dalla rivista “Le Scienze“, edizione italiana di “Scientific American“
TECNOLOGIA ADATTATIVA – IMPARARE CON LE MACCHINE
Scuole e università statunitensi usano sempre più le tecnologie che adattano i contenuti didattici alle capacità dello studente, liberando gli insegnanti dall’impegno delle lezioni. Ma funzionano veramente?
di Seth Fletcher
Illustrazione di Kyle Bean; Mitch Payne
Quando l’autunno scorso Arnecia Hawkins si è iscritta alla Arizona State University, non sapeva di rientrare nel gruppo di controllo di una sperimentazione sul rinnovamento dell’istruzione superiore statunitense. Eppure verso la fine del semestre primaverile si è trovata a imparare la matematica da una macchina. In un attrezzato laboratorio informatico del campus di Tempe, nel deserto dell’Arizona, lei e una studentessa del secondo anno di nome Jessica si esercitavano con calcoli di matematica finanziaria. Tramite il menu rapido di un apposito software potevano cliccare e spostarsi a piacere fra lezioni video, sezioni digitalizzate di libri di testo, questionari e problemi pratici. Mentre le due ragazze lavoravano, le loro risposte, insieme alle miriadi di dati relativi al modo in cui vi arrivavano, erano trasmesse ad alcuni server. Speciali algoritmi predittivi sviluppati da un gruppo di scienziati esperti in analisi complesse dei dati, confrontavano le loro statistiche con le informazioni raccolte su decine di migliaia di altri studenti, cercando indizi su che cosa, per esempio, stava imparando Arnecia o che cosa la metteva in difficoltà o, ancora, che cosa avrebbe imparato in seguito e come l’avrebbe imparato.
Per Arnecia avere un computer come insegnante era una novità. «Sarò sincera: all’inizio mi sentivo infastidita», commenta. Anche per il suo professore era un’esperienza nuova. Il matematico David Heckman, abituato a fare lezione in classe, era diventato una «guida itinerante», rispondendo qua e là alle mani alzate degli studenti disorientati. Presto, però, entrambi hanno cominciato a vedere i vantaggi della situazione. Ad Arnecia piaceva la possibilità di decidere da sola gli orari di studio e lavorare quando voleva, dal proprio portatile o dal computer del laboratorio. A Heckman il programma permetteva di seguire più da vicino i progressi degli allievi. Poteva aprire un menù che lo informava nei minimi dettagli sull’andamento di ogni studente: non solo chi era in regola con lo studio e chi no, ma anche su quale concetto specifico stava lavorando. Heckman preferisce le lezioni tradizionali, ma si sta abituando. Uno dei vantaggi del programma è che svolge gran parte del lavoro di valutazione.
Alla fine del semestre, se tutto andrà bene, Arnecia seguirà l’ultima lezione di matematica del college della sua vita. Ripenserà a questa tipologia di corso data-driven, ovvero guidata dall’analisi e dalla gestione dei dati relativi agli studenti, per ora così nuovo e controverso, come la «normale» esperienza universitaria. «Abbiamo anche lezioni regolari di matematica qui?», chiede.
Fonte: Enhancing Teaching and Learning Through Educational Data Mining And Learning Analytics: An issue brief, dello U.S. Department of Education, Office of Educational Technology, ottobre 2012
I big data conquistano la didattica
La decisione dell’Arizona State University di passare all’apprendimento informatizzato è, almeno in parte, nata dalla necessità. Con oltre 70.000 studenti, l’Arizona State è la più grande università pubblica degli Stati Uniti. Come altre istituzioni statunitensi di ogni grado di istruzione, sta per affrontare trasformazioni profonde. Negli ultimi cinque anni ha perso la metà dei fondi statali; intanto le iscrizioni aumentano, con un allarmante numero di studenti che si presentano al campus senza la preparazione necessaria. «C’è una marea di persone che cerchiamo di istruire e che non abbiamo istruito prima», spiega Al Boggess, direttore del Dipartimento di matematica dell’Arizona State University. «I politici ci dicono: formateli. Fateli recuperare, trovate il modo. In quattro anni li vogliamo laureati. Anche se i finanziamenti diminuiscono».
