E proprio di peccato si può parlare, non solo per i significati che la parola assume nel paese che ha dato i natali ad un filosofo come Kierkegard, ma anche per il modo con cui Nick e Martin si rapportano a quell'esperienza. Una responsabilità che i due si assumono pienamente e che si rivela nella vita punitiva che si sono costruiti. Il primo vivendo come un recluso nello spazio ristretto di una cameretta e frequentando derelitti come lui (compresa Sofie, la vicina di casa che gli regala saltuari diversivi sessuali), il secondo vedovo e tossicodipendente alle prese con un figlio da allevare ed uno stipendio derivato dallo spaccio della droga.
Prigioni della mente ma anche del corpo che rimandano continuamente ad un senso di paternità ambivalente, desiderato come il film lascia intravedere negli spaccati di vita dedicati alle scene di vita familiare tra Martin ed il figlio ed anche negli sguardi che Nick rivolge al bambino di Sofie (anche qui siamo in presenza di un matrimoni fallito e di un infanzia rubata), oppure rifiutata per la consapevolezza di non esserne all'altezza come accande appunto a Martin attraverso il gesto drammatico quanto liberatorio che da una svolta a quel legame imperfetto ed allo stesso tempo funziona come elemento salvifico per gli altri personaggi.
Lontano dal Dogma Vinterberg sembra l'artefice di un cinema più propenso a raccontare che a suggerire. Per fare questo il regista allontana la telecamera dai suoi protagonisti per inserirli in uno spazio concreto in cui il quotidiano nel suo indifferente divenire contribuisce non poco a costruire il senso di alienazione che pervade la vicenda. Componendo quadri di assoluta disperazione sullo sfondo di una città immersa nel gelo e nel grigiore di un inverno dai toni esistenziali il regista sembra farsi cantore di un umanità disperata che sembra la versione in nero di quella bukowkiana. Una fotografia prosciugata dei colori primari, certe inquadrature che rendono bene il senso di costrizione vissuto dai protagonisti (i mezzi primi piani di Nick ripresi dall'alto e che sembrano pesargli sulla faccia) sono gli altri segni di uno stile al servizio della storia.
Tratto da un opera letteraria, "Submarino" mostra qualcosa di nuovo dal punto di vista formale ma ci dice forse che il regista danese è pronto a cercare altre strade, onde evitare di ripetersi in tematiche già trattate e su cui questo film ritorna con poche variazioni.
Tenendo presente l'immagine iniziale con i bambini sotto il lenzuolo oppure ripensando ai primi piani degli stessi con la faccia divorata dal buio, si potrebbe dire che "Submarino" nel suo riferirsi ad un mondo sotterraneo rappresenta un titolo azzeccato nel trasporre in senso figurato il pieno ed il vuoto della storia, la condizione di isolamento ed allo stesso tempo la voglia di essere insieme dei personaggi, indipendentemente dal modello familiare e nonostante i non detti dei loro silenzi. (pubblicata su ondacinema.it)