Sudafrica, cosa (non) è cambiato dalla fine dell’apartheid

Creato il 15 gennaio 2014 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Nelson Mandela è scomparso il 5 dicembre. Oggi, concluse le esequie, il cordoglio lascia spazio alla riflessione. Com’è cambiato il Sudafrica del post apartheid? La transizione democratica può dirsi riuscita? E quale eredità ha lasciato, Madiba, al di là della leggenda? Una risposta a queste domande l’abbiamo avuta non più tardi di 15 mesi qua, quando l’eccidio dei minatori di Marikana ha aperto gli occhi al mondo sulle precarie condizioni in cui i neri del Sudafrica permangono a vent’anni dalla nascita della democrazia. E che è solo la punta dell’iceberg di un malcontento più diffuso.

Partiamo da un fatto. Le elezioni sudafricane del 1994, le prime aperte e multirazziali nella storia del Paese e di cui nel marzo prossimo si celebrerà il ventennale, sono tuttora considerate uno dei momenti salienti dell’ondata di democratizzazione che ha caratterizzato l’ultimo scorcio del secolo scorso. A partire da quell’evento il Sudafrica è potuto uscire dall’isolamento politico in cui era stato confinato dai consessi internazionali a causa della politica di segregazione razziale. Oggi il Paese che Mandela ha contribuito a costruire è dotato di una Costituzione (nata nel 1996), di un collaudato sistema parlamentare, di servizi di base, di scuola e sanità. Nel 2005 è entrato come membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu e nel 2010, per volontà della Cina ha fatto ingresso nel convivio dei Brics, certificando così il suo status di potenza mondiale in ascesa.

E’ infatti sul piano economico che i Sudafrica testimonia la sua vitalità rispetto al resto di un Continente nero (mai troppo) emergente. Il Sud Africa è il Paese più sviluppato del continente africano (produce il 33% del PIL dell’Africa Sub-sahariana, i tre quarti del PIL dell’area SADC ed è attualmente il 26° Paese per PIL al mondo), la cui economia è caratterizzata dall’elevato sviluppo di industria e terziario che può contare su notevoli risorse minerarie e dove trovano spazio anche le Pmi. La borsa di Hohannesbur è diciassettesima al mondo per capitalizzazione (per fare un confronto, Milano  23esima).

Non è tutto oro ciò che luccica

Tuttavia i dati macroeconomici nascondono una realtà interna molto meno rosea, che fanno del Sudafrica una sorta di miracolo mancato. Nel primo decennio di democrazia, il PL è cresciuto in media del 2,9% annuo. Può sembrare tanto per noi europei, visto che la crisi ci ha abituato a percentuali da prefisso, ma si tratta in realtà di un risultato modesto. Se pensiamo che nello stesso periodo l’incremento demografico è quasi stato pari a quello dell’economia (+2% all’anno), ne consegue che il reddito pro capite è pressoché rimasto immutato. In secondo luogo, la crescita non è bastata a garantire un lavoro a gran parte della popolazione. Il tasso di disoccupazione sfiora oggi il 25%, livello che raddoppia (48%) se ci si focalizza sui giovani sotto i 34 anni. Per avere un raffronto, nell’Africa subsahariana la disoccupazione giovanile è al 12% e nel Maghreb travolto dalla Primavera araba al 24. E la maggior parte dei disoccupati ha ovviamente la pelle scura. Secondo la Banca centrale sudafricana, per assorbire tutta la forza lavoro disponibile l’economia dovrebbe crescere al ritmo del 7% annuo; invece le previsioni parlano di un incremento di appena il 2% – a fronte del 2,7% previsto solo un anno fa - per il 2013, del 2,8% nel 2014 e del 3,2% nel 2015. Inoltre, se mettiamo al confronto il Pil con l‘Indice di sviluppo umano, dove Pretoria si piazza al 93° posto in una classifica di 182 Paesi, appare evidente come il Sudafrica sia il secondo Paese più ineguale al mondo, dopo la vicina Namibia.