Due anni fa gli amministratori dell’ateneo hanno iniziato a cercare modi più efficaci per far raggiungere agli studenti i requisiti di una formazione generale di base, soprattutto in discipline come la matematica, che inducevano eccessivi abbandoni. Qualche mese dopo un colloquio di lavoro con Jose Ferreira, amministratore delegato e fondatore di Knewton, start-up newyorkese specializzata nell’apprendimento personalizzato, l’Arizona State ha preso un’importante decisione. In quell’autunno, quasi senza preavviso, ha inserito 4700 studenti in corsi di matematica informatizzati. L’anno scorso una cinquantina di docenti hanno seguito 7600 allievi dell’ateneo servendosi di tre corsi introduttivi di matematica basati sul software di Knewton, e si prevede di adattare altri sei corsi entro l’autunno 2014, reclutando nelle fila dell’apprendimento adattivo qualcosa come 19.000 studenti l’anno. (A maggio Knewton ha annunciato un accordo con Macmillan Education, consociata di «Scientific American» .)
L’Arizona State è stata la prima e più agguerrita seguace dell’apprendimento personalizzato e data-driven. Anche altre istituzioni si sono impegnate a perseguire scelte analoghe per far fronte all’aumento di iscrizioni, al calo delle disponibilità economiche e ai requisiti sempre più rigidi della formazione. In 45 Stati, le scuole pubbliche primarie e secondarie si stanno affrettando ad adottare nuovi standard delle discipline matematiche e umanistiche di lingua inglese: l’iniziativa è nota come Common Core State Standards e, per applicarla, occorrono nuovi materiali didattici e nuovi test. Circa la metà dei test saranno on line e adattivi, le domande formulate dal computer saranno tagliate sulle capacità di ogni studente, calcolandone il punteggio (si veda l’articolo in basso).
Il sistema scolastico si sta misurando con una vasta serie di programmi adattivi, dalle lezioni di matematica e di lettura per le elementari alla «macchina dei quiz» che aiuta gli studenti delle superiori a preparare gli esami degli Advanced Placement [gli Advanced Placement sono corsi di livello universitario che gli studenti delle scuole superiori possono seguire per avere anche dei vantaggi da un eventuale accesso successivo al college, N.d.r.]. Questo tipo di tecnologia si sta diffondendo anche fuori degli Stati Uniti. L’edizione 2015 del test del programma per la valutazione internazionale delle competenze degli studenti (PISA), promosso ogni tre anni in oltre 70 nazioni dall’Organisation for Economic Cooperation and Development (OCSE) e che riguarda i quindicenni, includerà componenti adattive per valutare competenze difficilmente misurabili, come per esempio il livello di collaboratività nella risoluzione dei problemi.
Secondo i fautori dell’apprendimento adattivo, la tecnologia ha finalmente fornito a ogni studente un’istruzione personalizzata dai costi abbordabili, e permetterà di abbandonare il modello-fabbrica che ha dominato l’istruzione occidentale negli ultimi due secoli. Gli scettici invece ritengono che sia proprio l’apprendimento data-driven, non quello tradizionale, a trasformare le scuole in fabbriche: la crescente digitalizzazione, affermano, sarebbe l’ennesimo, inutile inganno volto a far guadagnare le aziende che, nel nome della «riforma», spingono i propri prodotti presso insegnanti e studenti. I compiti più o meno «avanzati» che effettuerebbero i computer, individuare i punti forti e deboli dello studente e adattare di conseguenza metodi e materiali di insegnamento, sono cose che gli insegnanti fanno da secoli. Invece di delegare queste mansioni ai computer, concludono i critici, dovremmo spendere di più per formare, retribuire e tenerci i bravi insegnanti.
