Strategie militari nel conflitto siriano

Creato il 14 marzo 2016 da Eurasia @eurasiarivista
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Amedeo Maddaluno

“Per dissensi all’interno intendo quelli che mettono a nostro vantaggio la mancanza di accordo che può esserci tra gli alleati, tra i diversi corpi militari o tra gli ufficiali che servono nell’esercito nemico

“Chi affronta lo scontro con sole truppe leggere, perderà per mancanza di mezzi”

 Sun Tzu

In un mio studio apparso su un numero di “Eurasia” di alcuni mesi fa (3/2015, “La guerra civile islamica”) erano presenti alcune riflessioni sulla guerra in corso in Siria. Dopo parecchi mesi e le recenti novità sul campo è giunto il momento di mettere a fattor comune i recenti sviluppi sul campo rispetto allo scenario di quel periodo. Sul piano tattico devo ammettere di aver sopravvalutato i gihadisti. Riconoscevo che fondassero la propria forza sull’appoggio straniero e non su un forte consenso o sul controllo della popolazione siriana, ma pensavo che un minimo di radicamento in una parte delle tribù arabe sunnite delle zone agricole, l’uso di tattiche e tecniche di guerriglia e il determinato appoggio turco e saudita – con le armi americane e la benevolenza europea – avrebbero garantito la loro sopravvivenza, se non addirittura il loro vantaggio, in vaste aree geografiche del paese. Così, pare, non sarà – quanto meno non nei termini da me allora ipotizzati. Avevo invece ragione sul piano strategico, sostenendo che la fortuna dei gruppi terroristi e spesso la loro stessa esistenza dipendono sì dal consenso popolare (nel caso dei gihad in Siria non inesistente ma assai contenuto) ma ancor più dal determinante appoggio dei governi.

Le specificità del teatro siriano

La questione non è solo militare. E’ vero che la Siria ha un terreno militarmente più facile da gestire e penetrare di quello afgano, ma vale pur sempre la regola empirica secondo cui non si può battere una guerriglia solo dal cielo. E’ vero anche che i ribelli controllano zone spopolate e periferiche del paese, spesso desertiche; oltre a questo, per loro combatte anche una legione straniera di gihadisti estranei alla popolazione locale. In Afghanistan il nucleo del fronte antisovietico era dato da afghani che lottavano nel e per il proprio territorio: immaginate come possano muoversi in Siria un britannico o un kosovaro che non conoscono nemmeno l’arabo, o come possa raccogliere consenso un wahhabita del Golfo estraneo alla tradizione islamica della Siria. Chi voleva fare della Siria un nuovo Afghanistan ha preso un abbaglio sul piano antropologico prima ancora che militare. Il governo siriano ha dalla propria parte: 1) il controllo dell’aria (solo col quale però si ottiene poco), 2) un nucleo forte di Siriani che – pur appoggiati da molti stranieri – lottano per il proprio territorio e per la propria sopravvivenza. I civili siriani – indipendentemente dalla loro appartenenza confessionale – fuggono, perché non simpatizzano per la ribellione; al massimo, se membri di tribù sunnite dell’est, un po’ per paura e un po’ per ricatto subiscono Daesh – che comunque garantisce un certo ordine nei propri territori, mentre gli altri ribelli agiscono spesso da predoni. Ecco l’altro loro punto debole: quelli che l’Occidente vorrebbe blandire sono gruppi di mercenari disorganizzati e sbandati, non certo un unico esercito ordinato e coordinabile.

Intervento russo e intervento americano a confronto

Cosa distingue l’intervento russo da quello dell’America e dei suoi alleati?

  • I Russi si coordinano perfettamente con le forze alleate sul terreno. Russi, Siriani, Iraniani e gruppi collegati pianificano e combattono come un solo esercito, con convinzione e per i medesimi obiettivi (quanto meno di breve ed anche di medio termine).
  • La logistica: i Russi possono operare da basi aeree più vicine al teatro delle operazioni – il che è “derivata prima” della precedente condizione.
  • L’aeronautica appoggia in modo tattico le operazioni di terra (non in modo operativo: gli elicotteri ad esempio sono vulnerabili, come la lezione afghana ricorda!) con micidiali bombardamenti massicci e con molte bombe comuni (non guidate) le quali necessitano di minore raccolta informativa ed analisi dal terreno.

