“Sui passi di Edith Southwell” di Lino Soddu

Creato il 02 luglio 2011 da Yellowflate @yellowflate

(segue)

La cattedrale del Nebbio, un tempo sede vescovile, si trova a meno di un chilometro da Saint-Florent. Esternamente, ricorda la Canonica vicino a Lucciana, almeno per il mattoni calcarei in alternanza di toni. L’interno è costituito da tre navate e da numerosi pilastri con, scolpiti, animali o motivi floreali. I gendarmi, che non sembrano molto interessati all’arte religiosa, ne approfittano per fumare una sigaretta e chiacchierare sul sagrato. Dalle risate che sentiamo all’interno della chiesa giurerei che ne sono arrivati alle barzellette. Dentro non c’è nessuno a parte io e il signor Colucci e appare quindi ovvio che qui la sua signora non ci sia. Quasi a malincuore, riprende il viaggio verso Lumio.

Dopo Saint-Florent, ci addentriamo nel deserto degli Agriates. E’ un nome che un po’ mette paura: non vorrei ora che le nostre automobili avessero dei problemi proprio in pieno deserto! Il paesaggio non è tuttavia completamente desertico. La roccia, è vero, è l’elemento dominante ma affiora ancora abbondante la vegetazione anche se piuttosto bassa come il cisto, il mirto, il corbezzolo, l’ ulivo e la quercia. Il pittore guarda il paesaggio sfilare dal suo finestrino come se sperasse trovarvi la moglie o, molto più probabilmente, cercasse di imprimere nella sua mente la bellezza del luogo per riprodurla in un secondo tempo sulla tela.

“Un coniglio!” m’esclamo vedendone uno attraversare velocemente la strada e andare a nascondersi dietro un cespuglio di cisto. L’incidente sembra avere ridato il sorriso al pittore e penso che solo un pittore o un matto potrebbe sorridere in un deserto! In lontananza, i monti del Tenda sotto un potente sole allo zenit.

“A Casta ci fermiamo per mangiare qualcosa”, annuncia il comandante.
“Se permettete vi faccio assaggiare un formaggio di pecora che è un capolavoro…”

Casta più che un paese è un agglomerato di due case e neanche vicine l’una all’altra. Ci fermiamo sotto la prima la quale sorge sul costone sul lato sinistro della strada e seguiamo un sentierino che sale sino all’ingresso al primo piano. Entrando il comandante saluta e ci presenta. Una calorosa stretta di mano poi ci sediamo su delle sedie un po’ sbilenche intorno a un tavolo che viene apparecchiato alla bella e meglio dal padrone di casa. Il luogo, più che un punto di ristoro sembra la casa di un pastore. In fondo, un camino acceso continua ad annerirne le pareti e il basso soffitto. A una trave sono appese alcune salsicce, deilonzi, dei figatelli e delle coppe mentre su un vecchio tavolo di castagno alcune forme di formaggio profumano l’ambiente. Un paio di galline e una pecora entrano ed escono liberamente.

Il padrone di casa è un tipo piuttosto basso e scuro di pelle. Un po’ di grigio sulle tempie.
Ci porta un’intera forma di formaggio, dei salumi e, per tagliarle, delle vendette corse dalla lunga lama e il manico di osso. Un goccio di vino rosso non può ovviamente mancare.
O Ghjisè!” dice il brigadiere Battesti, quello pelato senza baffi, “cum’è quella canzone chi m’hai cantatu l’altra volta? Ci la poi cantà?”

Il nostro ospite non ci mette molto per assumere una posizione da serenata, come rivolgendosi alla persona amata da sotto al suo balcone o a un pubblico in piccionaia. Beve un sorso di vino, si schiarisce la voce e canta il sublime lamentu di una ragazza innamorata che vede partire il fidanzato chiamato a fare il militare:

Se ne parte lu mi falcu
E pe’ aria si ne vola,
Cume aia da passalu
Lu mi tempu cusì sola?
Che iornate cusì triste
Cume chiodu negru in tola.
Di passata pa’ u chiassu
Ti cunuscia a scherpata
Ma parlà un si putia
Che mi tenianu serrata
Un ci sia nessun donna
Cume me disgraziata

Si putessi fa lu giru
Chellu che face la luna
E po vedeti nellu finu
Caru di la mi fortuna!