E se da una parte i fautori dell’apprendimento adattivo affermano di avere a cuore solo il futuro dei bambini statunitensi, dall’altra non negano il potenziale economico del loro prodotto. A decine cercano di entrare nel fiorente mercato delle tecnologie legate all’istruzione, un’industria ormai multimiliardaria (si veda il box). Dalla scuola materna al liceo – illustra Adam Newman, tra i soci fondatori di Education Growth Advisors, azienda specializzata in analisi di mercato – circa il 20 per cento dei contenuti didattici è ormai fornito in formato digitale.
Pur rappresentando solo una piccola parte degli affari legati alla formazione, circa 50 milioni di dollari per quello dalla materna al liceo, il mercato dell’apprendimento adattivo potrebbe crescere rapidamente. «Il concetto di adattività ha più a che fare con l’istruzione scolastica che con la formazione universitaria», precisa Newman. «Nelle scuole, infatti, l’insegnamento è differenziato a seconda dell’età. E differenziare l’insegnamento, anche senza tecnologie, è una forma di adattamento».
Anche i responsabili dell’alta formazione cominciano a entusiasmarsi. Secondo un recente sondaggio di Inside Higher Ed/Gal- lup, il 66 per cento dei presidenti dei college statunitensi ha definito «promettenti» l’apprendimento adattivo e le nuove tecnologie di valutazione. La Bill&Melinda Gates Foundation ha lanciato il programma Adaptive Learning Market Acceleration, mettendo a disposizione dieci fondi da 100.000 dollari per finanziare college e università che negli Stati Uniti svilupperanno corsi adattivi in grado di accogliere almeno 500 iscritti nell’arco di tre semestri. «Credo che a lungo termine, diciamo entro vent’anni, ogni corso avrà una sua componente adattiva», prevede Peter Stokes, esperto di formazione digitale alla Northeastern University. «Sarà un bene, perché consentirà di applicare studi empirici e scienze cognitive alla formazione con modalità inedite. Soprattutto nell’alta formazione – conclude Stokes – i docenti formalmente addestrati a insegnare sono pochissimi. Noi facciamo cose, e siamo convinti che funzionino. Ma se le osserviamo scientificamente, capiamo che spesso il nostro modo di fare le cose non ha basi empiriche».
Promesse e pericoli La tecnologia può ispirare la creatività o disumanizzare l’apprendimento
di Diane Ravitch
La tecnologia sta trasformando l’istruzione statunitense, nel bene e nel male. Il bene viene dai modi ingegnosi in cui gli insegnanti incoraggiano i propri studenti a intraprendere ricerche scientifiche, imparare la storia os- servando direttamente gli eventi e approfondire le proprie idee su Internet. Ci sono letteralmente migliaia di insegnanti che, abili navigatori, discutono regolarmente in rete come incrementare il coinvolgimento degli studenti in classe.
Il male arriva in forme insidiose. Una delle manifestazioni più pericolose della nuova tecnologia sono le scuole private paritarie, a volte chiamate accademie virtuali. Queste scuole, che vanno dalle materne alle superiori e reclutano una grande quantità di iscritti grazie alla pubblicità pagata con milioni di dollari dei contribuenti, di solito raccolgono la retta statale per ogni studente, che viene quindi distolta dal budget per la scuola pubblica locale. Questi istituti sostengono di offrire un’istruzione personalizzata e a misura di ciascuno, ma sono solo parole. Hanno una percentuale elevata di abbandoni, scarsi punteggi ai test e pochi diplomati. Ma fino a quando continueranno ad adescare nuovi studenti le scuole virtuali saranno molto redditizie, per i proprietari quanto per gli investitori. Un altro discutibile uso di questa tecnologia riguarda la valutazione delle prove scritte. Per giudicare le risposte dei test, le principali aziende di formazione on line che effettuano questo tipo di servizio, come Pearson e McGraw-Hill, si servono di programmi. Una macchina è più veloce di un insegnante nell’assegnare i voti, ma non sa distinguere un’asserzione fattuale da un’espressione metaforica. Gli studenti impareranno a scrivere in accordo con le formule apprezzate dalla macchina, a spese del rigore, della creatività e dell’immaginazione. Quel che è peggio, gli insegnanti non avranno più l’importante incarico di leggere gli scritti dei loro studenti, perdendo quindi informazioni su ciò che pensano e presa sulle loro idee. Il risultato sarà un grande calo nella qualità dell’istruzione. Francamente, credo sia un problema che riguarda le valutazioni on line in generale, perché il lavoro di verifica viene svolto non più dall’insegnante ma da una piattaforma remota; negli ultimi esami nei vari Stati si sono verificati ripetuti guasti ai computer. Inoltre non dovremo attendere a lungo prima che qualche hacker riesca a inserirsi nel sistema informatico per accedere ai test.
