In poche parole siamo di fronte ad una fallacia argomentativa in quanto si scambia arbitrariamente un possibile effetto con la causa. Va detto comunque che certamente esiste chi, magari vecchio e malato, sceglie di abbracciare la religione come motivo di consolazione. Ma, come ha giustamente scritto Simone Weil, "la religione in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede, e in questo senso l'ateismo è una purificazione" (Quaderni II, 1940/42, postumo, 1953), cioè è un aiuto verso chi abbraccia forme fideiste, è un pungolo che spinge a rivedere la propria posizione per abbracciare il contenuto vero della fede. Anche perché, secondo l'antropologo dell'Università di Oxford, Jonathan Lanman, "dal punto di vista psicologico, abbiamo poche prove che le nostre menti crederanno in qualcosa solo perché sarebbe confortante farlo".
Il messaggio cristiano non serve come consolazione, ma è l'unico a rendere pienamente sensato vivere ora, dando un significato vero e adeguato "qui e ora" ( "hic et nunc"). Non c'è altro motivo della felicità nell'istante, del condurre un'esistenza all'altezza della propria umanità. Come veniva riportato , citando il teologo Giussani: "l'avvenimento cristiano non identifica solo qualcosa che è accaduto e con cui tutto è iniziato, ma ciò che desta il presente (...). Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta accadendo ora". Al cristiano interessa vivere fino in fondo l'istante, nessuna consolazione. Se fosse vero che i cristiani sono concentrati solo sull'"altra vita", non si capirebbe perché abbiano creato tanta cultura nella storia umana (musica, arte, scienza...). Come ha scritto il sempre ottimo Claudio Magris, "il cristiano crede che il paradiso, una società perfetta realizzata una volta per tutte, non sia possibile sulla terra, ma questo è di per sé un fermento progressivo, che aiuta a resistere contro le delusioni che puntualmente avvengono quando si attende una rivoluzione che risolva tutto e per sempre". Inoltre, gli ha risposto il cardinale Agostini, prefetto emerito della Congregazione per le Chiese Orientali, "c'è per ogni cristiano la responsabilità di ciò che accade a lui e ai suoi fratelli, cosicché è chiamato ad adoperarsi continuamente perché questa vita sia meno ingiusta [...]. Se ti salvi non puoi farlo come se fossi solo, lo devi fare vivendo con gli altri ed aiutando gli altri. Il cristiano è colui che annuncia; è missionario, e non può ignorare la condizione degli altri, che è fatta di aspettative, di incertezze, di negazioni. Questa è la condivisione, la responsabilità e la solidarietà con il mondo". Altro che indifferenza per "questa vita"!
Tornando al tema principale, se la religione servisse davvero per scongiurare il pensiero della morte (la cosiddetta "fuga religiosa"), non si capisce perché i credenti spendano mediamente più soldi per prolungare la loro vita in caso di malattia, come dimostra questa ricerca. In questi giorni è stato pubblicato un altro interessante studio da parte di ricercatori dell'University of Malaya i quali, intervistando circa 5000 studenti in Malesia, Turchia, e Stati Uniti, hanno scoperto che le persone religiose (islamiche, in particolare) temono maggiormente la morte di quelle non religiose. A questo punto avrebbe dunque ragione chi sostiene che in realtà sia l'ateismo ad essere consolatorio rispetto alla morte, sopratutto in chi ha vissuto o vuole vivere una vita disordinata e "autoreferente". La cosa certa è che l'irreligiosità banalizza ogni fase dell'esistenza ( "l'uomo non è nient'altro che..", si sente ripetere dagli ateologi) sopratutto la sua fine: verso questa interpretazione vanno le ricerche in cui si mostra che i non credenti hanno elevati tassi di suicidio, addirittura il doppio di chi crede in Dio.
Luca Pavani