Stryx Il Marchio della Strega

Creato il 24 marzo 2012 da Connie

STRYX IL MARCHIO DELLA STREGA
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nel sito della casa editrice  Edizioni della Sera
nel sito La Feltrinelli (sconto del 15%)
RECENSIONI DEL LIBRO:
aNobii
INFORMAZIONI SUL ROMANZO:
La trama di Stryx
Il commento dell'autrice
La copertina del libro
Capitolo 1Ritorno a Salem
Le prime luci dell’alba rischiararono ogni abitazione di Lafayette Street e sembrarono riflettersi con intensità sulla grande casa vittoriana dalle mura color crema, velandola di arancio. Il cielo era poco nuvoloso e un leggero vento soffiava per la strada, facendo ondeggiare le tende di pizzo della finestra aperta.
L’aria dell’estate impregnava ancora il piccolo prato che circondava la casa e l’erba tremolava simile a un mare tempestato di rugiada.
Sarah rimase a fissare il cielo che si illuminava d’oro, stretta nella sua vestaglia bianca decorata con rose rosse ricamate. Non riusciva a credere di trovarsi di nuovo in quella città, dopo quanto era accaduto, più di trecento anni prima.
Salem
Aveva girovagato per il mondo cercando di dimenticare e infine era ritornata nel New England, come una falena attirata da una fiamma letale.
Chiuse gli occhi color verde smeraldo. Le parve di risentire ancora le urla, l’odore nauseante di carne bruciata, le incitazioni dei puritani. E soprattutto quegli insulti talmente volgari da farla vergognare di se stessa, malgrado fosse consapevole di non aver mai fatto nulla di cui era accusata.
Al di sopra di tutto questo, il suo Arthur.
Il viso di quel ragazzo era ancora nitido davanti a lei, mentre la fissava con amore e adorazione. Il suo dolce sorriso, i suoi occhi grigi.
Non avrebbe mai potuto scordare quel volto.
La testa le girò e decise di fare una lunga doccia calda per riprendersi, seguita da una sana colazione. Era il modo giusto per iniziare quella giornata che già si annunciava piuttosto dura.
Si spogliò, e quando rimase completamente nuda davanti allo specchio dalla cornice barocca, si girò di profilo per osservare il tatuaggio dietro la sua spalla sinistra.
Una grande S dalle estremità attorcigliate: una lettera gotica.
Entrare per la prima volta in una scuola nuova, mentre tutti la scrutavano nei corridoi mormorando parole che non riusciva a sentire, era una delle esperienze che dopo decenni ancora la innervosiva.
Sarah sospirò e ripensò con malinconia alle verdi brughiere dell’Inghilterra, anche se vi mancava da solo una settimana.
Entrò nella doccia e cercò di rilassarsi sotto l’acqua bollente. Chiuse gli occhi e si chiese come sarebbe stata la sua nuova vita a Salem.
Nonostante i secoli che portava oramai sulle spalle, aveva un’immensa voglia di fare cose terribilmente normali come mangiare una pizza, andare al cinema e uscire con le amiche a fare shopping il sabato pomeriggio, perdendosi dentro la folla dei grandi magazzini.
Fino a quel momento però, non era mai riuscita a vivere come una normale diciassettenne, in nessuna delle proprie vite precedenti. Nelle sue varie incarnazioni, ogni volta che aveva avuto degli amici, era sempre successo qualcosa che alla fine li aveva fatti scappare.
Omicidi, ferite mortali e lotte all’ultimo sangue nel cuore della notte. Qualunque ragazzo sarebbe fuggito dopo aver assistito a cose del genere.
Sarah promise a se stessa che questa volta sarebbe stato diverso. Fisicamente dimostrava ancora diciassette anni, e avrebbe vissuto come una normale ragazza della sua età.
O almeno, ci avrebbe provato.
Indossò un paio di pantaloni verde militare con le tasche laterali e una semplice maglietta bianca a mezze maniche. Erano gli abiti più anonimi che avesse; non voleva attirare troppo l’attenzione, desiderava solo confondersi tra le persone.
Un gatto nero le si strusciò fra i piedi miagolando.
«Circe» disse alla gatta, «non ho tempo di giocare. Stanotte andremo a spasso, te lo prometto.»
Il felino saltò sul letto vittoriano dal baldacchino rosa e si raggomitolò, chiudendo gli occhi verde chiaro con le pupille sottili.
Sarah aprì il cofanetto sopra la scrivania in stile retrò e frugò tra i suoi gioielli. Alcuni li aveva indossati in determinati periodi storici, come quel braccialetto d’argento trovato dentro la Reggia di Versailles, subito dopo la presa della Bastiglia.
Dopo un attimo di esitazione, prese dal cofanetto l’unico gioiello che la rappresentava. Una collana con un grande rubino ovale, che aveva lo stesso colore dei suoi capelli: rossi con striature più chiare e divisi in morbide onde che le ricadevano dietro le spalle.
D’un tratto, sussultò.
Dalla finestra una nuova folata di vento la avvolse, impregnata di un odore che lei purtroppo conosceva molto bene.