L’uso in assoluto più inquietante di questa tecnologia è relativo all’accumulo e all’archiviazione dei dati personali degli studenti della scuola pubblica. La Bill&Melinda Gates Foundation ha messo a disposizione quasi 100 milioni di dollari per la creazione di Shared Learning Collaborative, ora inBloom, in accordo con Wireless Generation (di proprietà di News Corporation di Rupert Murdoch) e Carnegie Corporation. Verranno raccolte informazioni sugli studenti in vari distretti e numerosi Stati, fra cui lo Stato di New York, Georgia, Delaware, Kentucky e Louisiana (alcuni di questi, di fronte alle obiezioni dei genitori, stanno riconsiderando l’iniziativa). I dati saranno memorizzati in una nuvola informatica (o cloud), ov- vero archivi, programmi, applicazioni e servizi fruibili direttamente on line ovunque ci si trovi, gestita da Amazon. Sulla nuvola ci saranno nome, cognome e indirizzo degli studenti, il loro anno di corso, i punteggi agli esami, la frequenza, l’eventuale stato di disabilità, la partecipazione al programma e molti altri dettagli che gli insegnanti e le scuole non sono autorizzati a comunicare a terzi.
A chi servono tutte queste informazioni personali e perché vengono condivise? I fautori dell’iniziativa assicurano che l’obiettivo è creare prodotti migliori tagliati su misura per ogni singolo studente. Gli scettici sono convinti che le informazioni verranno cedute ai venditori, che le sfrutteranno per commercializzare i propri prodotti presso le famiglie. Nessuno sa se i dati saranno sicuri; c’è sempre qualche ficcanaso che riesce a violare banche dati e nuvole informatiche.
Fino a poco tempo fa la comunicazione di dati personali degli studenti senza il consenso dei genitori era vietata da una legge federale del 1974 nota come FERPA (Family Educational Rights and Privacy Act). Ma nel 2011 il Department of Education degli Stati Uniti l’ha modificata, ren- dendo legale questo progetto di dati personali. L’Electronic Privacy Infor- mation Center (EPIC) ha denunciato il Department of Education alla Corte federale per avere indebolito il FERPA, permettendo la comunicazione di dati degli studenti a terzi senza il consenso dei genitori.
La questione, in sostanza, è la seguente: gli insegnanti vedono la tecnologia come uno strumento per stimolare l’apprendimento negli studenti; gli imprenditori come un modo per standardizzare l’insegnamento, sostituire gli insegnanti, fare soldi e commercializzare nuovi prodotti. Chi avrà la meglio?
Diane Ravitch insegna storia dell’istruzione americana alla New York University, dove svolge attività di ricerca. Negli Stati Uniti, il suo ultimo libro The Death and Life of the Great American School System. How Testing and choice Are Undermining Education (Basic Books) è stato un bestseller nel 2010.
