Piero Barucci – Istituzioni e crescita. Il problema del Mezzogiorno oggi
Da qualche anno Piero Barucci è tornato a riflettere sul Mezzogiorno.[1] Nel suo ultimo saggio, di grande interesse,[2] egli avverte che l’analisi economica, da sola, non basta per capire le cause dello sviluppo o del mancato sviluppo. Infatti le condizioni necessarie per lo sviluppo, di cui si è tanto scritto, sono di fatto “un numero illimitato”, e non sono solo economiche. Esse quindi vanno esaminate, non in astratto, ma nel contesto storico specifico.
Questo approccio mette in evidenza la forza della path-dependence (dipendenza da cause remote) e dei fattori culturali e istituzionali. Innanzitutto, dice Barucci, per la crescita è necessario potenziare il commercio con l’estero. Inoltre lo sviluppo attraverso la sostituzione delle importazioni è fallito (ma direi che in Africa e in America Latina fallì per il boicottaggio dell’Occidente). Infine un intervento pubblico durevole per promuovere lo sviluppo produce effetti perversi, perché genera posizioni di rendita e “una contaminazione perniciosa con la classe politica” (p. 24).
Tutto questo spiega perché le politiche applicate di volta in volta al Sud d’Italia – big-push (un forte slancio iniziale), poli industriali, industrializzazione dell’agricoltura, programmazione regionale, distretti – hanno dato risultati modesti; e perché i tempi dello sviluppo del Sud sono molto più lunghi di quanto si credeva negli anni Settanta. Più forte di quelle politiche è stata l’ “intermediazione impropria”, cioè la rete di rapporti amicali, familistici, clientelari che deforma il mercato, e trasforma i profitti in rendite. Questa deformazione ha creato una vera cultura dell’illegalità, che impedisce il formarsi della mentalità imprenditoriale e della libera concorrenza.[3] E’ un’estensione abnorme delle rendite, come “remunerazione per un ruolo” (p. 38), che si aggiunge ai normali ruoli del mercato. Essa rende anelastica l’offerta e abbassa la produttività.
In questi processi degenerativi il nodo centrale sono le istituzioni; quelle formali, giuridicamente sancite, e quelle informali del costume. Nelle prime spesso si mescolano impropriamente amministrazione e politica. Le seconde spesso contrastano gli eventuali sforzi di modernizzazione fatti dalle prime. Qui l’autore espone con grande efficacia quello che chiamerei il circolo vizioso della democrazia degenerata: se la politica – anziché correggere – aiuta la degenerazione del mercato, se si arriva al voto di scambio come prassi usuale (in cui il cittadino si aspetta favori personali in cambio del proprio giudizio “politico”), che speranza c’è di avere uno sviluppo attraverso l’allargamento della democrazia e della partecipazione? Come si fa a realizzare l’idea di Barucci, che “un uso razionale ed efficiente delle risorse è parte dei doveri democratici di ognuno di noi” (p. 49)?
Questo è il vero nodo oggi, come dimostrano l’esplosione della corruzione politica e il fallimento delle autonomie locali. In realtà non credo che la capacità di decisione democratica debba espandersi sempre ai livelli più bassi (a scapito degli organi centrali di decisione). Oggi nel Sud c’è bisogno del contrario. Bisogna rafforzare la capacità di decisione degli organi centrali e ridurre quella degli organi locali. Proprio come si dovrebbe fare in Europa; dove, per avere meccanismi di decisione più democratici, bisogna oggi depotenziare alcune prerogative nazionali.
Non c’è bisogno di forzature autoritarie. Basta stabilire regole (le regole che una buona parte dei meridionali si ostina a non rispettare ad ogni livello) che rendano difficili le transazioni opache del mercato degenerato. Ad esempio, obbligando gli enti locali ad uniformarsi ai prezzi più bassi negli acquisti, ai termini di tempo fissati negli adempimenti, alle sanzioni per le inadempienze amministrative, ecc.
Un altro principio da far valere è la responsabilità delle amministrazioni pubbliche. L’attuale irresponsabilità di fatto della P.A. è una cosa poco civile, che nel Sud gioca un ruolo esiziale contro lo sviluppo. Ancor più incivile è la mancanza di ogni controllo di produttività su qualsiasi struttura pubblica (i sindacati di categoria vi si oppongono da sempre con ferocia), e del relativo sistema di incentivi e sanzioni.
Alcuni possono trovare poco democratiche queste richieste. Ebbene, è il contrario. L’indicazione di Barucci mi sembra questa: se lo sviluppo ha bisogno della democrazia, la democrazia – per funzionare – ha bisogno di regole che siano rispettate.
[1] E’ noto il suo Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno: la politica economica in Italia dal 1943 al 1955, Il Mulino, 1978.
[2] Istituzioni e crescita. Il problema del Mezzogiorno oggi, Ist. Ital. di Studi Filosofici, Napoli, ott. 2011, con prefaz. di Manuela Mosca.
[3] Sulle radici di questa cultura perversa, v. le analisi di C. Perrotta e C. Sunna (cura) L’arretratezza del Mezzogiorno, Bruno Mondadori 2012.