19 maggio 2013 Lascia un commento
"String Quartet II" come molti sapranno, si ricorda per la sua incredibile durata, sei ore di musica che chiariscono fin da subito quel che fu l’intento di Feldman, la ricerca di un punto sensoriale estremo. All’interno dei diversi periodi che hanno caratterizzato il suo lavoro e in special modo nel decennio ’70 e ’80, Feldman mori’ nel 1987, il quartetto rientra concettualmente nel periodo dentro il quale la forma divenne rigida ed inverosimilmente definita, spostando quindi su altri valori la sperimentazione.
E’ cosi’ che il tempo, il suo utilizzo quindi la durata dell’esecuzione, diviene il parametro di trasformazione del suono. Non e’ difficile immaginare che tempi cosi’ dilatati conducano ad un nuovo livello di percezione, l’esperienza si trasforma da sensoriale a psicologica.
Questo tipo di sperimentazione trova nel minimalismo, quindi nella decennale esperienza di Feldman che ricordiamo ne fu uno dei padri, i mattoni sintattici per costruire il concerto.
Il filo sul quale correre e’ sottile se si vuole evitare l’affetto ipnotico e diciamolo ormai scontato e gia’ sentito, della ripetizione pedissequa. D’altro canto una ricerca esasperata dello sviluppo avrebbe reso da un lato il pezzo impossibile da eseguirsi, dall’altro non avrebbe potuto trascinare l’ascoltatore all’interno di uno spazio sonoro compatto e definito, smarrendo di conseguenza il necessario effetto psicoacustico.
Ebbene Feldman costruisce un equilibrio straordinario tra ripetizione e variazione attraverso un numeroelevato tra pattern (101), accordi (80) e motivi (58) ma applicando ad essi un’enorme quantita’ di trasformazioni, siano esse di carattere ritmico, tonale, tecnico esecutivo o retrogrado tali per cui le combinazioni illuminano il quartetto di una luce sempre diversa ma nel contempo consciamente ed inconsciamente riconoscibile e dopo poco familiare malgrado non cessi di mutare e sorprendere.
Non mi dilungo troppo, la letteratura in merito non e’ tanta ma certo piu’ precisa, anzi mi si perdoni le semplificazioni ma e’ importante far comprendere quale debba essere la chiave di lettura per un’opera siffatta. Ci sarebbe da raccontare molto anche sulle vicissitudini orchestrali a partire dall’esperienza abbandonata dopo qualche esecuzione dai Kronos Quartet per sopravvenuti problemi fisici, alla registrazione di riferimento di 6 ore e 6 minuti del Flux Quartet. E’ il Quartetto d’archi di Torino a raccogliere la sfida all’interno della splendida e suggestiva cornice del Santuario del Corpus Domini di Santa Caterina a Bologna e c’e’ un senso epico e profondo nel sublimare la fatica e il dolore che inevitabilmente una durata tanto dilatata porta con se’, con l’ipnotico e avvolgente flusso della musica che e’ bene ricordare, e’ tutt’altro che facile da eseguire con le continue variazioni di tempo, da 1/8 a 11/4 che non permettono distrazioni, ancora un’altra straordinaria intuizione di Feldman per mantenere alto il pathos e coinvolgere l’esecutore in un campo totalizzante come avviene per chi ascolta.
Al violoncello spetta il compito di dirigere, meglio dire guidare, supervisionare l’esecuzione che malgrado l’immane sforzo prosegue senza intoppi, nell’assenza di sbavature ed errori o nulla che sposti la magia del risultato finale. Tutti musicsiti straordinari che vorrei citare uno per uno: Vittorio Marchese violino I, Umberto Fantini violino II, Andrea Repetto viola, Manuel Zigante violoncello, dopo 5 ore e 46 minuti visibilmente provati ma ritengo intimamente felici, placati, proprio come il pubblico. Non soprendera’ sapere che eravamo qualche decina e non oltre, in cio’ che non definirei rito in quanto esercizio interiore ma ugualmente uniti nel rispetto dei musicisti e dell’intimo percorso emotivo altrui. Sarebbe anche interessante cercare di interpretare o capire l’approccio degli spettatori, talvolta informale o curioso ma ripeto, non e’ un’esperienza collettiva.
Per cio’ che mi riguarda, riflettendo ora a quanto ho assistito e per quanto mi sforzi, non riesco a misurare il tempo trascorso e consapevolmente mi rendo conto di aver vissuto in un luogo realmente immobile nel quale l’assenza di pensiero non si trasforma in inconsapevolezza ma all’opposto c’e’ piena percezione dell’istante in cui si vive laddove tutto si concentra in unpunto espanso e luminosissimo, il se’ che si libera da ogni vincolo e ritrova uno spazio nel quale guardarsi attorno, in un ritorno ai tempi di pura sensazione esente da necessita’ altre che non siano esistere.
Credo che alla fine il coraggio nel cimentarsi in una simile prova consista nel decidere ad affrontarla perche’ una volta dentro resta soltanto da lasciarsi trasportare del flusso di coscienza joicianamente definito.