L’aveva sentito moltissime altre volte, negli ultimi tre secoli.
Pregò con tutta l’anima che non fosse chi temeva.
Tremò e corse alla finestra ma questa volta, invece di fissare il cielo, esaminò il prato sotto la casa con una strana inquietudine.
E lì, proprio nel suo giardino, lo vide.
Indossava un lungo cappotto, nero naturalmente; sotto si intravedevano una giacca gessata e una cravatta annodata in modo perfetto. Era molto elegante, come al solito del resto. E sensuale, così com’era sempre stato.
L’uomo le sorrise lascivo, poi si voltò. Col passo sinuoso di un felino affamato imboccò Lafayette Street, in direzione del centro della città.
Sarah toccò il ciondolo della collana e si pentì amaramente di essere ritornata a Salem. Aveva commesso un altro errore, nonostante le buone intenzioni.
Non è ancora finita. Il passato continuerà a perseguitarmi, perché è questo il destino a cui sono condannata.
Lui l’aveva seguita e stava preparando qualcosa.
Quello era l’odore della morte.
La scuola era iniziata da pochi giorni e il parcheggio del liceo di Salem brulicava di automobili e di studenti. Altri ne arrivavano da Willson Street, salutando gli amici davanti all’entrata. Si conoscevano tutti, o quasi. Passando davanti a una comitiva di cinque ragazzi, Sarah abbassò lo sguardo sotto il peso della loro curiosità.
I corridoi erano invasi da un vociare confuso, un chiasso continuo che la faceva sentire ancora più estranea all’ambiente. Volti sconosciuti la scrutavano senza discrezione.
Per prima cosa si recò in segreteria e ritirò il foglio con le lezioni della settimana. Era mercoledì e quel giorno alla prima ora aveva letteratura inglese, seguita da storia.
Sbuffò e pensò fosse un pessimo modo di iniziare la giornata; la storia era la materia che più odiava, anche perché quando hai la fortuna di assistere di persona alla Guerra d’Indipendenza, difficilmente ti va di studiarla anche sui libri.
Sarah entrò in classe e tutti gli studenti si voltarono a guardarla.
Sedette al primo banco e fece finta di consultare l’orario delle lezioni per non incrociare altri sguardi. Rimase con le braccia incollate sul libro aperto, imbarazzata e con lo sguardo basso, mentre alcuni già parlottavano dietro di lei.
Stava per giungere il momento che più temeva e odiava, quello in cui sarebbe volentieri sprofondata sotto terra: un professore l’avrebbe presentata alla classe.
In quel momento il professor Pearson entrò dalla porta, con indosso una giacca di tweed e i pantaloni sformati. Doveva avere all’incirca una quarantina d’anni: il classico professore che cerca di apparire spigliato quando in realtà non lo è affatto. Quella classe doveva dargli parecchi problemi, dato che nonostante il suo ingresso continuavano a fare chiasso e a muoversi tra i banchi.
L’insegnante si sedette alla cattedra poggiando la valigetta a terra, e prima di fare l’appello disse «Ragazzi, quest’anno avete una nuova compagna.»
Sarah deglutì nervosa e si tenne pronta.
«Lei è Sarah Sawyer, viene da Londra e si diplomerà nel nostro liceo.» Lui la indicò con la mano.
Sarah fremette e arrossì. «Salve.»
In un angolo tre ragazze bisbigliarono e una di loro, la più carina, disse qualcosa che le fece ridacchiare ancora più forte.
Sarah si voltò a fissarla. Come avrebbe saputo durante l’appello, si chiamava Ivy O’Neil, e sembrava il capo di quel trio di pettegole. Aveva lunghi capelli biondo platino, occhi celesti, un fisico da copertina e vestiti alla moda.
Era appena arrivata e già la reginetta della scuola dai capelli ossigenati aveva deciso di farle la festa. La solita fortuna.
Le altre due ragazze, si chiamavano Belinda Chase e Jodie Prince e sfoggiavano ovviamente lo stesso stile di Ivy: capelli impeccabili e abiti attillati.
Decise di non prestare loro attenzione, lasciandole spettegolare. L’ultima cosa di cui aveva bisogno il primo giorno di scuola era una sfida di popolarità contro le cheerleader.
Mentre il professore iniziava la lezione, si mise a osservare con curiosità il resto della classe. C’erano in particolare due ragazzi che la fissavano più degli altri.
Il primo era di pelle abbronzata, con morbidi capelli neri e ricciuti; aveva un’aria sveglia e allo stesso tempo riservata, e da quando era entrata, non le aveva ancora tolto gli occhi di dosso. A Sarah diede subito i brividi, ed evitò accuratamente di incrociarne lo sguardo.
Il secondo era un ragazzo alto e aitante, con i capelli biondi, il fisico muscoloso e le labbra piene. Doveva essere il capitano della squadra di basket, era scontato. Sarah lo fissò con aria seccata per farlo smettere, ma quello continuò a esaminarla come se la stesse spogliando con gli occhi. Alla fine le sorrise e le fece un cenno di saluto con la mano.