La scienza dell’adattività
In generale il termine «adattivo» si riferisce a un’interfaccia di apprendimento informatizzato che valuta in modo continuo le abitudini di pensiero di uno studente, sulla base delle quali personalizza il materiale per l’alunno. Non stupisce, però, che nascano accanite discussioni su chi possa attribuirsi il titolo della vera adattività. Per alcuni, un esame che nel 2013 semplicemente modifichi la domanda a seconda delle risposte precedenti – un test che si autogestisce in base a una logica binaria – non è considerato del tutto adattivo. L’adattività esige la creazione di un profilo psicometrico per ogni utente, oltre a un continuo aggiustamento dei dati a seconda dei progressi della persona.
Per realizzare un sistema del genere gli sviluppatori dei programmi adattivi devono prima mappare le connessioni fra tutti i concetti che compongono una parte del materiale didattico. Poi, ogni volta che lo studente osserva un video, legge una spiegazione, risolve un problema pratico o risolve un questionario, i dati relativi alle sue prestazioni, all’efficacia dei contenuti e molto altro arrivano a un server. A questo punto speciali algoritmi confrontano i dati dello studente con quelli di migliaia, se non milioni, di altri studenti, fino a quando emergono degli schemi. Potrebbe risultare che le difficoltà incontrate da uno studente riguardo a un determinato concetto siano le stesse di altri con uguale profilo psicometrico. Il programma saprà che cosa occorre per quel tipo di studente e adatterà i materiali di conseguenza. Con miliardi di dati provenienti da milioni di individui questi algoritmi, se potenti ed esperti a sufficienza, dovrebbero essere in grado di formulare qualsiasi tipo di predizione, fino a dirvi che potete imparare meglio gli esponenti se li studiate fra le 9.42 e le 10.03 di mattina.
Gli algoritmi dovrebbero anche essere in grado di prevedere i metodi migliori per ricordare il materiale studiato. Ulrik Juul Christensen, amministratore delegato di Area9 e sviluppatore del programma di analisi dei dati che supporta i prodotti adattivi Learn- Smart di McGraw-Hill, sottolinea che la sua società ha sfruttato il concetto di decadimento mnemonico. Attualmente oltre due milioni di studenti usano, per conto proprio o in un corso, il programma adattivo LearnSmart su dozzine di argomenti. Le ricerche dimostrano che tutti (proprio tutti) ricordano meglio parole o eventi nuovi quando, dopo averli imparati una prima volta, cercano di reimpararli nel momento esatto in cui stanno per dimenticarli. Per mezzo di speciali algoritmi, il programma di Area9 per la didattica è in grado di prevedere la curva del decadimento mnemonico di ogni utente, e può così ricordargli quello che ha imparato la settimana precedente proprio nel momento in cui quella conoscenza sta per abbandonare il suo cervello.
Pochi insegnanti in carne e ossa possono vantare una simile capacità di previsione. Ma secondo Christensen i computer non sostituiranno mai il corpo docente. «Non saremo certo così folli da affidare l’educazione dei nostri bambini soltanto alle macchine», commenta.
Resistenze umane
A marzo, Gerald Conti, professore di studi sociali alla Westhill High School di Syracuse, nello Stato di New York, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una pungente lettera di dimissioni che ha subito fatto scalpore. «Sempre a caccia di dollari per riempire le casse federali – scrive – i nostri legislatori ci hanno tradito, svendendo i nostri bambini alla Pearson», il gigante dell’editoria scolastica alleatosi con Knewton per lo sviluppo di nuovi prodotti. «La mia professione è sempre più avvolta in un’atmosfera di sfiducia; gli insegnanti sono diffidati dal preparare e gestire personalmente compiti e verifiche (ora definiti genericamente «valutazioni») o dall’assegnare i voti agli studenti».
