Stupore e insidie a Chefchaouen, la capitale marocchina dell’hashish

Creato il 12 settembre 2014 da Nonsoloturisti @viaggiatori

Chefchaouen, la meravigliosa “città blu” del Marocco adagiata nella cornice montuosa del Rif, è una rosa con qualche spina, un incontro da non farsi mancare a cui però è bene giungere preparati.

Le oniriche tonalità della medina sono uno spettacolo unico al mondo, tra cui è piacevole perdersi mentre si è in cerca di un buon ristorante o di qualche bel prodotto di artigianato da sfoggiare in casa (chi può farsi mancare nel suo repertorio un piatto di terracotta per il tajine, quasi impossibile da preparare in Italia, o un tappeto di lana da una tonnellata, a cui occorrerà cedere il posto letto nel proprio monolocale in città?).

Ma per quanto questa perla architettonica sia un teatro spettacolare in cui farsi importunare dagli insistenti negozianti e dalle aspiranti guide turistiche – drammaticamente incapaci di registrare “no” tra le possibili risposte – il tesoro che attrae migliaia di turisti stranieri e marocchini in questa carismatica città è un altro. Il suo nome viene sussurrato con trepidazione in tutto il mondo da chiunque abbia almeno 14 anni di età: hashish.

Dal momento in cui si mette piede in città, il tempo necessario per incontrare un disponibilissimo venditore di tale derivato della cannabis oscilla normalmente tra i cinque e i cinque virgola cinque nanosecondi. Servirsi in strada è quasi inevitabile, ma qualunque alternativa è caldamente consigliata, dall’avvalersi – per chi ne ha la fortuna – di conoscenze locali al chiedere con un misto di imbarazzo e infantile speranza al portiere dell’ostello.

Al primo impatto i coltivatori-venditori di questo controverso prodotto propongono quantitativi piuttosto impegnativi, dall’etto in su, ma estenuanti trattative possono portare l’offerta a dosi meno intossicanti, a cui però si aggiunge un inevitabile aumento del prezzo al dettaglio. Una persona mediamente negata per questo genere di trattative dovrebbe riuscire a portarsi a casa circa 30 grammi per più o meno 1000 dirham (circa 90 euro).

Sebbene in Marocco produzione, vendita e lavorazione dell’hashish – e di qualunque altro derivato della cannabis – siano illegali, la sua consumazione è un’abitudine diffusa. In città tradizionalmente turistiche, come Chefchaouen e Fes, tale pratica è raramente disturbata dall’intervento della polizia. Casablanca e Rabat, invece, mantengono un profilo più discreto e i luoghi pubblici tendono ad esserne esentati.

Tra le offerte turistiche legate al consumo di hashish a Chefchaouen c’è anche la famigerata visita alle piantagioni di marijuana. Il gruppo di turisti viene scortato in macchina fino a pochi chilometri fuori città, dove si estendono chilometri di verdi fusti di cannabis. Dopo qualche foto di rito, viene mostrata la lavorazione del prodotto: dai fusti viene estratto il kif, cioè i cristalli di THC responsabili dei tanto ambiti effetti sul fumatore, e questi sono poi raccolti in un sacco che funge da setaccio e colpiti ripetutamente con dei bastoni finché non rilasciano l’hashish. In circa venti minuti l’abile coltivatore di cannabis ricava dieci grammi di hashish per ogni chilo di kif. Quest’ultimo viene fumato anche senza ulteriori trattamenti in lunghe e sottili pipe, completando – insieme al meno popolare oppio – il fumoso panorama di Chefchaouen.

Attenzione però: per quanto gentili e ammiccanti, alcuni di questi professionisti dello stordimento sono dei veri e propri criminali che non si fanno alcuno scrupolo nel minacciare e intimidire i turisti per ottenere la transazione desiderata. Durante queste “gite” il prodotto ultimato viene venduto ai visitatori, ma contrattare sul prezzo circondati da trafficanti a chilometri di distanza dalla città è ben diverso che farlo nella relativa sicurezza della medina, dove comunque la polizia turistica è sempre dalla parte degli occidentali e la popolazione non manca di mostrare accoglienza ai viandanti.

Su 33 milioni di abitanti, il nove per cento dei marocchini è disoccupato. La statistica sale però fino al 30 per cento per gli under 40 e spesso nemmeno il lavoro basta a superare la soglia di povertà. Non stupisce quindi che quasi un milione di persone siano dedite all’industria dell’hashish [fonte: Rete marocchina per l'uso medico e industriale della marijuana], una forza lavoro che produce circa 8 miliardi di euro ogni anno e copre secondo alcune stime la metà del consumo mondiale.

I movimenti per la legalizzazione della cannabis stanno cercando disperatamente di far inserire in un contesto di tutela e legalità questo esercito di contadini e produttori, una battaglia in cui si sono schierate anche alcune forze politiche, come il parlamentare del Partito dell’Autenticità e della Modernità, Khadija Rouissi (“Non possiamo più continuare a ignorare la realtà”), e Abdelhalim Allaoui, deputato del Partito della Giustizia e dello Svilupppo (“Dobbiamo chiarire le virtù medicali della pianta prima di considerare l’esportazione, l’utilizzo nell’industria farmaceutica e il modo di attirare investimenti dall’estero”).

La regione del Rif, dove è concentrata la produzione di cannabis, riporta i tassi di povertà più elevati di tutto il reame. La maggior parte della popolazione è berbera e sopporta con fastidio il governo di Rabat. Per molti di loro la produzione di cannabis è la sola fonte di sostentamento disponibile. Per molti turisti, un modo per vivere le incredibili atmosfere magrebine con febbricitante intensità.


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