Sui Lungomai di Livorno* (Una recensione al libro di Simone Lenzi)
Premesse
Vorrei fare subito un paio di premesse. Quella che segue non è, dal punto di vista tecnico, una recensione. Non ho mai sognato – come racconta Simone Lenzi – il secondo Wittgenstein che accosta la macchina al marciapiede di Corso Amedeo, abbassa il finestrino e mi chiede come fare per arrivare in Piazza Magenta (Sul Lungomai di Livorno, Laterza 2013, pag. 41). Però del cosiddetto secondo Wittgenstein mi pare di ricordare un pensiero, contenuto nelle sue Vermischte Bemerkungen, che all’incirca, vado a memoria, fa così: “Ogni confessione deve fare parte di una nuova vita”. Una volta io stesso scrissi, continuo a fidarmi della mia memoria, che “bisognerebbe sempre scrivere come se stessimo tirando una riga sotto il nostro passato” (era l’inizio della mia inutile tesi di laurea, inutile soprattutto per quanto riguarda l’efficacia di quella riga: il passato continuerà in qualche modo sempre a precederci). Siccome però tutto funziona sempre a metà, allora ecco qui una “mezza recensione” e una “mezza confessione”, arrivato più o meno alla mia Hälfte des Lebens (presumo sia peraltro già ben più della metà) tra righe tirate e subito cancellate. E la seconda premessa è proprio questa: il libro di cui parlerò avrei voluto scriverlo io. Lo confesso con una punta d’invidia. Ma siccome l’avrei scritto peggio – anzi, anche se avessi cominciato a scriverlo è molto probabile che non l’avrei neppure finito –, sono contento che l’abbia scritto Lenzi. E soprattutto sono molto contento che l’abbia scritto così.
Contromano
Prima di entrare nei dettagli, due parole sulla collana. L’idea di fondo la ricavo da questo articolo: “Partire da uno sguardo particolare per descrivere i cambiamenti della contemporaneità, senza porsi limiti, e coinvolgendo autori, in gran parte italiani, bravi a raccontare in modo fresco e spesso autobiografico o pseudo tale questi anni non semplici da codificare”. Ora, è un tratto peculiare della collana che molti dei suoi titoli siano dedicati a cogliere l’anima di luoghi o città (Parigi, Massa e Carrara, il Salento, la Romagna, l’Alto Adige… cito solo gli ultimi volumi usciti) filtrata dagli occhi di chi la osserva. È insomma come se l’ambientazione delle storie autobiografiche narrate dai vari autori non fornisse solo lo “sfondo”, ma entrasse da protagonista sulla scena insieme all’autore e al “tempo”, la diffusa dimensione temporale in cui stiamo vivendo, dando così vita a un fitto dialogo tra i tre diversi elementi e creando una loro reciproca illuminazione. Nel caso di Sul Lungomai di Livorno l’operazione è perfettamente riuscita.
Gli immobili e gli sprecati
Lenzi ha raccontato che il libro avrebbe dovuto chiamarsi “Immobili”, cioè abitazioni, ma anche fermi, privi di movimento, per certi versi addirittura paralizzati, come risultano gli abitanti della città colti nella loro essenza. In effetti le vicende narrate – in pratica tutto quello che si “sviluppa” entro due parentesi delle quali parlerò alla fine – s’intrecciano ai diversi luoghi vissuti dal protagonista con particolare intensità: all’inizio l’appartamento di via Magenta, o per meglio dire il “recinto dei cani” che ci sta di fronte; poi la seconda abitazione, al piano terreno di una casa in via Foscolo; infine la nuova dimora, in allestimento e dunque non ancora abitata, ubicata in prossimità della Terrazza Mascagni e quindi del mare, in via Meyer. Ma non solo immobili, gli abitanti, anche e soprattutto sprecati. Il secondo aggettivo spiega il primo. Ecco il passaggio chiave: “Ne ho conosciuti a decine di uomini e donne che avrebbero potuto fare qualcosa di più, e invece a un certo punto si sono fermati, e si sono rinchiusi da soli nel recinto dei cani o nel barrino sotto casa. Qualcosa li ha fermati. Qualcosa che si respira in questa città piena di vento, qualcosa che ti porta sempre indietro. Perché puoi anche diventare capocannoniere in serie A, ma poi devi tornare qui e farci i conti, e vai tranquillo che resterai fregato. Anzi, ti fregerai da solo, con le tue stesse mani. È difficile da spiegare” (pag. 32).