Sarah ricambiò il saluto imbarazzata e si concentrò sulla lezione.
Il professor Pearson stava commentando I Viaggi di Gulliver, di Jonathan Swift. «Perché Swift rappresenta la guerra tra i due popoli mediante la rottura di un guscio d’uovo?» chiese alla classe e attese con forse troppo ottimismo i commenti. Nessuno rispose, alcuni erano impegnati a chiacchierare, altri invece scarabocchiavano sui fogli, una ragazza addirittura ascoltava di nascosto la musica dal suo iPod. «Allora, ragazzi? Anche un commento generico…»
Sulle prime Sarah decise di rimanere in silenzio: era chiaro che alcuni già la criticavano solo perché era inglese, se fosse diventata la prima della classe sarebbe stata odiata proprio da tutti.
Tuttavia, notando che nessuno aveva la minima intenzione di commentare, e impietosita dalla frustrazione che mostrava il professor Pearson, si grattò il braccio nervosamente e spiegò con timidezza: «Vuol dire che il più delle volte l’uomo inizia una guerra per futili motivi, cercando una scusa, un pretesto insignificante, solo per imporsi sull’altro e sottometterlo. Un re vuole rompere il guscio d’uovo dalla parte superiore, l’altro dalla parte inferiore. La soluzione sarebbe semplice, quanto scontata: rompere l’uovo nel mezzo. Ma così non avrebbero più nessuna scusa per continuare ancora la loro stupida guerra.»
Tutta la classe smise di chiacchierare e si concentrò su di lei.
«Benissimo, signorina Sawyer» rispose il professore soddisfatto. «Ma perché Swift sceglie in particolare il guscio di un uovo?»
Sarah esitò, e le parole le scivolarono spontaneamente fuori dalla bocca: «Perché il signor Swift era ossessionato dalle uova. Le voleva cucinate in tutti i modi possibili. Alla coque, strapazzate, in camicia. Se gli si cucinava qualcos’altro, lanciava il piatto dalla finestra. Era piuttosto indisponente.»
Il professor Pearson e gli altri studenti rimasero in silenzio, poi alcuni si misero a ridere forte; di lei, tuttavia, e non certo con lei.
Splendido, neanche il tempo di arrivare e sono già diventata lo zimbello della classe.
«È molto spiritosa, signorina Sawyer» sorrise infine l’insegnante, «ma non credo che questa sia la risposta esatta.»
Sarah capì che era meglio non dire più nulla. Non poteva di certo raccontare che una sera del 1713, quando si trovava a Dublino, era stata invitata a una cena e l’illustre scrittore Jonathan Swift aveva colpito in testa una cameriera con un piatto perché non gli aveva preparato le uova nel modo richiesto.
La prima ora di lezione passò in fretta e lei, visto lo scoppio d’ilarità che aveva provocato nella classe, decise di non intervenire più con i suoi aneddoti, tanto reali quanto improbabili per chiunque non avesse vissuto almeno tre secoli.
Finalmente giunse l’ora del pranzo e Sarah si vide già seduta da sola in sala mensa, mentre tutti continuavano a fissarla.
Sapeva per esperienza che la curiosità nei suoi confronti sarebbe durata almeno una settimana, il tempo fisiologicamente necessario per lasciarli abituare alla sua presenza. I giorni più duri da superare al liceo, erano proprio i primi.
Uscì dalla classe e si avviò per il corridoio. Sostò agli armadietti e ripose i libri.
Andare ancora al liceo era frustrante ma era l’unica possibilità che aveva per sentirsi una ragazza normale e cercare di dimenticare quello che era accaduto.
La sala mensa era piena di studenti, Sarah seguì la fila con il vassoio in mano e prese del purè di patate, due tramezzini al prosciutto e una bottiglietta d’acqua minerale, continuando a tenere sott’occhio un tavolo attaccato al muro, ancora libero.
Doveva essere il tavolo degli sfigati perché tutti gli studenti lo evitavano come la peste, uno dei più isolati dalla confusione. Era perfetto, preferiva rimanere da sola i primi tempi.
Si sedette, ma non riuscì lo stesso a mangiare. Con la coda dell’occhio, intravide il ragazzo biondo della sua classe che veniva verso di lei.
Sarah tolse la plastica dai tramezzini e borbottò piano «Eccolo che viene a provarci…»
«Ciao!» Lui si sedette al tavolo, sulla sedia di fronte. Era spavaldo e sorridente, molto sicuro di sé. «Così vieni da Londra. Io sono Luke, siamo compagni di classe. Il banco dietro al tuo, nell’ora di letteratura inglese.»
«Sì, ti ho visto» rispose Sarah cercando di sembrare gentile, nonostante quell’aria da divo del cinema la infastidisse. Queste parole furono fonte di orgoglio per il ragazzo, credendo che avesse già fatto colpo e lei lo notò all’istante.
«Mi chiamo Luke Sullivan.» Si sporse, poggiando i gomiti.
«Ah, come uno degli amanti di Greta Garbo.» Sarah sorrise, aspettandosi una risposta spiritosa.