Ufficialmente la povertà è diminuita dal 52,5% della popolazione nel 1995 al 47% dieci anni dopo, e la fetta di popolazione sudafricana che vive con meno di due dollari al giorno è calata di sette punti percentuali,  dal 12% al 5%. Ma se andiamo ad esaminare l’andamento dell’indice di Gini (che misura la distribuzione del reddito all’interno di un Paese), scopriamo che questo è salito dallo 0,63 del 2000 allo 0,69 del 2005: in altre parole, la disuguaglianza è aumentata. Oggi il 10% più ricco della popolazione detiene il 51% della ricchezza nazionale, mentre il 10% più povero solo lo 0,2%. Il rapporto medio tra i redditi dei rispettivi gruppi è abissale: 255 a 1. Tradotto in altri termini, in Sudafrica Primo e Terzo Mondo convivono l’uno a fianco all’altro. Questo a conferma che l’alto piazzamento di un Paese nelle graduatorie finanziarie internazionali non comporta, per ciò solo, un automatico miglioramento del benessere dei suoi cittadini.

La presa d’atto che a vent’anni dalla fine dell’apartheid la maggioranza nera è ancora sostanzialmente esclusa dalla vita economica del Paese ha indotto il governo a lanciare il Black Economic Empowerment, una strategia mirante a far sì che la composizione etnica della forza lavoro in tutte le istituzioni, private e pubbliche, rifletta l’assetto demografico della popolazione sudafricana, aumentando così la partecipazione della popolazione nera nell’economia. Ma se nel settore pubblico (con la guida del Paese saldamente nelle mani dell’African National Congress, il partito in cui milità Mandela) la composizione della forza lavoro si avvia pian piano a rispecchiare quella società sudafricana, nel settore privato i bianchi predominano ancora sulle minoranze e sulle donne. E non sono mancate critiche secondo le quali a beneficiare del programma sia stata soprattutto l’élite (bianca e nera) vicina al partito di governo, definendo il BEE addirittura una corruzione legalizzata.

Dalla dittatura della minoranza bianca…

Qui si apre il capitolo della politica. Dal 1994 il Sudafrica è retto da un partito, l’Anc appunto, espressione della maggioranza nera e dominatore incontrastato delle ultime tornate elettorali (69% dei voti nel 2009). Un partito che fuori appare come un monolite, ma che al suo interno è frammentato tra capi e gruppi etnico-clientelari al punto da sembrare talvolta sull’orlo dell’implosione , e che in ogni caso rischia di trasformarsi in partito-Stato per assenza di alternative. Ciò non deve stupire se pensiamo che negli oltre cento anni di storia del Sudafrica indipendente (affrancatosi dalla dominazione inglese nel 1910), Pretoria è stata di fatto governato da tre partiti in tutto, le cui parabole descrivono altrettante fasi della biografia essenziale della nazione: il South African Party (dal 1910 al 1948, spesso in coalizione con lo Union Party); il National Party, formazione che faceva capo essenzialmente agli afrikaner e responsabile della radicalizzazione delle politiche di segregazione (dal 1948 al 1994); e infine dall’African National Congress. Pur essendo il Sudafrica uno Stato democratico, non sfugge che i partiti in questione hanno esercitato un’egemonia ben più ampia rispetto a quanto accade nelle altre democrazie liberali.

Di fatto, la svolta che ha portato all’ascesa dell’Anc da movimento fuorilegge a partito di governo è partita dall’esterno. Se l’isolamento internazionale aveva indotto il Sudafrica a promuovere una politica di nazionalismo economico, il mutamento dello scenario globale a partire dagli anni Settanta e Ottanta stava rendendo questa soluzione non più praticabile. Il cosiddetto Washington consensus,  la cui ortodossia prevedeva la libera circolazione di merci e capitali, rappresentava una sfida per la minoranza bianca in capo a Pretoria. In questo contesto, le esigenze di crescita e la necessità di attrarre investimenti esteri richiedevano un’apertura verso istituzioni e pratiche democratiche. Nel contempo, il trend demografico stava spingendo la popolazione bianca sotto la soglia del 20% (che avrebbe toccato nel 2000), il che rappresentava un serio problema per la stabilità del regime. Fu così, secondo l’interpretazione corrente, che gli afrikaner, rassegnati all’impossibilità di salvare il regime, decisero di cedere il potere prima di essere sconfitti.

