Suburra

Creato il 31 ottobre 2015 da Af68 @AntonioFalcone1

Adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo scritto da Giancarlo di Cataldo e Carlo Bonini (Einaudi, 2013), anche collaboratori alla sceneggiatura opera di Sandro Petraglia e Stefano Rulli, Suburra, diretto da Stefano Sollima, è, ad avviso di chi scrive, un riuscito ed agghiacciante noir, dalla narrazione tesa ed avvincente, i cui meriti sono da rinvenire in primo luogo nel solido mestiere registico espresso dal suo autore e secondariamente nel riferimento, fedele o meno, alle note vicende di malaffare che affliggono la Capitale. Per quanto gli eventi oggetto del racconto siano circostanziati in un arco temporale ben definito (dal 5 al 12 novembre 2011), il grande merito di Sollima, assecondando la scelta espressa in fase di scrittura volta ad eliminare la controparte “buona” del testo originario (il tenente colonnello Marco Malatesta) è quello di aver allestito una messa in scena tanto suggestiva quanto efficacemente simbolica, idonea a mettere in luce, attraverso la rivalorizzazione del genere cinematografico, la triste, angosciante, contemporaneità di un mondo dove i confini espressi dalla consueta dicotomia Bene/Male sono ormai stati superati da tempo.

Pierfrancesco Favino

L’indistinta commistione fra le due entità, ha comportato poi un’ulteriore conseguenza, ovvero la possibilità dell’elemento malvagio di assumere inedite manifestazioni, per certi versi ancora più sinistre. Le varie declinazioni del potere, oltre ad essere appannaggio di quanti tradizionalmente lo hanno esercitato, con modalità sempre più perfezionate, si sono infatti insinuate in soggetti intesi a servirsene per dare corpo e sostanza ad una lucida visione di un mondo a proprio uso e consumo, con piani per lo più estemporanei, da realizzare in base all’istinto, seguendo l’aria che tira. Quel limes proprio dell’antica Roma fra l’Urbe e la zona della Suburra, quartiere dei lupanari e popolato da gente dedita ad ogni genere di malaffare, oltre che frequentato da persone di alto lignaggio o ricoprenti cariche rappresentative, alla ricerca di sordidi piaceri o manovalanza buona ad eseguire lavori per cui non conveniva sporcarsi le mani, ormai non esiste più, ha lasciato il posto ad un omologante degrado che avvolge tutto e tutti, come la pioggia torrenziale che fin dall’inizio del film vediamo bagnare incessantemente la città.

Alessandrro Borghi e Claudio Amendola

Lungi dall’apportare la Provvidenza di manzoniana memoria, l’acqua mandata dal cielo intasa i tombini e ne fa saltare le coperture, facendo fuoriuscire ogni putridume, come l’apertura dei sigilli ne l’Apocalisse di Giovanni, sette, lo stesso numero dei giorni che precedono il sopraggiungere dell’Armageddon, il 12 novembre 2011.
Sollima introduce con soppesata teatralità la narrazione, fa sì che la macchina da presa, prediligendo fin da subito i campi lunghi, s’insinui nei vari ambienti, offrendo rilevanza ad ogni particolare idoneo a rendere intuibile la loro connotazione, così come ai singoli gesti dei tanti soggetti protagonisti.
Entriamo in Vaticano, nell’alloggio papale, il vicario di Cristo è assorto in preghiera e confida qualcosa all’orecchio del suo segretario, turbandone l’apparente impassibilità. Ecco un rapido sguardo ad un altro centro di potere, una seduta del Parlamento particolarmente movimentata, che vede impegnato, fra gli altri, l’onorevole Malgradi (Pierfrancesco Favino).

Elio Germano

Ma il potere non si esprime solo nei luoghi canonici: all’interno di un elegante locale tale Samurai (Claudio Amendola), ultimo componente della tristemente nota Banda della Magliana, rifiuta con gelida arroganza l’ingresso del vecchio amico Bacarozzo (Nazzareno Bomba), appena uscito di galera, nel suo giro d’affari. Sul litorale romano, ad Ostia, si manifesta la feroce violenza scatenata dal giovane Numero 8 (Alessandro Borghi) e dai suoi accoliti, fra i quali Viola (Greta Scarano), la compagna. Hanno dato alle fiamme uno stabile e ridotto in fin di vita il proprietario, così da indurlo al più presto alla cessione del terreno. Vi è poi Sebastiano (Elio Germano) che, ingenuamente, pensa di avere Roma ai suoi piedi solo perché organizza sguaiate feste destinate alla “gente che conta”, con la quale intrattiene “pubbliche relazioni” nella propria villa illuminata come e più di un paese intento a festeggiare il santo patrono.
Sabrina (Giulia Elettra Gorietti), una vivace escort, ritiene di avere alla sua mercé il citato onorevole Malgradi, data l’abituale fornitura di sesso, droga e qualsivoglia sfizio generato dalla mai doma protervia dell’illustre politico, vedi l’attuale delirante festino in compagnia di una collega, minorenne.

