci.
E così, dopo un’assemblea strapiena di ragazzi dai capelli lunghi, ascelle sudate, sciarpe rosse e tanti “compagni lottiamo”, “resistiamo”, abbasso qui, abbasso là, si arrivò alla votazione sulla manifestazione dell’indomani. Io non avevo capito niente, non avevo seguito nulla, ma ero certo su cosa fare, alzare il braccio SOLO se lo avesse alzato Manuela. Lei lo fece e quindi anch’io; lei mi sorrise ed io per ringraziarla alzai anche il braccio di Josè, che tanto stava leggendo il fumetto di Osterheld, completamente disinteressato al resto del mondo.
L’indomani stavo in prima fila vicino a Manuela, convinto di concludere qualcosa. Lei non mi guardava neanche, ci rimasi male. Poi gli scontri, la carica della polizia e un fiume di gente che tornava indietro correndo. Solo io rimasi fermo, inebetito, io non c’entravo nulla, avrei potuto spiegare la mia estraneità, anzi, lo avrebbero capito loro stessi. «Non sono mica un rivoltoso io, che cacchio ne so di politica… Anche adesso perché correte in tanti verso di me? Io non ho fatto niente, non c’entro niente, no, no fermi, fermi…» sono state le mie ultime parole, poi il manganello, i calci, un dolore lancinante alla schiena, il buio.

Il posto dove mi svegliai era una specie di scuola. Ero per terra, nudo con una coperta di lana grezza vicino a me. Nella stanza un odore acre, c’era merda e piscio ovunque ma l’odore era qualcos’altro, veniva dalle bocche dei miei compagni di stanza, imparai successivamente a riconoscere l’odore della paura, del panico, quella puzza che viene dallo stomaco e viaggia lungo l’esofago per uscire da una gola troppo secca e troppo stretta.
Il terrore di morire.
Ognuno di noi respirò ed emise quell’odore per cinque lunghe settimane. Anche Manuela, sì, anche lei.
Arrivò nella stanza dove stavo il terzo giorno, ci raccontò di come erano andati a prenderla a casa dei signori in borghese a bordo di una Ford Falcon verde. Non dissero nulla, arrivarono, la presero e la portarono via.
Povera Manuela, era bella, tanto bella e questo non le fu di aiuto. Su di lei si concentrarono subito le attenzioni dei nostri aguzzini, quasi tutti a dire il vero, ma lì dentro c’era un capo, si faceva chiamare El Tigre, e Manuela fu sua, tutti giorni. I suoi interrogatori duravano più a lungo, e quando tornava più di una volta vidi quella specie di gelatina rosa, un misto di sangue e sperma, che le scendeva lungo le cosce fino alle ginocchia nere come il carbone. Poi quel gel finiva a terra in grosse gocce dense e Manuela restava a fissarle finché qualcuno inevitabilmente gli metteva un piede sopra e le portava via per sempre.

Anch’io subivo interrogatori, ma non avevo nulla da raccontare! Li imploravo, inventavo nomi, confermavo tutto quello che mi chiedevano, piangevo, urlavo, pregavo. Insomma, dopo cinque settimane di orrore si convinsero che non ero un rivoluzionario e che non sapevo un cazzo. Così mi rilasciarono.
Niente di ufficiale, mi misero in macchina con un cappuccio e mi scaraventarono fuori dopo circa dieci minuti.
Poi il recupero, andai a casa di una zia in campagna e rimasi lì per quasi un anno, i primi mesi avevo paura di uscire dalla stanza, poi lentamente tornai ad una parvenza di normalità.
Tornai in città, andai a vivere da solo, avevo enormi problemi a relazionarmi, persino Josè mi sembrava un estraneo, lui però non mollava mai. Per quanto lo cacciassi, tornava sempre. Mi trovò un lavoro all’ospedale, come infermiere. Mi disse: «Victor, quello che ti hanno fatto ti ha ridotto uno schifo, so che non posso neanche immaginare, ma l’ospedale offre i turni di notte, ideali per te che non riesci a dormire, ed è un posto pieno di psicofarmaci, riuscirai a trovare qualcosa che fa per te».
Il caro Josè, schietto e pragmatico.
Fortuna che non seguii la strada verso la tossicodipendenza che mi aveva consigliato, tuttavia mi fornì gli strumenti per definire lo scopo, la scelta di cui parlavo prima, quella che ti fa alzare dal letto tutti i giorni e ti dà una ragione migliore per morire.