Il “complesso della provincia”
Ma non è vero che “è difficile da spiegare”. Una spiegazione c’è. Fra l’altro la dà – benissimo – l’autore del libro e la potrebbe dare ogni livornese che si sia confrontato appena col problema (un problema che tuttavia non tutti avvertono come tale, ma questo è un altro discorso). In fondo si tratta di quel “complesso della provincia” che di certo non è presente solo a Livorno. La frase che lo rivela si configura generalmente così: “A Livorno – o a X, trovate voi il luogo che preferite – non c’è niente”. Ora, anche questo niente è certamente relativo. Conosco tantissimi luoghi pieni di qualcosa, un qualcosa che però alla fine potrebbe essere interpretato parimenti come un niente (o che comunque in un niente si risolve). Il niente del quale qui si parla va quindi inteso piuttosto nel senso di una progressiva nientificazione delle possibilità, delle opportunità di realizzare la propria vita espandendo il cerchio delle esperienze o delle frequentazioni abituali. Dunque per fare qualcosa, per riuscire a combinare qualcosa, occorrerebbe forse abbandonare la provincia, la propria città di provincia e, possibilmente, non tornare più. Ma servirebbe?
Un atteggiamento più equilibrato
La risposta sembra implicita nella domanda, anche se va ricercata a un livello più profondo. Comunque è vero, no, non servirebbe. Così come rimane schiacciato dal “complesso della provincia” chi s’incatena al luogo d’origine, magari pensando sul serio che sia il luogo più bello del mondo, l’unico in cui si possono trovare le bimbe belle, i Quattro mori e il mare (pag. 82 e sgg.), vi rimane altrettanto impigliato anche chi, pur finito a migliaia di chilometri di distanza, si consuma in una forma di nostalgia regressiva, autocondannandosi a svalutare le nuove esperienze perché comparate sempre a quelle un tempo suscitate dalle possibilità “sprecate” nella terra di provenienza. (Nel libro si cita poi addirittura una “terza via”, per un livornese comunque decisamente ancora poco battuta, ed è quella di chi assume lo slang imprenditorial-aziendale e magari crede davvero che sia possibile uscire, semplicemente volendolo o perché qualcuno lo impone, dalla propria “zona di confort”, vale a dire dal cerchio delle proprie abitudini, senza diventare per questo un personaggio triste e soprattutto ridicolo). Insomma, per superare quel complesso non è necessario né andare via per sempre, né dichiarare guerra al luogo in cui si è nati continuando però ad abitarci e quindi a viverci male. L’atteggiamento più equilibrato – ed è un equilibrio che costa sicuramente fatica, perché impastato con ingredienti non solo diversi, ma palesemente contrastanti – è espresso con chiarezza in un passaggio che vale la pena citare per esteso: “Nel recinto dei cani, in fondo, non capitava mai niente e il tempo che vi passavamo non era quello degli uomini, che si articola in progetti e scadenze, ma quello dei cani, che, nella ripetizione dell’uguale, rasenta l’eterno e forse somiglia assai più a quello di Dio. Non sono del resto mai stato uno di quei provinciali che si lamentano del fatto che nella loro città non ci sia nulla, che non succeda niente, pensando invece che questa mancanza sia piuttosto una ricchezza, un vantaggio che i provinciali hanno sui cosmopoliti, condannati come sono a vivere sempre in mezzo all’attualità, fra mille stimoli che finiscono per non produrre più alcuna reazione. Penso invece che l’ideale sia vivere in provincia e frequentare le grandi città per brevi periodi. Penso del pari che la condizione peggiore in assoluto sia vivere nel recinto dei cani senza desiderio per le grandi città, convincendosi che il luogo dove siamo non sia in effetti un lembo di terra spazzata dal vento, con una palma in mezzo, ma, al contrario, in centro esatto del mondo, come in effetti molti dei miei concittadini dimostrano di credere ogni volta che parlano della bella mi’ Livorno” (pag. 22-23).
