Aung San Suu Kyi è figlia del generale Aung San, eroe dell’indipendenza assassinato nel 1947. Cresce all’estero e sposa un professore universitario britannico, Michael Aris, dal quale avrà due figli. La sua vita procede tranquilla fino al 1988, anno in cui fa ritorno in Birmania per prendersi cura della madre. Là trova un paese in tumulto. Il popolo, oppresso dalla giunta militare, chiede più libertà e a lei, alla figlia dell’eroe dell’indipendenza, si rivolgono invocando il suo aiuto. Suu Kyi aveva allora 43 anni e la sua vita stava per cambiare radicalmente.
A capo della “Lega Nazionale per la Democrazia” - partito fondato nel settembre del 1988 - Suu Kyi diventa un modello di coraggio e resistenza per i giovani birmani. Il regime tenta più volte di distruggerla e appena un anno dopo la costringe agli arresti domiciliari. La reclusione durerà fino al 2010.
“Credo che alla fine ognuno di noi può decidere se essere libero o no dentro la propria mente - racconta la leader birmana - Chiunque rischia di finire in prigione, specialmente in un paese con un regime autoritario. Ma essere in prigione nella propria testa dipende solo da noi stessi. E io non mi sono mai considerata una prigioniera, ma piuttosto come qualcuno che segue la sua strada”.
La sua forza eccezionale guida oggi le nuove generazioni che possono finalmente sognare un Paese in cui studiare, lavorare e aver diritto alle cure, un Paese dove possono convivere le minoranze etniche cristiane e musulmane. Per lungo tempo la libertà di Suu Kyi è stata una chimera. Dopo anni di soggiorno obbligatorio è potuta tornare per parlare al suo popolo. Le politiche e le riforme portate avanti in nome di un governo democratico fanno da sfondo al reportage.
Maria Laura Lanzillo, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, introduce il documentario analizzando il modello di lotta pacifica per i diritti umani e la libertà di espressione portato avanti da Aung San Suu Kyi e il suo cammino verso la candidatura alle elezioni presidenziali del 2015.