«Di chi?» chiese il ragazzo, preso alla sprovvista.
Lei sospirò delusa e riprese ad addentare il suo tramezzino. «Non preoccuparti, stavo scherzando.»
Era un bel ragazzo ma le sembrava piuttosto volubile e superficiale all’apparenza: sicuramente quando passava per i corridoi faceva sospirare quelle del primo anno e nel tempo libero tormentava i secchioni della classe.
«Dove vivi?» le domandò scoprendo i denti bianchissimi.
«I miei genitori hanno comprato la vecchia casa degli Stevens, alla fine di Lafayette Street. Loro sono rimasti a Londra, per lavoro.» Sarah ritenne opportuno cominciare a raccontare balle sul suo passato, per evitare che il giorno dopo qualcuno indagasse sul suo conto.
«Vivi in quella casa stregata?» Luke si finse parecchio impressionato, sforzandosi così di apparire simpatico.
Lei rise e bevve un sorso d’acqua. «Lo so che sembra la residenza estiva del dottor Jekyll vista da fuori, ma ti assicuro che non è niente male, solo di notte gira qualche fantasma qua e là…»
Luke ridacchiò, e si sporse ancora più in avanti. Aveva delle belle labbra e le sorrise con l’aria più innocente del mondo. «Perché stasera non usciamo insieme? Potremmo andare al cinema.»
«E poi a casa tua» completò Sarah, annuendo con malizia. Osservando l’aria chiaramente elettrizzata del ragazzo, comprese di aver fatto centro.
Luke rimase di stucco, infine commentò soddisfatto «Be’, mi avevano detto che le ragazze europee sono piuttosto intraprendenti… Certo, se vuoi possiamo andare direttamente da me e lasciare perdere il film.»
Sarah scosse il capo e trattenne un sorriso triste. Poi si alzò, e lasciò il vassoio sul tavolo con i resti del pranzo. «Senti Luke, ti faccio risparmiare tempo e denaro. Non mi interessa uscire con i ragazzi. E riguardo al tuo programmino serale, ti assicuro che non verrò a letto con te per farti aggiungere un’altra crocetta sul tuo calendario, neppure se mi paghi dieci cene e mi compri un diamante da cento carati.»
Lui storse la bocca e la fissò sbigottito. Il suo sorriso e il suo ottimismo si spensero all’istante. «Cosa? Che vorresti dire? Io non intendevo mica…» Non si aspettava una risposta del genere, anche un semplice no sarebbe bastato. Evidentemente quella nuova ragazza non era timida e impacciata come sembrava a prima vista.
«E se vuoi un consiglio, smetti di pomparti quei muscoli, sembri Buzz Lightyear» concluse lei. «Ci vediamo a lezione, ciao.»
Si avviò verso l’uscita della mensa e lasciò Luke seduto al suo tavolo, mentre stringeva i pugni dall’irritazione.
Ivy, che aveva osservato la scena, la fissò con uno strano sorriso e sembrò annuire tra sé malignamente, rosicchiando la sua barretta di cereali a zero calorie, seduta tra un gruppo di ragazze.
Sarah attraversò il corridoio vuoto, più amareggiata che mai. In quel modo non avrebbe mai avuto degli amici.
Aveva parlato a raffica come un’esaltata e sicuramente, dopo le parole che aveva detto a Luke, da quel giorno in poi tutti a scuola l’avrebbero considerata una lesbica isterica.
Ma era sempre stato più forte di lei. Ogni volta che un ragazzo le si avvicinava, sentiva ancora quella fitta allo stomaco e ripensava subito ad Arthur, e a quello che gli era successo.
Non permetterò che capiti ancora. Non lascerò più che qualche innocente paghi per me, e per quello che sono.
Se Luke avesse saputo cos’era accaduto all’ultimo ragazzo con cui era stata, secoli prima, difficilmente le avrebbe fatto una proposta simile.
Lei non voleva nessuna storia che implicasse un legame sentimentale, voleva solo avere accanto qualcuno che la accettasse, senza fare domande.
In un impeto di rabbia, Sarah colpì uno degli armadietti con un forte pugno, stringendo i denti. L’armadietto ondeggiò e il rumore si propagò nel corridoio deserto, come il rullo di un tamburo.
Gli occhi le si inumidirono di lacrime, e non poté fare a meno di pensare che nonostante la maledizione che si portava addosso da più di trecento anni, era quella la condanna più dolorosa.
Non sarebbe più stata capace di amare.

Capitolo 2Preludio di una tempesta
Quando finì anche l’ultima lezione, Sarah si preparò per tornare a casa. Chiuse l’armadietto dopo aver riposto i libri, abbottonò il giubbotto sopra la maglietta e infilò lo zaino al braccio destro.
In fin dei conti la giornata era trascorsa in modo piacevole, anche se era chiaro che Ivy O’Neil non era felice di avere nella sua classe una nuova ragazza, perlopiù inglese, ad alterare l’equilibrio che imponeva il controllo delle cheerleader su l’intera scuola.