E gli americani? Partono per bombardare Daesh da basi più lontane – esclusa quella turca di Incirlik – e nel bombardamento si affidano troppo ad ordigni guidati che necessitano di informazioni sulla situazione sul terreno: quel terreno sul quale non hanno alleati affidabili. Gli americani operano nella triste situazione di avere come “cobelligeranti” Sauditi e Catarioti, che sono i principali sostenitori delle varie formazioni gihadiste e nell’ancor più triste situazione di non poter indebolire troppo queste ultime e lo stesso Daesh: se ne avvantaggerebbero troppo gli Iraniani e il governo siriano. Appoggiarsi troppo ai Curdi è parimenti impossibile, datosi il loro rapporto coi Turchi. Perciò non resta che fare una finta guerra al Califfato e ad Al Qaeda e confidare nei “ribelli siriani moderati”. La fede americana in queste formazioni ha un che di miracolistico e molto poco di militare. Ammesso e non concesso che ciò che resta dell’Esercito Siriano Libero sia (mai stato) “moderato”1, proviamo a porre alcune domande ai decisori statunitensi:

  • Per quale ragione questi insorti – che sono, non scordiamolo, etnicamente arabi e ideologicamente salafiti, dovrebbero ingaggiare per conto dell’Occidente una battaglia all’ultimo sangue contro altri arabi salafiti di Daesh o Al Nusra – specie quando hanno il medesimo nemico, il governo siriano?
  • Qual è il criterio in base al quale si stabilisce chi è “moderato” e chi non lo è? Gruppi gihadisti e salafiti quali Ahrar Al-Sham – alternativi tanto a Daesh quanto all’Esercito Siriano Libero – come vengono classificati?
  • Dal punto di vista tattico, sono consci gli strateghi americani del fatto che le forze ribelli che operano in Siria sono frazionate in una messe scoordinata di gruppi e gruppuscoli spesso mercenari, i quali mutano affiliazione in modo assai fluido, così da rendere ardua una classificazione o anche solo un’organizzazione?
  • Sul piano tattico e strategico è utile o è ozioso sapere quanti di questi ribelli sono effettivamente siriani – con conoscenza del territorio e del contesto sociale e culturale locale – e quanti invece siano siriani, giordani, tunisini o addirittura kosovari, bosniaci, belgi, britannici, ceceni o francesi?

Conclusioni: perché l’intervento russo è risultato efficace

Anche i detrattori della Russia riconoscono che l’intervento russo in Siria ha avuto il grande merito di riportare gli occhi delle diplomazie del mondo sul martoriato paese del Vicino Oriente. Questo lo avevamo correttamente ipotizzato: qualora fossero riusciti a indebolire a sufficienza i ribelli, i Russi avrebbero costretto questi e i loro tutori al tavolo delle trattative, eventualità che oggi (all’epoca della tregua di fine Febbraio 2016) sembra più vicina. L’intervento russo è stato più efficace perché orientato ad obiettivi chiari, semplici e definiti, condivisi senza ambiguità con validi alleati sul terreno: consolidare il governo siriano e indebolire duramente il fronte jihadista, senza favolistiche distinzioni tra gihadisti buoni e cattivi2. Triplice il risultato raggiunto. In primis si è evitato la caduta dell’intera Siria nelle mani dei gihadisti. In secundis il mondo è tornato ad occuparsi della Siria. Le grandi potenze patrone a vario titolo dell’insurrezione sono state spinte a negoziare seriamente e i ribelli, indeboliti sul campo, sono stati spinti ad accettare il negoziato. In terzo luogo – vittoria strategica non meno importante – si sono spinti i combattenti ad una tregua che ha ridato fiato alla stremata popolazione siriana e che sta scavando un solco tra le fazioni ribelli disposte a trattare – ed anche a partecipare ad un’eventuale futura “bosnizzazione” della Siria3 in aree etnicamente e religiosamente omogenee – e quelle più oltranziste, sempre più isolate. Si badi bene: “disposti o meno a trattare” e non “moderati e fondamentalisti” è la distinzione che occorre fare tra i ribelli.