Profeta in patria
Ho buone ragioni per dire quel che sto per dire. All’inizio, in fase di progetto o di prima stesura, Lenzi avrebbe voluto scrivere un libro contro l’immobilismo e lo spreco che caratterizzano la sua città. Strada facendo, però, il soggetto è diventato visibilmente un altro, pur rimanendo ben fermo il tema di fondo. Una prova dell’equilibrio del quale parlavo (e che la citazione precedente ha illustrato) consiste nell’aver compreso che soltanto affrontando quell’immobilismo e quello spreco dal punto di vista di una persona che vuole salvarsi, è anche possibile comprendere meglio le dinamiche negative che si vorrebbero stigmatizzare, e in qualche modo offrire un ritratto più equo e riuscito della città che dell’immobilismo e dello spreco sembra a tratti davvero essere la capitale universale (ovviamente non è così, proprio anche perché immobilismo e spreco sono categorie universali). Chi leggerà Sul Lungomai di Livorno non avrà troppa difficoltà a capire che Lenzi, in fin dei conti, ama la sua città perché ha imparato benissimo a ironizzare sui suoi (e i propri) difetti. Questo è forse uno dei motivi per i quali il libro piace e piacerà a chi prova simpatia per Livorno (anche se, certo, dovrà rivedere qualche stereotipo), ma anche agli stessi livornesi (lo dimostra la ricezione più che positiva riservatagli dal quotidiano locale, Il Tirreno). Esser riuscito ad essere al contempo critico implacabile e benevolo cronista, dote assai rara, farà assumere a Lenzi la statura di un inatteso “profeta in patria”? Ognuno in ogni caso ha già capito che dire qualcosa di meglio, su questa città, da ora in avanti sarà parecchio difficile.
Felicità dello stile
Ovviamente il libro piace e piacerà anche perché è scritto benissimo. Giunto relativamente tardi alla pubblicazione del suo primo romanzo (La generazione, Dalai editore 2012), Lenzi è un lettore vorace e onnivoro praticamente da sempre, e dal repertorio di pagine lette e digerite è riuscito a distillare la sua “voce”, ormai inconfondibile. Inoltre è un abile compositore di testi per canzoni, nonché traduttore dal latino e dall’inglese. Ogni pagina del Lungomai è perciò percorsa da una notevole musicalità, anche quando si fa più colloquiale e riprende certi stilemi del parlato. Semmai, sempre come segno dell’equilibrio e della maturità raggiunta, è da notare come la fitta trama di citazioni che trapelano appena sotto la superficie del testo non sia mai forzata, mai gratuita, bensì sempre funzionale all’effetto che si vuole raggiungere. Solo due esempi per capirci. La palma che si erge al centro del recinto per cani è letta attraverso i versi di Wallace Stevens (“The palm at the end of the mind”) e l’ultima pagina della Cognizione del dolore di Gadda: “Di notte, quando intorno è silenzio, chi cammina per i vialetti può sentire distintamente il tintinnare delle placchette che sbattono sulle cortecce. Come se il libeccio, passando, elencasse gli alberi chiamandoli all’appello, e questi rispondessero bisbigliando la loro paziente presenza” (pagg. 35-37).