Il dolore, lo strazio della separazione ingiusta e crudele ci viene rappresentato come una tragedia greca in una terra dimenticata dagli dèi. Ma le donne corse, all’immagine della Corsica intera, si rafforzano nella separazione, nell’abbandono e nella morte. Terminiamo mestamente il nostro pasto e ci congediamo da Ghjisè. Preso dalle parole e dalla melodia non mi riesce di capire chi abbia pagato il conto ma credo che mi convenga starmene zitto.

Il deserto è ancora lì, in attesa, come non sapendo se ucciderci o farci felici.
Colucci è cupo. Più la macchina si avvicina a Lumio e più mi sembra abbattuto. Illamentu, forse, oppure il timore, se non la certezza di non rivedere più la propria moglie. Sente di trovarsi sotto un cielo immenso che non riconosce le sue creature, esseri fragili in balia del destino. Un’immagine attraversa la sua mente. Non la può scacciare, anzi ogni tentativo di mandarla via la fa tornare ancora più forte e nitida della volta precedente. E’ una veglia funebre, con i voceri e i pianti strazianti. Ma sul tavolo mortuario, a tola, c’è lei, sua moglie, che oggi ama come non l’ha mai amata prima. Gli tornano alla memoria alcuni versi di un voceru raccolto da lei stessa qualche anno prima a Castello di Rostino:

Piangi, o Marì Francè,
Tu chi si zitella sposa
Pichierai alla mia porta
Quando ti manca qualcosa
Giungerai a ritrovarmi,
Ma la troverai chiosa.

La strada è ancora lunga, la stanchezza comincia a farsi sentire e i diversivi si fanno sempre più rari. Siamo finalmente arrivati a L’Île-Rousse. Ci fermiamo appena il tempo di rinfrescarci a una fontana rinunciando di fatto a alla contemplazione delle sue coste rocciose. Uno sguardo, forse, dal finestrino, per vedere se effettivamente sono rosse…

Lumio, villaggio di luce sulla baia di Calvi. Accostiamo davanti alla prima casa alla cui finestra si è appena affacciata una vecchia signora vestita di nero. Le chiediamo dove possiamo trovare la casa della famiglia Raffalli. Si fa il segno della croce e ci spiega che la possiamo trovare poco più in là di fianco alla bottega.
Parcheggiamo le macchine sotto l’abitazione che ci è stata indicata e bussiamo alla porta. Ci apre una donnina energica, anch’essa vestita di nero. Ci fa entrare.

“Madama”, chiede il comandante di brigata, “La conoscete la signora inglese venuta qui il mese scorso?”
“Sì, che la conosco!”, risponde. “E’ la signora che fa tante domande e scrive i nostri voceri. Sta ancora a casa di mia cugina Assunta, credo…”

“E’ ancora in paese, signora! Ma come mai ci è rimasta così tanto?” chiede Colucci.

“Il fatto è che pensavamo che mio marito sarebbe morto presto come ci ha detto il medico ma Antonini, ilmurtulaghju del paese, ha chiesto alla morte qualche giorno di vita in più perché ha fatto solo del bene. Dio abbia pietà della sua anima… Ma non sarete come quei continentali che non credono a queste cose?”
“Ci crediamo!”, protesta il gendarme Battesti. “Ho uno zio murtulaghjiu che ha interceduto per molte persone che stavano lasciando questo mondo…”

“E’ sicura che è ancora in paese?”, chiede il signore Colucci.
“Dovrebbe, sempre che non sia andata a Calvi a parlare con un altro murtulaghjiu come mi disse la settimana scorsa. Vi accompagno da mia cugina Assunta…”

Ci addentriamo in una viuzza stretta. Ho qualche difficoltà a camminare sull’acciottolato reso scivoloso dall’acqua di panni recentemente stesi a una finestra. Bussiamo. E chi ci viene ad aprire, miei cari lettori? Lei, la bella Edith Southwell-Colucci. Sorride, anzi, ride dalla felicità.

“Amore mio!” dice lanciandosi nelle braccia del marito. E’ un abbraccio lungo e forte ed è un bacio d’amore.

“Entrate!”

Entriamo e quel che vediamo ci strappa un sorriso tenero e vale mille spiegazioni: un neonato nella sua culla e la mamma premurosa che gli canta una ninna nanna.

Pighianu all’usciu
So li gendarmi fora
Cercanu a Babbitu
Ma quist’è una trist’ura
Babbitu è in campagna
Duvè lu farà dimora.
Fa la ninna, e fa la nanna
Figliulellu dilla mamma.

[il lamentu, il vocero e la ninna nanna sono stati pubblicati in Chants Populaires Corses alle Edizioni Mediterranea]

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