L’accordo Mandela – De Klerk fu un atto grandioso. Ai suoi protagonisti valse il Nobel per la Pace, e ai sudafricani la speranza di una nuova era. Per la sua scelta di favorire una transizione democratica negoziata, Frederik De Klerk venne ribattezzato il “Gorbaciov sudafricano”. In effetti, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica e l’ultimo presidente sovietico qualcosa in comune ce l’hanno davvero, a parte il fatto di essere entrambi nati in marzo e che nessuno dei due è fuggito dalla rispettiva nazione (avrebbero entrambi potuto, vista la consistenza dei loro conti segreti in Svizzera) con l’avvento della democrazia. Due anni fa il New Times dedicò ai due un articolo dal significativo titolo “Come perdere un Paese con garbo“, definendoli vincitori nelle rispettive sconfitte. Non sapremo mai quali fossero i rispettivi retropensieri nell’atto di ammainare il vessillo ciascuno del proprio regime, e almeno nel caso sudafricano si è supposto che al National Party sarebbe bastata una dura repressione Tienanmen style per mantenere il potere ancora per un decennio, ma probabilmente questo avrebbe indotto De Klerk e il suo governo a sopravvivere in un perenne stato d’assedio. La scelta del presidente fu allora quella di accettare la scommessa di Mandela, partecipando alla fondazione di un Paese dove bianchi e neri potessero convivere da uomini liberi e non più da schiavi e padroni, e la Storia (almeno nelle nostre lande) gliene ha reso merito.

...a quella della maggioranza nera

A vent’anni da quello storico compromesso, la storia del Sudafrica non può certo dirsi a lieto fine. Indubbiamente, l’Anc ha garantito stabilità politica al Paese, evitando quasi sempre l’uso di mezzi non democratici (Marikana a parte) per il raggiungimento dei propri obiettivi, compresa l’imposizione di programmi economici impopolari ma necessari. Ma il divario esistente tra ricchi (quasi tutti bianchi) e i poveri (quasi tutti neri) testimonia che  oggi, smaltita la sbornia post apartheid il Sudafrica sta pian piano che la razza continua in buona misura a determinare la condizione sociale dei suoi cittadini. Per non parlare della corruzione, cancro tipico di tutti i Paesi nel cui governo c’è scarsa o nessuna alternanza, che continua a drenare risorse statali. Secondo Transaprency, ancora nel 2012 oltre il 47% dei sudafricani – secondo uno studio di Transparency International reso pubblico a luglio – ha dovuto pagare tangenti per accedere a servizi essenziali. Una piaga divenuta prassi e che l’Anc, secondo osservatori interni, ha coscientemente favorito.

La transizione democratica avrà pur consentito il passaggio di consegne alla maggioranza nera, ma il progetto di una società matura ed egualitaria sembra comunque aver fallito. Se l’azione di Mandela e De Klerk aveva cancellato la forma politica della segregazione razziale, le sue radici psicologiche e le determinanti sociali sono rimaste intatte, nascoste dalla svolta democratica del 1994 come una velenosa polvere rimossa sotto un tappeto che la cronaca provvede ciclicamente a rialzare. Pensiamo all’omicidio di Eugène Terre’Blanche, sostenitore dell’apartheid e leader dell’estrema destra boera, avvenuto il 3 aprile 2010, a pochi mesi dai mondiali di calcio organizzati proprio in Sudafrica. Terre’Blanche, al netto dei dettami apertamente razzisti e inegualitari, era di fatto il portavoce di una frustrazione da tempo serpeggiante nella galassia bianca, specie afrikaner, più volte sul punto di sfociare verso l’estremismo. Certo, l’Anc vanta anche un significativo parco di elettori bianchi, ma in pochi anni sono stati oltre un milione quelli che hanno abbandonato il Paese, destinazione America o Europa. Fra i restanti, molti si chiedono se prima o poi non toccherà anche a loro fare le valigie.

La conclusione è che l’Anc non è stato all’altezza della sua missione. Di questo avviso è la scrittrice Nadine Gordimer, Premio Nobel per la Letteratura e grande amica del defunto Madiba, secondo cui gli eredi di Mandela non solo non stati all’altezza di quello che a tutti gli effetti è considerato il Padre della Patria, ma ne hanno addirittura tradito il sogno. Ed è questo, prosegue la scrittrice, il fallimento più cocente. Forse il sogno di Mandela era troppo ambizioso. O forse, come pensa Gordimer, i suoi eredi sono troppo poco ambiziosi, o troppo poco onesti. O più probabilmente, è ancora presto per vedere i frutti di quella grande visione che Madiba ha inseguito per tutta la vita e che oggi fatica a sopravvivergli.

* Articolo originariamente comparso su The Fielder