Conti considera i big data, le miniere di dati in continua espansione che incrociati e analizzati offrono una migliore profilazione degli utenti, l’origine non tanto di un apprendimento personalizzato, quanto di una monocultura dell’educazione: «Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica [in inglese indicate con la sigla STEM: Science, Technology, Engineering and Mathematics, N.d.t.] dominano la nostra vita, e la formazione data-driven, guidata dall’analisi e dalla gestione dei dati, porta solo a conformismo, controllo e standardizzazione». Secondo Conti il rischio è aderire come zombie al superficiale e generico Common Core Standard [le linee guida che negli Stati Uniti definiscono parametri e obiettivi comuni a livello federale da raggiungere nelle classi primarie e secondarie dei sistemi educativi dei diversi Stati, N.d.t.]
La lettera di Conti è solo un esempio della crescente ostilità che colpisce la riforma educativa tecnologicamente orientata e incentrata sui test. A gennaio gli insegnanti della Garfield High School di Seattle hanno votato per boicottare il MAP test, applicato in distretti scolastici di tutto il paese per valutare i progressi degli alunni. Dopo essersi scontrati con il sovrintendente e il consiglio scolastico del proprio distretto, gli insegnanti hanno proseguito il boicottaggio contagiando rapidamente altre scuole di Seattle. A Chicago e in altre città si sono sollevate proteste di solidarietà fino all’annuncio ufficiale, verso metà maggio, per cui le scuole superiori di Seattle potevano fare a meno del MAP, a patto che lo sostituissero con qualche altro tipo di valutazione.
Se i sostenitori dell’apprendimento guidato dall’analisi e dalla gestione dei dati potessero dimostrare una volta per tutte la superiorità dei loro metodi rispetto a quelli esistenti, non avrebbero difficoltà a far tacere le proteste. Ma non possono, almeno non ancora. La prova empirica della loro efficacia è, come ha scritto Darrell West, sostenitore dell’apprendimento adattivo e fondatore del Center for Technology Innovation della Brooking Institution di Washington, «preliminare e soggettiva». Per valutare accuratamente la validità delle tecnologie di apprendimento adattivo bisognerebbe isolare tutte le variabili: tenere conto cioè delle dimensioni della classe, se è «capovolta» (con i compiti svolti in classe e le lezioni tramite video che lo studente può gestire come vuole), se il materiale viene fornito per mezzo di testi, video, o giochi e così via. Secondo l’Arizona State University il 78 per cento degli studenti che hanno seguito il corso di introduzione alla matematica «rielaborato» da Knewton ha superato l’esame, una percentuale più elevata del precedente 56 per cento. Forse, però, le promozioni sono state favorite non tanto dalla tecnologia quanto dai cambiamenti avvenuti nella politica universitaria: ora infatti agli studenti è permesso ripetere l’esame o distribuire il corso su due semestri senza dover pagare il doppio.
Anche se i fautori della tecnologia adattiva riuscissero a dimostrare una volta per tutte la superiorità del loro metodo, dovrebbero ancora vedersela con la questione della privacy. Per molte persone, a quanto pare, l’insistente raccolta di dati psicometrici risulta snervante. Lo testimonia la reazione negativa a inBloom all’ini- zio dell’anno. Questa azienda offre un’archiviazione digitale ester- na per moltissimi dati che riguardano gli studenti – nome, indirizzo, numero telefonico, frequenza, voti d’esame, informazioni sulla salute – formattati in modo da consentirne l’uso a particolari applicazioni educative. A febbraio, in occasione del lancio, inBloom ha annunciato di avere stretto un accordo con i distretti scolastici di nove Stati federali, suscitando un moto d’indignazione nei genitori. Si è diffuso il timore di una «banca dati nazionale» di ogni possibile informazione sui ragazzi. Gli avversari del progetto sostenevano che i distretti scolastici, tramite inBloom, cedevano dati confidenziali dei loro figli ad aziende decise a lucrarci sopra. Da allora tre Stati su nove si sono ritirati dall’iniziativa.