Postilla: la parziale verità del settarismo

Vi è infine l’esigenza di uscire dalla trappola della narrazione settaria in ci hanno incatenato coloro che desiderano la disintegrazione del mondo arabo. “Sunniti contro sciiti”, sarebbe questo il problema? Abbiamo visto che le rivolte arabe sono esplose in paesi etnicamente omogenei come l’Egitto, o omogenei sia etnicamente sia religiosamente come la Tunisia. In Libia, al netto della presenza dei tuareg, sono stati i contrasti fra tribù arabe e sunnite dell’est e dell’ovest a dare la stura alla guerra civile, non certo l’ideale di rivolta democratica contro un dittatore sostenuto solo da parte dei ceti urbani. Quanto alla Siria, i Curdi sono sunniti e combattono a fianco dell’alawita Assad, come tanti arabi anch’essi sunniti, mentre tra gli oppositori intellettuali del governo siriano figuravano anche degli alawiti e dei cristiani. La spiegazione settaria – un passe-partout valido per i sedicenti “esperti” occidentali e che fa comodo alle grandi potenze desiderose di spartirsi il Vicino Oriente secondo linee settarie – non può essere accolta in toto. Molto più complesso è analizzare la tematica sociale dello scontro siriano (giovani ed intellettuali urbani spesso disoccupati mossi da idealismo, campagne contro città, zone povere del sud e dell’est contro il centro, il nord e l’ovest del paese) nonché le dinamiche tribali, scientificamente studiate ed analizzate (tribù arabo-sunnite dell’est e del sud distanti/escluse dal potere – solo una parte quindi della componente arabo-sunnita – opposta ai ceti urbani ed altre compagini tribali)4 e 5. Sui circa 18 milioni di Siriani, i Curdi costituiscono il 4% della popolazione e il totale dei sunniti – arabi e curdi – ammonta a poco più del 60% della stessa; ne consegue che gli arabi sunniti arrivano a più del 56% del totale. La resilienza del governo siriano in questi anni di guerra non si spiegherebbe senza l’appoggio di una parte anche di questa componente maggioritaria, o anche senza il mancato appoggio della stessa ai gihadisti; se iscriveremo d’ufficio tutti gli arabi sunniti al gihadismo, avremo fatto esattamente il gioco dei danti causa del gihadismo stesso, si trovino essi ad Ankara o a Riyadh.

1] Sulla “moderazione” dei ribelli siriani http://www.difesaonline.it/geopolitica/reportage/diario-siriano-cap6-il-barbiere-di-damasco e http://www.tempi.it/siria-abbiamo-visto-scorrere-un-mare-di-sangue-giu-dal-marciapiede-il-massacro-di-adra-parla-un-sopravvissuto#.VtDckvnhDIU

2] Sull’efficacia del intervento occidentale contro il sedicente califfato, dati aggiornati a febbraio 2016 sono forniti qui (nel contesto di un’impietosa ma rigorosa analisi dello stato di efficacia ed efficienza delle aeronautiche occidentali) http://www.ilcaffegeopolitico.org/38649/efficienza-velivoli-i-casi-francia-germania-e-regno-unito

3] http://www.askanews.it/esteri/siria-come-la-bosnia-l-intervento-russo-e-lo-scenario-partizione_711635403.htm

4] Sul ruolo delle tribù nelle dinamiche siriane si veda il lavoro – imprescindibile per rigore, chiarezza e semplicità – dello studioso siriano Dukhan https://research-repository.st-andrews.ac.uk/bitstream/10023/7217/1/Dukhan_2014_SS_Tribalism.pdf

5] Quanto alle cause economiche e sociali – e non settarie – del conflitto, ecco uno spunto proveniente da un noto organo di stampa “mainstream” che pone il tema della crisi agricola del paese: http://www.repubblica.it/solidarieta/emergenza/2015/03/25/news/siria-110422194/

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