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Strage del Vajont cinquant’anni dopo: le responsabilità mai chiarite e i ricordi dei sopravvissuti

Creato il 09 ottobre 2013 da Ilnazionale @ilNazionale

vajont_19 OTTOBRE – A cinquant’anni dal disastro, il tempo sembra essersi fermato sui luoghi della tragedia del Vajont. Longarone, Erto e Casso, Codissago e Castellavazzo piangono ancora la strage che ha spazzato via la storia dei loro abitanti, ben 1.910 persone tra adulti e bambini.

Che il disastro fosse annunciato è facile dirlo. Lo mise nero su bianco una coraggiosa giornalista, Tina Merlin, che per questo subì anche un processo. Lo segnalarono per primi alcuni esperti del territorio, che non volevano rendersi complici di una sciagura apparsa fin dall’inizio inevitabile. Il 9 ottobre 1963, uno tzunami di acqua e fango si abbatté su quei centri abitati della provincia di Belluno. Erano le 22:39, un’ora nella quale la maggior parte della gente era già rintanata nelle proprie case e addormentata nei propri letti. Dal monte Toc (in dialetto locale “marcio”) una frana di dimensioni impressionanti si riversò nella diga sottostante. Si trattava di una costruzione enorme per l’epoca –ancora oggi, con i suoi 264 metri, è la quinta diga più grande del mondo- ed era costata sacrifici economici e umani fin dalla sua costruzione.

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Se gli antefatti della tragedia appaiono tutt’ora avvolti nel mistero, tanto che si è ipotizzato addirittura che la frana sia stata “pilotata” da alcuni sovrintendenti ai lavori, il resto è storia nota. Vennero recuperati circa 1500 corpi, per molti dei quali non fu possibile alcun riconoscimento. Le restanti 400 vittime non vennero mai neppure ritrovate, rimasero disperse nel mare di detriti che prese il posto delle case e delle strade. I soccorritori intervenuti sul luogo della sciagura, oggi anziani, descrivono ancora l’odore di morte e distruzione che si levava da ciò che restava di Longarone e dei paesi limitrofi, rendendo l’aria irrespirabile e le ricerche ancor più affannose. Un odore forte, percepibile anche durante l’estate dell’anno successivo.

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Ma i racconti più drammatici vengono proprio da chi, quella notte del 9 ottobre, ha perso irrimediabilmente familiari, amici, compagni di scuola e di lavoro. Vittore Zannol oggi ha 58 anni, ma è uno dei bambini sopravvissuti al disastro. “Abitavamo nella parte alta di Longarone, che per nostra fortuna non è stata distrutta” ricorda con evidente emozione “Noi ci siamo salvati tutti, mentre i nostri vicini di sotto sono morti tutti. La loro abitazione è stata completamente sventrata. Non dimenticherò mai le urla strazianti dei bambini che chiamavano disperatamente la mamma, sotto di me. Poi il silenzio”. La maestra Lina Beltrame, invece, all’epoca muoveva i primi passi nel mondo della scuola. Poco prima che il monte franasse, era intenta a preparare la lezione per i suoi giovani allievi della scuola elementare di Castellavazzo. Poi, all’improvviso, la luce della sua stanza si spense e percepì una forte scossa, come se si trattasse di un terremoto. Il tutto non durò più di qualche secondo, ma si capì subito che era successo qualcosa di grave. Suo padre uscì quindi di casa e si recò a Longarone. “Da una delle famiglie di villa Malcom, dove erano ospitati i dipendenti delle industrie tessili saliti dalla provincia di Treviso, proveniva una bambina che frequentava la seconda elementare. Si chiamava Maria Stella e l’acqua se l’è portata via” ricorda in lacrime l’anziana insegnate. Infine Virginia Olivier, di Codissago, ricorda come dalla finestra di casa abbia assistito alla scena drammatica della distruzione del paese, svegliata dal tuono della montagna riversatasi nel bacino. “Io, mia madre e mio fratello abbiamo visto, stando alla finestra, l’onda che portava via una casa. Mio padre era disperato, ma poi si è trovato a salvare un ragazzo che raccontava di aver dato l’ultimo bacio alla mamma prima di esserle strappato via dalle acque. Alle sei sono arrivati i soccorsi, e io cercavo ancora le mie bambole tra le macerie”.

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L’attuale sindaco di Longarone, Roberto Padrin, sottolinea come negli anni la città abbia cercato, con tutte le sue forze, di riprendersi dalla catastrofe, pur non avendo ancora visto giustizia per tutte le vittime del Vajont. “Il Vajont è un punto di riferimento doloroso, anche per la Longarone di oggi. I sopravvissuti hanno dimostrato grande coraggio nel ricostruirla dove era stata distrutta, laddove era morta. Però non potrà mai dimenticare la sua storia, perché la responsabilità umana in questa vicenda è chiarissima, l’uomo resta l’unico colpevole. In alcuni superstiti rimane il rancore, perché giustizia vera non è mai stata fatta”.

Silvia Dal Maso

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