E pensare che si era vestita nel modo meno appariscente possibile proprio per passare inosservata.
Sarah sapeva che le ragazze potevano essere molto più possessive dei ragazzi: lo aveva visto da come Ivy l’aveva spiata tutto il giorno, ciarlando sottovoce con le sue amiche. Ma poiché era tornata a Salem per cercare di condurre una vita normale, doveva accettare anche situazioni come quella; in fondo in ogni liceo le sarebbe potuta accadere una circostanza del genere.
Malgrado si sforzasse di sembrare una normale ragazza di diciassette anni, sapeva che quella notte avrebbe passeggiato da sola in giro per la città, con l’unica compagnia della propria gatta nera, contemplando sia le luci delle case di Salem che la spiaggia buia e deserta.
Era una delle cose a cui non avrebbe mai potuto rinunciare. Amava la notte più del giorno, già da prima di abbandonare le vestigia di semplice essere umano. Aveva conosciuto molte ragazze che evitavano di essere viste mentre camminavano di notte sotto la luna piena.
Nessuna teneva più in casa un gatto nero, da secoli. Adesso preferivano un serpente o un’iguana, animali secondo lei disgustosi.
Sarah era sempre stata un’amante dei classici e adorava la
sua Circe, poiché erano rimaste assieme fin da quando tutto era iniziato.
Aspettò nel corridoio, finché tutti gli studenti non uscirono dal parcheggio con auto, scooter e biciclette, evitando così che qualcun altro la fermasse per chiederle informazioni su chi era e da dove veniva.
Il sole stava tramontando e l’area di sosta rifletteva una luce viola. L’asfalto sembrava un lago bluastro e circolare, chiuso dagli edifici che sorgevano dalla parte opposta.
Sostò davanti alla porta d’ingresso, poi decise che era tempo di andare. Il sole era sparito e la scuola appariva deserta: dall’interno udiva i rumori dei bidelli che chiudevano a chiave le porte e gli armadi, i tipici suoni di un liceo quando nessuno è nelle aule.
L’ambiente era diventato piuttosto spettrale e silenzioso.
Sarah iniziò a camminare, attraversando lo spiazzale vuoto e osservando le strisce che indicavano il parcheggio riservato agli studenti.
Il crepuscolo lasciò posto al buio e i lampioni di Willson Street si accesero, dopo aver lampeggiato.
Udì dei passi alle sue spalle. Qualcuno la stava pedinando.
Sarah accelerò l’andatura e si ritrovò nella strada deserta.
D’un tratto si fermò e guardò dietro di sé. Non c’era nessuno.
Se è uno stupido scherzo per farmi spaventare, non è divertente.
Ricominciò a camminare velocemente, senza però mettersi a correre: sapeva che nel momento in cui l’avrebbe fatto, chiunque la seguiva l’avrebbe aggredita.
Imboccò una via secondaria. Troppo tardi si accorse che era scarsamente illuminata e che non c’era nessuna persona in giro. Cercò di ritornare sul viale principale, incalzando il passo.
Appena raggiunse l’altra parte della strada, una mano la tirò indietro e la sbatté contro un muro, facendole urtare con violenza la schiena.
Sarah sgranò gli occhi e lì, sotto la scarsa luce dei lampioni, vide chi era stato.
«Vuoi che ti accompagni a casa?» le chiese Luke Sullivan.
Non era solo. Con lui c’erano altri due ragazzi alti e robusti che lei non aveva visto in nessuna delle lezioni alle quali aveva assistito quel giorno.
«No, grazie» rispose la ragazza e cercò di andare via.
«Non ho ancora finito.» Lui la trattenne, spingendola con una mano verso il muro.
Gli altri due ragazzi sghignazzarono e lei capì all’istante che adesso si trovava in un gran brutto pasticcio. Come aveva immaginato quella mattina a scuola, Luke era uno dei tanti bulli che si divertivano a tormentare le ragazze, soprattutto quelle che avevano osato rifiutarli.
Quella storia però poteva finire male, sia per lei che per lui.
«Che cosa vuoi?» gli domandò mentre la voce le tremava.
«Voglio solo spiegarti una cosa.» Luke le tolse la mano dalla spalla e le soffiò nell’orecchio mentre parlava. Il suo alito sapeva di birra mista all’inconfondibile odore di hashish. «So che sei nuova e per questa volta lascerò perdere, ma devi sapere che la scuola è nostra, quindi ogni nuovo studente deve fare esattamente ciò che gli viene ordinato. Noi siamo arrivati prima, capisci?»
Sarah sapeva dove sarebbe andato a parare e mormorò «Quindi fammi capire, il fatto che io oggi mi sia rifiutata di uscire con te, ti ha ferito nell’orgoglio? Sei scappato a piangere dai tuoi amichetti della squadra di basket?»
I due amici di Luke si misero a ridere e lui li incenerì con lo sguardo. Poi si rivolse alla ragazza storcendo le labbra. «Hai poco da fare la stronza. Lo sai che la maggior parte delle ragazze di questa scuola farebbe carte false per uscire con me?»