Il mare non bagna Livorno
La cosa un po’ strana, di questo libro su Livorno, cioè una tipica città di mare (d’accordo, forse non così tipica), è che al mare si dedichino solo le ultime pagine. Come se esso venisse tenuto a distanza. Per sboccare davvero sul lungomare dobbiamo così muovere dall’“entroterra” dei primi due capitoli fino a raggiungere il terzo (“Cronache del Lungomai”), senza tuttavia trovare poi i colori che ci aspetteremmo o l’odore buono del salmastro, diventato impercettibile persino nelle giornate di libeccio. È piuttosto un mare grigio, freddo, come quello del primo gennaio (“Pioviscola e fa freddo”, pag. 90), nel quale si agitano per pochi minuti “una cinquantina di coraggiosi” (o di scemi, dipende dal punto di vista), sindaco intirizzito incluso. Tuttavia, anche questa parziale distanza dal e del mare ha la sua ragione “architettonica” (come direbbe Kant), contribuendo a mettere meglio a fuoco il senso del testo. E in effetti, quando inevitabilmente del mare si parla in quanto mare, o se volete dal punto di vista filosofico, ecco che esso appare nella sua funzione di “limite”, come a segnare il vasto campo di possibilità che l’indolenza del carattere cittadino prosciuga e quasi desertifica, cavandone al massimo un’orata presa all’amo nelle acque sporche del porto o attimi di pigra contemplazione: “Fondati sul mare, dunque, a partire da questo che è il limite invalicabile della nostra esistenza, tutto è rimesso all’indolenza di un attimo che tende all’eterno. Sdraiati a prendere il sole sul Lungomai di Livorno, non può succederci nulla” (pag. 76). Una considerazione a parte meriterebbe poi l’analisi che Lenzi fa del più celebre monumento cittadino (anch’esso posto di fronte al mare): i Quattro mori. È un’analisi ovviamente intonata e funzionale al tema del libro (c’è forse qualcuno più “immobile” di chi è costretto a restarsene incatenato per sempre al basamento di una statua?). Considerazione che comunque qui non farò, suggerendo solo che la cosiddetta “versione vera” della sua storia (che sintetizza in definitiva quel che un tempo si sarebbe chiamato il “messaggio”) non potrebbe risultare più azzeccata.
Quello che manca
C’e anche qualcosa che manca, in questo libro? Mi rifiuto di credere che sia stato possibile stipare in appena 100 pagine (100 pagine esatte) l’anima di un’intera città (mi devo sforzare parecchio, comunque, perché sulle prime direi che è stato davvero possibile). Ho pensato a quali luoghi, a quali personaggi bisognerebbe riferirsi per completarne il ritratto. Qualcosa sui suoi confini, senza ovviamente contare il mare, per esempio. Livorno è un centro rinserrato entro un territorio che non sfuma al suo esterno. Circondata da colline basse e neglette, la città cessa letteralmente di essere riconoscibile oltre le ciminiere del quartiere Stagno e gli ultimi scogli di Antignano. Oltre lo Scolmatore, un canale situato a nord, e già a Quercianella, piccolo centro della costa a sud, Livorno smette propriamente di esistere. Montenero, la collina che la sovrasta, e dalla quale si “gode” la più ampia vista sulla città, è letteralmente un altro mondo. Se un giorno mi capitasse di raccontare a mia volta il posto in cui anch’io sono nato, partirei forse da lì. Oppure nominerei ruderi che nel libro di Lenzi non trovano menzione (ma le pagine che lui dedica al “Corallo” sono memorabili). Il monumento a Costanzo Ciano, per esempio, che darebbe la possibilità di affrontare il tema del cosiddetto “comunismo” dei livornesi (e un altro rudere ancora, infatti, è il Teatro San Marco, nel quale il comunismo italiano venne battezzato nel 1922); oppure il vero e proprio “lungomare”, atelier en plein air, praticato da generazione di pittori sempre più scarsi, fedeli al verbo macchiaiolo fino a renderlo