Giulia Elettra Gorietti e Adamo Dionisi

La morte di quest’ultima nel corso della notte, causa un tiro fatale di cocaina, farà sì che Sabrina richieda l’intervento del suo amico Spadino (Giacomo Ferrara), fratello di Manfredi Anacleti (Adamo Dionisi), a capo di una potente organizzazione criminale all’interno della comunità Rom, in modo da far scomparire il cadavere…
E non è che l’apertura del primo sigillo, altri eventi si concateneranno l’un l’altro, tutti collegati comunque alla spartizione di un lucroso affare, Waterfront, la realizzazione di una novella Atlantic City sul litorale di Ostia …
Coadiuvato da un efficace montaggio (Patrizio Marone) idoneo a visualizzare il parallelismo fra più accadimenti e da una fotografia (Paolo Carnera) carica di una sinistra luminosità, ideale contorno all’ambiguo pantano morale in cui si trovano immersi i vari protagonisti, senza dimenticare l’incedere dello straniante motivo sonoro, Sollima sublima un’ideale conciliazione fra realismo (l’apertura iniziale con il susseguirsi dei vari eventi, la splendida sequenza del dialogo fra Sebastiano e suo padre, Antonello Fassari in stato di grazia) e senso dello spettacolo (la sparatoria al supermercato, con la macchina da presa a farsi un tutt’uno con la concitazione del momento, dove killer improvvisati seminano il panico sparando all’impazzata fra la folla ed inseguono la vittima come cani inferociti).

Greta Scarano

Le inquadrature sezionano ogni ambiente con perizia antropologica, basti pensare alla villa degli Anacleti, luccicante di marmo e oro nell’ostentazione di una pacchiana ricchezza, ma nella sostanza, vista la baraonda al suo interno, nient’altro che un lussuoso accampamento. Ulteriore e non trascurabile apporto, anche considerando la coralità del racconto, le vivide interpretazioni offerte dall’intero cast, a partire dalla gelida compostezza di Favino nei panni del politico Malgradi, non estraneo comunque a plateali manifestazioni di arroganza sia quando esercita il suo potere sia quando è sul punto di perderlo, nella sicumera di un gattopardiano riciclo. Ecco poi l’altrettanto glaciale risolutezza del Samurai/Amendola, reduce che ha adattato pragmaticamente l’ideologia di un tempo al “nuovo che avanza”. Difficile anche dimenticare la plateale cafonaggine mista a tribale violenza propria di Manfredi/Dionisi o lo sguardo allucinato, del tutto perso nel miraggio della costruzione della nuova Ostia, di Numero 8/ Borghi, anche se a rimanerti impresse, almeno come personale sensazione, sono le figure di Sabrina /Gorietti, che per quanto scafata “donna di vita” non sembra estranea ad un’ombra d’ingenuità, il patetico Sebastiano /Germano, espressione di una normalità compressa fra la straordinarietà delle vicende in cui si troverà coinvolto e, soprattutto, Viola/Scarano, tormentata tossica con barlumi di lucidità.

Stefano Sollima

Trattasi di personaggi cui credo ben si adatti il noto verso della canzone di Fabrizio De Andrè (La città vecchia), “se non son gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. D’altronde è agli ultimi due in particolare che viene affidata l’espressività metaforica propria del finale, anche a costo di qualche cedimento, a livello di sceneggiatura più che registico, dove alle dimissioni del Papa e del presidente del consiglio si aggiungono, ecco l’Apocalisse, quelle manifestate dall’essere umano in quanto tale.
Abbandonata l’arrendevolezza verso ogni sopruso, una volta trascinati nella fanghiglia della solitudine propria di ogni negazione morale, dovuta alla cancellazione di tutti i valori di riferimento, anche, se non soprattutto, istituzionali, la violenza si presenta come l’unico mezzo a disposizione per riacquistare una propria identità e liberarsi dalle catene della generale omologazione. Si fa avanti allora la nostra metà oscura a condurci verso una definitiva discesa agli inferi volta a cancellare dalla faccia della Terra quanti hanno infierito sulla nostra vita e quella dei nostri cari.

Un personale regolamento di conti alla ricerca di un disperato senso di giustizia, senza vincitori né vinti, un riscatto a proprio uso e consumo non certo idoneo a lasciare un messaggio di speranza per un mondo migliore, trasformandosi in uno strozzato grido di dolore, forse l’ultimo, come quello di Cristo morente inchiodato al legno, rivolto ad un’umanità ormai del tutto sospesa e smarrita. In conclusione, Sollima con Suburra ha certo raccolto l’eredità del padre Sergio, alla cui memoria il film è dedicato, omaggiando quindi una modalità di fare cinema basata anche sullo sfruttamento dei generi, dalla fascinazione ingenua e sanamente popolare, frutto di geniali e spesso felici intuizioni. Allo stesso tempo, però, se ne è in certo qual modo distanziato, nell’intento, riuscito a mio avviso, di adattare il genere ad una visione del tutto personale, perseguita con costanza e determinazione fin dagli esordi, forse accondiscendente verso un’esibita platealità ma del tutto idonea, riprendendo in conclusione quanto scritto nel corso dell’articolo, a conciliare un incisivo e determinante sguardo sulla realtà con un concreto afflato spettacolare.

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