«E allora perché non vai da loro?» alzò le spalle lei. Infine annuì acida. «Già, è chiaro. Devi passarti tutte quelle passabili, comprese le nuove.»
«Vedo che hai capito.» Lui sorrise e con una mano le sfiorò la guancia mentre lei volgeva il viso dall’altra parte.
«Metti giù le mani!» Sarah lo colpì al braccio con un leggero schiaffo ma Luke riprese a sfiorarle il volto con le dita.
«Hai un pessimo carattere, sai?» lui sorrise ancora, leccandosi il labbro inferiore con la lingua. Più lei lo respingeva e più lui si esaltava, sembrava che ogni rifiuto lo stuzzicasse ancora di più. «A dir la verità, mi piaci più così di come ti mostri in classe. La sceneggiata della timidezza è solo una finta, vero? Scommetto che hai già…»
«Ti do un consiglio. Vattene, finché sei ancora in tempo.» Sarah lo interruppe prima che completasse quella frase e cercò di allontanarsi.
Luke la sbatté con ancora più brutalità contro il muro della casa e lei mugugnò di dolore. «È inutile che fai tanto la preziosa» bofonchiò seccato e le infilò le dita tra i capelli stringendo il pugno. I suoi occhi divennero duri e spietati, mostrando una rabbia precedentemente celata. «So bene che genere di ragazza sei in realtà. Le conosco quelle come te. Quindi stai zitta e smetti di darti tutte queste arie!»
Luke era veramente un imbecille e lei non poteva credere di essere finita da sola, a sera inoltrata, in una via deserta, circondata da tre bulli palestrati che avevano il cervello grande quanto una nocciolina.
Non era ancora passato il primo giorno di scuola e già si era messa nei guai. Guai grossi.
Gli altri due si avvicinarono e cercarono di bloccarle le braccia, poiché continuava a dimenarsi. Sarah liberò una mano, e assestò un sonoro ceffone alla guancia di Luke.
Lui si toccò il viso con una smorfia. «Puttana.» Le strinse i polsi e la spinse ancora contro il muro, cercando di bloccarle le gambe con le ginocchia.
Sarah trasalì spaventata e non riconobbe in Luke lo stesso ragazzo che le aveva parlato quella mattina: aveva pensato fosse soltanto uno dei tanti che ci provano con la nuova arrivata ma adesso capiva che era anche violento e prepotente, un tipo da evitare.
«Luke» mormorò Sarah a denti stretti. «Mi stai facendo arrabbiare.»
I tre ragazzi risero e la guardarono compiaciuti.
«Ma non mi dire» sussurrò lui. Avvicinò la bocca e cercò di baciarle il collo. «Che cosa vorresti fare? Noi siamo in tre, tu sei solo una ragazza.»
Un vento gelato soffiò tra le fronde degli alberi della casa alle loro spalle, le piante furono scosse da un vortice d’aria insolito, ma nessuno dei tre se ne accorse.
Sarah esitò. Non credeva fosse giusto, eppure doveva farlo, altrimenti chissà cosa le avrebbero fatto quei ragazzi.
Luke cercò di infilarle la mano nella scollatura della maglietta, ma lei reagì con un morso e gli stampò sulla carne i segni dei suoi denti.
Il ragazzo urlò di dolore, poi le diede uno schiaffo tanto violento da farle inclinare il capo. «Stupida stronza! Adesso ti spezzo le ossa!»
Sarah prese finalmente la sua decisione. Non avrebbe voluto ma non le lasciavano altra scelta. «E va bene, Luke» ribadì lei. «Io comunque ti avevo avvertito.»
Frazioni di secondo e gli occhi della ragazza scintillarono di una luce irreale e penetrante. Il tempo di un respiro profondo e le pupille svanirono, lasciando spazio unicamente alle iridi verdi. Il suo corpo tremò, come accadeva ogni volta in cui cercava dentro di sé il potere, finché le dita delle mani non le fremettero, impazienti di lasciare andare il flusso.
Il brivido intenso lungo la pelle l’avvertì che il suo potere si stava scatenando in maniera incontrollabile e ne temeva gli effetti eccessivamente violenti. Aveva ben presente le poche volte in cui, in passato, la sua parte sovrannaturale era prevalsa su quella umana. Se si fosse lasciata andare, quei ragazzi sarebbero morti. Si trattenne appena in tempo. Nonostante tutto, non voleva far loro del male.
L’incorporea bolla di calore prese forma, trattenuta dai suoi palmi, e Sarah la lanciò verso Luke e i suoi amici, facendo attenzione a non imprimerle troppa forza.
I corpi dei tre vennero trascinati in aria come spinti da un forte ciclone e caddero a terra, schiacciati da una forza invisibile.
«Non è che voi uomini vi siate evoluti poi così tanto in tre secoli» commentò Sarah mentre quelli la fissavano, spaesati e ancora sdraiati sulla strada.
Si alzarono e si guardarono sbigottiti; credendo d’essere semplicemente inciampati all’indietro, si lanciarono contro di lei con i pugni alzati.