irriconoscibile e perverso (anche quello un modo di essere “immobili” sprecando tele e colori). Quando penso a Livorno io penso allo “Scoglio della Regina”, luogo in cui, all’inizio dell’Ottocento, esisteva una piccola piscina coperta da tendaggi mossi dal vento, divenuto quindi stabilimento balneare verso la metà di quel secolo sempre più lontano, capace però di modellare una città che allora deve essere stata bellissima, e adesso ospitante un polo di ricerca universitario nascosto dallo sfacelo della struttura circostante (e anche questo bisognerebbe raccontare, dei cosiddetti “lavori pubblici” di Livorno, che durano sempre un numero spaventoso di anni, finendo molto spesso per essere abbandonati allo stato di eterni abbozzi: cavalcavia lanciati verso il nulla, palazzi e edifici consegnati come ingombrante eredità da un’amministrazione inefficiente all’altra, anche se sempre dello stesso colore politico). Oppure ricorderei qualche illustre figlio della città, che per sua fortuna ce la fece a spezzare le catene. Amedeo Modigliani, il più famoso di tutti, il più grande di tutti. Preso in giro (a Livorno si direbbe ovviamente “per il culo”) dai vecchi amici, quando un giorno tornò Parigi, per via di certe sue statue dalla forma allungata, statue che quindi sarebbero state scaraventate in un fosso, come narra la leggenda, ma in realtà non da lui, quanto piuttosto da tre studenti burloni del Liceo Cecioni, nottetempo alle prese con trapani Black & Decker e blocchi sberciati di pietra serena, in quella che è giustamente diventata una delle beffe più riuscite, e davvero “leggendarie”, di tutti i tempi. Ecco, un merito indiscutibile di questo libro è che ti fa venire voglia di scriverne un altro.
Lo Zio (per non restare soffocati)
Infine bisogna dire qualcosa sulla figura che apre e chiude il libro, come mettendolo tra parentesi. La figura dello “Zio di Sandrino”. Alla base di questa figura, sono convinto, c’è un testo di Paolo Conte: “Tuo zio ti aspetta, raggiungilo / quando ti guarda decifralo (…) Ah, zio, zio, com’è, com’è / spiega la vita, spiega com’è…”. Lo Zio qui è una figura mitologica e anfibia. Per metà vive all’interno della famiglia, è parte di essa, ma per l’altra metà è anche un’escrescenza esotica che, sporgendo dallo spazio e dal tempo delle abitudini familiari, suggerisce una “vita altra”, ineffabile, avventurosa. La “vera vita”. Lo Zio è insomma un “artista della propria vita”, e possiede gli indispensabili elementi di eccentricità che alludono a una creatività fascinosa (non occorre che si tratti di un vero “artista”, basta che eccella in qualcosa di particolare, per esempio sia un “genio dei motori”). È una scia luminosa, lo Zio. E a guardarlo da lontano (perché anche standogli vicino è l’incessante produzione di questa distanza ciò che lo rende attraente) s’illuminano particolari di un’esistenza liberata. Certo, una simile magia non è immune da una componente di rischio. L’incanto potrebbe scoppiare come una bolla di sapone quando il principio di realtà torna ad occupare per intero il campo. Infatti, a un certo punto, anche lo Zio di Sandrino, piegato dal mal di vivere, smette di guidare delle auto targate “Prova” e finisce per accartocciarsi su una banale 127 verde (verde come l’acqua dei fossi di Livorno, immobile e maleodorante). Le possibilità che egli dispiegava e prometteva si contraggono, la scia luminosa si spenge. Cosa resta? Trent’anni dopo è solo il ricordo di sé stesso, un fantasma che spazza il marciapiede. O peggio: un fallito ossessionato dalle foglie secche che minacciano di soffocare la bocca di una fogna, ovvero la sua bocca, alla quale manca sempre di più il respiro. Il libro termina così, come una triste parabola. E vien da piangere come davanti alla vera poesia.
* Il plurale è voluto.