Potrebbero sembrare reazioni esagerate, ma per la verità i sostenitori dell’istruzione adattiva parlano già della possibilità di generare profili che seguirebbero gli studenti per tutta la carriera scolastica, e anche oltre. Lo scorso autunno la campagna per la riforma del sistema scolastico Digital Learning Now si è pronunciata sulla necessità di creare una sorta di «zainetto-dati» per ogni alunno della scuola materna: trascrizioni elettroniche che ciascun bambino si porterebbe dietro di anno in anno, così da potersi presentare il primo giorno di scuola con «tutte le informazioni possibili sulle sue preferenze, motivazioni, risultati personali e i traguardi raggiunti nel tempo». E quando sarà il momento di fare domanda al college o cercare lavoro, perché non usare come credenziali i punteggi stipati nello zainetto informativo? Qualcosa di simile esiste già in Giappone, dove per un manager è normale elencare nel proprio curriculum, per esempio, i punteggi ottenuti studiando l’inglese su iKnow.
Seth Fletcher è senior editor di «Scientific American»
L’istruzione è per gli Angry Birds
Che cosa ci insegnerà il videogioco che crea più dipendenza di tutti
di Peter Vesterbacka
Molti ritengono che imparare sia un lavoro. Le famiglie che si trasferiscono in Finlandia dall’estero hanno spesso la sensazione che i loro figli, a scuola o all’asilo, «non imparino abbastanza». «Non lavorano mai – si lamentano – giocano soltanto». Ma è proprio questo il punto: giocando si impara, e questa filosofia è parte integrante del sistema scolastico finlandese. I miei figli hanno un orario scolastico breve e pochi compiti a casa, eppure gli studenti finlandesi ottengono spesso i punteggi migliori nei test internazionali.
Che cosa insegna realmente il gioco? In Finlandia abbiamo un esempio famosissimo. I ricercatori hanno notato che da noi i ragazzi parlano l’inglese meglio delle ragazze. Alla base di questa constatazione, documentata da numerosi studi, ci sono i giochi elettronici. I maschi giocano di più ai videogiochi. E dato che i giochi sono in inglese apprendono un vocabolario più esteso. Il punto è che i ragazzi non puntano a imparare l’inglese, ma lo imparano divertendosi. Noi non vogliamo che la nostra sia solo un’azienda che produce giochi, e lavoriamo sempre più di frequente con l’istruzione scolastica. L’anno scorso, con la collaborazione della NASA, abbiamo creato Angry Birds Space, un gioco che insegna ai più piccoli la microgravità, e ora con il CERN stiamo sviluppando giochi e cartoni animati che insegnino ai bambini di 4-6 anni i principi della fisica quantistica. In Angry Birds la fisica c’è già: senza starci a pensare impari le traiettorie. Con il CERN adotteremo lo stesso metodo, ma spingendoci un po’ oltre per approfondire in modo divertente matematica, fisica e scienza. Fra poco approderemo alle lingue: per il mercato cinese abbiamo sviluppato un gioco che insegna l’inglese ai cinesi basandosi sulla Festa della Luna, che per loro ha un significato culturale immenso.
Dubito che il futuro dell’istruzione sia tutto nel digitale. Per i bambini è molto importante imparare a fare cose vere, lavorare con oggetti che si possono vedere e toccare. Credo che nell’arco di qualche anno oltre la metà dei nostri prodotti saranno fisici. Abbiamo già una fiorente attività editoriale, libri di racconti e activity book basati sui personaggi dei nostri videogiochi, e stiamo progettando una linea di giocattoli educativi. Finora, in generale, non si è fatto molto per combinare il fisico e il virtuale: io penso invece che da lì verranno le innovazioni più importanti. Quest’area riserva grandi opportunità per gli anni a venire.
Peter Vesterbacka è direttore della divisione commerciale di Rovio Entertainment, l’azienda finlandese creatrice di Angry Birds.
Trascrizione effettuata da questo link.
Fonte: rivista LE SCIENZE , edizione italiana di Scientific American
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