Quella sera andò tutto come avevo progettato.
Ero stata prudente, avevo pazientato; la certezza che tutti i dettagli avrebbero seguito una catena costruita perfettamente, mi donava la piena sicurezza che nessuno mi avrebbe più ritrovata.
Nei mesi scorsi era avanzata in me la convinzione che quella fosse la scelta migliore, avrei dovuto farla fuori, eliminare quella ragazza dalla mia esistenza come con una passata di gomma bianca, per sentirmi finalmente libera di riscriverci sopra la mia nuova esistenza.
Ogni giorno lei o i miei genitori me ne davano motivi: le colpe erano le mie, le sue scelte erano sempre quelle più giuste da compiere, il suo modo di comportarsi era quello appropiato ad ogni evenienza, era quella più educata, quella di cui tutti per strada mi chiedevano informazioni. Le sue parole quelle adatte, io quella costantemente fuori luogo.
Era la figlia che i genitori desiderano e i fratelli detestano.
Ad ogni loro gesto o accusa stringevo un pugno dietro la schiena, conficcavo le unghie nel palmo tanto da farmi male; ricordavo quale immane piacere sarebbe stato sbarazzarmi della fonte primaria di quel dolore, e quanto sollievo avrei provato quando quell’abitudine sarebbe scomparsa.
Dopo qualche tempo finii per non soffrire quasi più, forse solo per bloccare le parole nascoste dietro le mie labbra: nella mia testa avevo accolto la sottile soddisfazione che quanto stavo preparando li avrebbe fatti soffrire, ma mai quanto loro avevano fatto soffrire me.
Grazie a quel gesto sarei finalmente stata libera. Libera di comportarmi e di essere.
Per il nostro compleanno ci regalarono un fine settimana in una Spa: saremmo state sole per tre giorni, immerse nel relax, in una località slovena appena fuori dall’Italia.
Quello che non sapevano è che nascondere i biglietti nel cassetto dei calzini non era stato furbo: li avevo trovati con un tempismo perfetto per organizzare il mio piano. Sorrisi come sempre quando ce li diedero, abbracciai mia sorella e le tenni la mano stretta, felice per la fine che si avvicinava.
In quei sei mesi mi procurai arsenico e acido da un ragazzo conosciuto su internet, prenotai un appuntamento dalla parrucchiera della Spa con un nome inventato, comprai vestiti nuovi e dei documenti falsi praticamente perfetti.
La seconda sera in quel paesino sperduto, il sabato, dopo la cena ipocalorica e troppi finti sorrisi tornammo in camera. Si preparò un bagno caldo, quello in cui io sciolsi con accuratezza l’acido che l’avrebbe ammutolita, soffocata e distrutta; poi accese tutte le candele attorno alla vasca, si versò del vino e fece la canonica telefonata ai nostri vecchi. Vuotai l’arsenico nel bicchiere e lo piazzai accanto ad una delle candele accese. Senza saperlo mi servì quell’atmosfera ovattata su un piatto d’argento, e io le fui grata.
Mentre chiacchierava nell’altra stanza io presi lo zaino pronto sotto il letto e sgattaiolai via. Appena fuori dal palazzo la aspettai, la osservai dalla finestra mentre moriva a bocca aperta, con il fumo dell'acido che riempiva la stanza e le candele che circondavano quell'attimo come fosse un altare. Io sorrisi e corsi via.
Era la fine della sua vita. Io ero pronta per l’inizio della mia.