Sarah alzò una mano mostrando il palmo e Luke, dibattendosi come un forsennato, fu sollevato in aria. Urlò dalla sorpresa e andò a sbattere contro il muro della casa di fronte, seguito dai suoi amici.
Precipitarono a peso morto, e rimasero a faccia in giù, incollati sull’asfalto, immobili e privi di sensi.
Sarah sospirò e abbassò la mano quando si rese conto che erano svenuti. Alla fine non era riuscita a vivere neppure un intero giorno da essere umano. La sua vera natura aveva avuto il sopravvento. La magia aveva vinto. «Fantastico. Adesso mi tocca lanciare l’incantesimo dell’oblio. Com’era la formula?…»
In quel momento si udì un lento applauso provenire da dietro una costruzione prima dell’incrocio.
Un grande corvo nero scese dal cielo gracchiando e si appollaiò sopra il ramo di un albero che sporgeva dal viale. Il suo sguardo era pungente e rifletteva la luce artificiale dei lampioni, emanando scintille gialle.
«Magnifique! Sono senza parole» disse una voce femminile. «Sei migliorata negli ultimi trecento anni, ma chère
Scuotendo il capo e continuando ad applaudire, da dietro il muro venne fuori una ragazza.
Al collo portava una collana uguale a quella di Sarah, con la sola differenza che la pietra del ciondolo, incastonata nella cornice ovale gotica, era un topazio.
I capelli lisci e dorati le incorniciavano il volto con accuratezza. I suoi occhi erano color giada, indossava un attillato maglioncino di cashmere verde e una minigonna scozzese a pieghe, calze grigie fino al ginocchio ed eleganti scarpe nere di vernice col tacco alto.
La sua carnagione era identica a quella di Sarah: bianchissima e luminosa, con poche lentiggini castane sopra il naso. Nonostante l’aspetto appariscente e il trucco curato, non dimostrava più di sedici anni. Il corvo si alzò in volo dal ramo dell’albero e le si posò sulla spalla.
«Che diavolo ci fai tu qui?» volle sapere Sarah con astio.
« È questo il modo di salutare?» La ragazza bionda sorrise e si avvicinò. La sua andatura era sicura e provocante, il suo corpo sciolto e flessuoso. «Perché non mi hai detto nulla, quando sei partita da Londra una settimana fa? Volevi farmi credere che qualcuno ti avesse uccisa? E poi, cosa più importante… Ma come ti sei vestita?»
Sarah guardò i larghi pantaloni verde militare e la semplice maglietta bianca di cotone sotto il giubbotto.
L’altra si mise a ridere, consapevole di averla già messa in imbarazzo. «Sei venuta qui per la solita storia del voler provare a vivere come una ragazza normale? Che fine ha fatto la tua scopa magica alla Harry Potter?»
«L’ho venduta su eBay, per cinque dollari» rispose Sarah con sarcasmo. Poi domandò in modo rude «Sei venuta con lui
«Già, non è che noi due abbiamo così tanta scelta, sorellina» la ragazza si passò una mano tra i lunghi capelli di seta, «dopo quello che ha combinato quel gran bastardo di nostro padre.»
«Non parlare di lui in quel modo, Susan» mormorò Sarah con un gemito d’angoscia. Girò il capo e fece finta di non prestarle attenzione.
«Perché? Hai già dimenticato che siamo qui solo per colpa sua?!» replicò con durezza sua sorella minore. La guardò negli occhi, mettendole il proprio viso davanti. «Certo, tu sei sempre stata così brava a dimenticare, a perdonare… Santa Sarah, modello di virtù, martire inglese e ancora vergine dopo più di trecento anni!»
«Cosa sei venuta a fare a Salem?» pretese ancora lei, non badando alle parole della ragazza.
«Che domande, a vivere con te, naturellement
«State preparando qualcosa? Tu e quel…» borbottò Sarah tenendosi la fronte accaldata. Le tempie le pulsarono e la testa cominciò a farle male. «Stamattina era davanti casa mia. Qualunque cosa sia, vi assicuro che questa volta non ve la farò passare liscia. Com’è successo a Londra.»
«Me lo auguro.» Susan annuì sorridendo e sistemò le pieghe della gonna scozzese. «Se la mia casta sorella non mi mette i bastoni fra le ruote, che gusto c’è? Ho visto che hai comprato quella graziosa casetta vittoriana. Scommetto che l’hai acquistata vendendo quel quadro che Monsieur Degas ti ha fatto quando era giovane. Ricordo ancora quella giornata al Louvre. E ancora non capisco come tu abbia potuto rifiutare un uomo come Edgar Degas: ricco, affascinante e di buon gusto. Quel ragazzo era pazzo di te.»
Sarah rimase in silenzio e abbassò lo sguardo.
«Quand’è che ti lascerai Arthur alle spalle?» Susan la fissò con occhi severi e impenetrabili questa volta.
«Non osare pronunciare quel nome, dopo tutto quello che hai fatto» urlò Sarah infuriata.
«Oh no, ce l’hai ancora con me per quella storia! Ma sono trascorsi secoli, a quei tempi Bach non era neppure un bambino brufoloso che alzava le sottane alle cameriere!»