Passai dieci anni a studiare medicina, a fornire supporto a malati terminali, passai gran parte del tempo nell’area rianimazione dove gli anestesisti mettevano in atto tutti i mezzi a loro disposizione per tenere in vita una persona, oggigiorno se hai i macchinari giusti puoi tenere in vita chiunque per tutto il tempo che vuoi.
Quando non ero in ospedale mi dedicavo a creare dei dossier sugli aguzzini che avevano esercitato nella scuola militare dove ero stato detenuto. Feci un lavoro talmente scrupoloso da sapere persino cosa mangiavano alcuni di loro. Di quali malattie soffrivano o avrebbero potuto soffrire.
Ero affascinato da tanto potere.
E lo sono ancora di più adesso che sono qui nel mio garage dove ho creato la mia personalissima sala rianimazione.
Ho io il potere su quest’uomo, El Tigre, che adesso a dittatura finita si fa chiamare nuovamente Jorge.
Jorge gode di tutte le attenzioni. Un macchinario tiene sotto controllo i parametri vitali, una batteria è pronta a dargli una scarica elettrica ogni volta che il cervello invia al corpo lo shock, quello che fa perdere i sensi quando il dolore è eccessivo.
El Tigre, grazie a questo stratagemma, non sviene mai per il dolore, è un vero duro!
In queste settimane che ho dedicato a lui ho commesso un solo errore, quando tagliandogli la lingua rischiai di soffocarlo con il sangue, fortuna che riuscii a girarlo sul fianco prima di perderlo per sempre.
Che stupido, pensavo che tagliando la lingua non avrebbe urlato, ma la lingua serve solo per parlare.
Le urla vengono da dentro partono dai polmoni, fanno vibrare le corde vocali, è lì che si emette il suono, per evitarlo basta fare un piccolo buco nella trachea, la tracheotomia si chiama, l’aria esce dal buchetto e fine, niente più suoni. Semplice.
Sulle amputazioni ho fatto più attenzione, ho studiato prima, lacci emostatici, polveri cauterizzanti e tanti antibiotici, infatti adesso i monconi delle caviglie sono stabili, nessun problema da lì. Ma il mio punto d’orgoglio è stata la vescica, quando attraverso il catetere gli ho iniettato l’acido ho rischiato, ma ero sicuro che sarei riuscito a controllare il tutto.
Mamma mia come saltava sul lettino!
Ho sentito il crack di entrambi i polsi che si rompevano sulle cinghie, fortuna che non gli avevo ancora amputato i piedi altrimenti i moncherini sarebbero sgusciati dalle cinghie ed avrebbe cominciato ad oscillare come una bandiera tesa dal vento… Ho temuto seriamente che morisse, però mantenni la calma. Aspettai la fine della crisi, poi con il giusto dosaggio di farmaci riuscii a tenerlo in vita. È ancora qui, El Tigre, è un duro lui!
Sarei proprio felice se riuscisse a durare quanto mi sono prefissato, cinque settimane, il periodo della mia prigionia. Sarebbe bello se fosse proprio lui a raggiungere il tempo stabilito, penso che in quel caso mi fermerei, avrei raggiunto lo scopo.
Se non ce la dovesse fare, beh, la lista degli aguzzini all’ESMA è ancora nel mio cassetto e Jorge è solo il terzo.


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