Arrivando in aereo, il Sud Sudan sembra un'immenso campo da golf: una distesa verde, con qualche albero, dei piccoli corsi d'acqua e anche i bunker di sabbia o terra. Ancora prima che i pneumatici dell'Embraer 170 della Kenya airlines tocchino l'asfalto della pista d'atterraggio, appare chiaro che il Grande Circo Umanitario è arrivato al gran completo. Parcheggiati uno dopo l'altro, ci sono alcuni elicotteri con la scritta UN, seguiti da decine di aerei di organizzazioni internazionali e ONG: PAM, ICRC, Save the Children, etc... L'aeropoto è un piccolo edificio caotico, in cui la parvenza di sicurezza (le valigie sono ispezionate a mano, una per una) lascia spazio alla cultura del potere. Ed è così che vengo prelevato in mezzo ai viaggiatori del mio volo per essere portato alla sala VIP: grandi divani in similpelle e aria condizionata. Non importa quanto povero o quanto giovane possa essere uno stato, la sala VIP non può mai mancare. Fuori dall'aeroporto si entra automaticamente in un ingorgo di jeep e pick up 4x4. In genere più uno stato africano è povero, meno macchine circolano. Per esempio ad Asmara o Bujumbura, i semafori sono presenze totalmente pletoriche, mentre le capitali degli stati più "sviluppati" come il Ghana, il Kenya o la Nigeria, vivono al ritmo di polmoni malati di smog. Juba, la capitale del Sud Sudan, lo stato appena nato (un anno d'età), fa eccezione. La ragione di tanto traffico è un'economia drogata di aiuti internazionali, mischiata ad un ritorno massivo della diaspora, che si è portata dietro i soldi accumulati negli ultimi anni. Ed è così che, invece di ritrovarmi circondato da capre e galline, finisco in un bar per espatriati in cui si inscena nientemeno che una sfilata di moda sponsorizzata da "She", il magazine femminile di Juba, che ha poco da invidiare a Vanity Fair (anche l'articolo sulla povertà femminile africana sembra scritto da chi vive a Manhattan piuttosto che dietro l'angolo). Vivo questi "ritorni alle origini" con un misto di nostalgia e sollievo. Nostalgia perché, alla fine, il mondo umanitario fa parte della mia vita e la comunanza di interessi e di vissuto con la gente che lo popola è molto grande (provo ancora piacere con le piccole gioie della vita da extraterrestre anche se le guardo con un sorriso). Sollievo perché quando tornerò a Zurigo potrò andare a vedere un film in un cinema vero, oppure andare ad un concerto, oppure passare il week end in montagna (e tutto questo senza sentirmi né privilegiato né in colpa). La conversazione con l'operatrice di IRC (International Refugee Committee) sui problemi legati alla ricollocazione della popolazione che viveva in Sudan verso il mezzo del nulla (la zona centrale del Sud Sudan dove lei vive senza elettricità né acqua corrente) è molto interessante. Ma più che i programmi e i progetti, quello che mi colpisce è la frustrazione della ragazza e quella stanchezza devastante che ti fa chidere ogni giorno: "Niente sta funzionando. Ma chi me l'ha fatto fare?"
Arrivando in aereo, il Sud Sudan sembra un'immenso campo da golf: una distesa verde, con qualche albero, dei piccoli corsi d'acqua e anche i bunker di sabbia o terra. Ancora prima che i pneumatici dell'Embraer 170 della Kenya airlines tocchino l'asfalto della pista d'atterraggio, appare chiaro che il Grande Circo Umanitario è arrivato al gran completo. Parcheggiati uno dopo l'altro, ci sono alcuni elicotteri con la scritta UN, seguiti da decine di aerei di organizzazioni internazionali e ONG: PAM, ICRC, Save the Children, etc... L'aeropoto è un piccolo edificio caotico, in cui la parvenza di sicurezza (le valigie sono ispezionate a mano, una per una) lascia spazio alla cultura del potere. Ed è così che vengo prelevato in mezzo ai viaggiatori del mio volo per essere portato alla sala VIP: grandi divani in similpelle e aria condizionata. Non importa quanto povero o quanto giovane possa essere uno stato, la sala VIP non può mai mancare. Fuori dall'aeroporto si entra automaticamente in un ingorgo di jeep e pick up 4x4. In genere più uno stato africano è povero, meno macchine circolano. Per esempio ad Asmara o Bujumbura, i semafori sono presenze totalmente pletoriche, mentre le capitali degli stati più "sviluppati" come il Ghana, il Kenya o la Nigeria, vivono al ritmo di polmoni malati di smog. Juba, la capitale del Sud Sudan, lo stato appena nato (un anno d'età), fa eccezione. La ragione di tanto traffico è un'economia drogata di aiuti internazionali, mischiata ad un ritorno massivo della diaspora, che si è portata dietro i soldi accumulati negli ultimi anni. Ed è così che, invece di ritrovarmi circondato da capre e galline, finisco in un bar per espatriati in cui si inscena nientemeno che una sfilata di moda sponsorizzata da "She", il magazine femminile di Juba, che ha poco da invidiare a Vanity Fair (anche l'articolo sulla povertà femminile africana sembra scritto da chi vive a Manhattan piuttosto che dietro l'angolo). Vivo questi "ritorni alle origini" con un misto di nostalgia e sollievo. Nostalgia perché, alla fine, il mondo umanitario fa parte della mia vita e la comunanza di interessi e di vissuto con la gente che lo popola è molto grande (provo ancora piacere con le piccole gioie della vita da extraterrestre anche se le guardo con un sorriso). Sollievo perché quando tornerò a Zurigo potrò andare a vedere un film in un cinema vero, oppure andare ad un concerto, oppure passare il week end in montagna (e tutto questo senza sentirmi né privilegiato né in colpa). La conversazione con l'operatrice di IRC (International Refugee Committee) sui problemi legati alla ricollocazione della popolazione che viveva in Sudan verso il mezzo del nulla (la zona centrale del Sud Sudan dove lei vive senza elettricità né acqua corrente) è molto interessante. Ma più che i programmi e i progetti, quello che mi colpisce è la frustrazione della ragazza e quella stanchezza devastante che ti fa chidere ogni giorno: "Niente sta funzionando. Ma chi me l'ha fatto fare?"
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