Gli occhi di Sarah sembrarono inumidirsi. Un gemito le sfuggì dalle labbra, come se stesse sul punto di singhiozzare. «Non ti perdonerò mai.»
«Per quel che me ne importa! Adesso sono qui e questa volta non potrai fingere di ignorarmi, come hai sempre fatto.» Susan batté i tacchi sul terreno e si avviò. Poi si rivolse al corvo nero, poggiato sulla sua spalla destra: «Andiamo, Mefisto. Mamma deve rifare il guardaroba per il nuovo anno scolastico.»
Sarah sospirò e non seppe cos’altro dire. Adesso sapeva perché aveva sentito quell’odore di distruzione, non appena si era affacciata alla finestra quella mattina.
«Ci vediamo a lezione, sorellina!» alzò la mano Susan, mentre voltata di spalle camminava lungo la strada. «Ah, e ricorda di cancellare i ricordi di quei tre prima di andartene. Non vorrei che mi adocchiassero nei corridoi della scuola come la sorella della crudele strega dai capelli rossi. Ho già visto abbastanza roghi nella mia vita.»
Quella notte Sarah rimase a casa, malgrado Circe insistesse per andare a spasso, seguendola di stanza in stanza, e miagolando caparbia.
Non aveva nessuna voglia di uscire, adesso che sua sorella minore era a Salem. Si era illusa di poter vivere una vita normale ma ora non ci credeva più di tanto.
Susan era una fonte di problemi per chiunque le stesse accanto e nessuno meglio di lei che era sua sorella maggiore poteva saperlo. Se quel primo giorno di scuola era sembrato duro, ora era consapevole che il peggio dovesse ancora arrivare.
La presenza di sua sorella proprio in quella città, significava complicazioni, soprattutto per ogni essere di sesso maschile. E naturalmente, sarebbe toccato a Sarah tenerla d’occhio per evitare che tutto lo stato del Massachusetts saltasse in aria come una bomba a orologeria.
Aprì la finestra e lasciò che la gatta nera uscisse per le sue scorribande notturne dicendo «Anche se capisco che non puoi mancare alle tue romantiche avventure lussuriose, cerca di ritornare prima dell’alba.»
La gatta miagolò e sparì nel buio della notte, com’era solita fare quando la sua padrona non voleva seguirla.
«Almeno una di noi due ha una vita sessuale» sospirò lei.
Sarah si chiuse in bagno e aprì il rubinetto, facendo scorrere l’acqua bollente fino all’orlo della vasca. Come ogni volta prima di fare il bagno o la doccia, diede un’occhiata al tatuaggio dietro la sua spalla sinistra, la grande S gotica. Era un pensiero puerile, eppure lei sperava che un giorno si sarebbe svegliata e non avrebbe più trovato quel simbolo impresso sulla sua pelle.
Si era già fatta due nemici a scuola, quella smorfiosa di Ivy e quel prepotente di Luke. E sua sorella era venuta a cercarla da Londra: aveva capito al volo che Salem era l’unica città in cui lei avrebbe potuto rifugiarsi.
Susan era arrivata assieme a lui. A quel maledetto che non perdeva occasione di tormentarla.
L’essere diabolico che aveva rovinato la sua famiglia era a Salem e Sarah sapeva che non sarebbe passato molto tempo prima che l’uomo avesse rivelato ancora la sua presenza, come quella mattina.
Si immerse nell’acqua, agitò la mano destra e dalla vasca cominciarono a uscire bolle d’aria che le accarezzarono il corpo, facendola rilassare. Lei sprofondò e lasciò fuori solo il naso e gli occhi. Anche se non aveva una Jacuzzi, con la magia riusciva a riprodurre un perfetto idromassaggio per almeno venti minuti.
Il suo bagno durò tre quarti d’ora e quando uscì, si sentì accaldata e morbida, mentre i fumi dei sali evaporavano, riempiendo la stanza di delicato profumo alla camomilla.
Sarah indossò il pigiama di cotone a righe, si tuffò distrutta sul letto e chiuse gli occhi. Non aveva più una famiglia, non aveva più nessuno.
L’unico affetto che aveva in questo mondo, se affetto si poteva chiamare, era quel demonio scatenato di sua sorella Susan, capace solo di combinare guai.
Sentì una lacrima scenderle sulla guancia. Anche se credeva di aver esaurito da tempo tutte le sue lacrime, preferiva evitare di piangere: non sarebbe cambiato nulla lo stesso e il suo umore, già depresso, avrebbe continuato a peggiorare. Spostò il pigiama e fece finta di grattare via con le unghie il tatuaggio.
Sapeva che nulla avrebbe potuto cancellarlo.
Non avrò mai una vita normale. Non sarò mai una ragazza come le altre. Niente potrà cambiare quello che sono.
Come Hester Prynne, anche lei era stata marchiata da una lettera scarlatta, solo che la sua rappresentava un’infamia ancora più grande e pericolosa.
Stryx
Il Marchio della Strega.

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