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Sul caso Priebke e sul negazionismo: Piergiorgio Odifreddi (newtoniano) c’è o ci fa? Sulla “beautiful mind” di John Nash e sull’alfabetizzazione ai tempi di Twitter.

Creato il 20 ottobre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

436px-John_f_nash_20061102_3di Rina Brundu. Per coloro che si fossero perse le puntate precedenti, mi chiamo Piergiorgio Odifreddi, e sono un logico matematico. Il che significa che ho passato la mia vita a cercare di capire qual è la risposta alla domanda del titolo”. Così scrive l’italico matematico imperteninte sul suo blog, sotto il post titolato “Che cos’è la verità?”. Encomiabile questa quest, o mission impossible, del professore. Tuttavia, a leggere gli ultimi suoi articoli sembrerebbe che la meta, il traguardo, sia ancora lontano. Peggio ancora sembrerebbe che il punto di partenza (logico) sia confutabile. L’impressione è che la “Verità” ricercata dal professore (o, per meglio dire, la metodologia logica di ricerca della sua verità), sia un qualcosa di simile alla concezione newtonianana dello spazio e del tempo, ovvero una entità assoluta destinata a crollare miseramente sotto le obiezioni meditate della logica einsteniana.

Nell’epoca dell’informazione mordi e fuggi e della bulimia informativa, nell’epoca della verità che si confonde con la menzogna e della menzogna che è sovente verità assodata, questi “whims” intellettuali del pur bravo professore (ottima la lezione su “Leibniz e il migliore dei mondi possibili”), sarebbero potuti pure passare inosservati. Il problema è che il professore ha usato la sua metodologia-logica-di-ricerca-della-verità (e delle verità storiche in particolare, da lui definite come quelle verità che “si basano su testimonianze di varia mano, relative a fatti unici e non riproducibili, e che dunque non possono mai avere il grado di affidabilità delle verità scientifiche, per non parlare di quelle matematiche”), come scudo per difendersi dalle accuse di “negazionismo” mosse da alcuni suoi colleghi, in ultimo dallo stesso professor Grasso quest’oggi sul Corriere della Sera. Il professor Odifreddi “accusa” dunque questi giornalisti di non avere compreso, o di avere fatto finta di non capire il suo punto (logico) di partenza, quando mesi prima affrontò sul blog la tematica Priebke e i crimini nazisti. Dulcis in fundo, scarica la responsabilità del procurato-misunderstanding sulla banalizzazione culturale corrente procurata dall’idealizzazione delle possibilità comunicazionali dei social e di Twitter in particolare.

A mio avviso, l’unica “verità” accertata dalla quest-intellettuale odifreddiana menzionata nell’incipit, che però equivale un poco alla scoperta dell’acqua calda, è che oggidì “150 caratteri (…) costituiscono ormai il limite massimo dell’attenzione e dell’approfondimento” anche e soprattutto per il giornalismo nostrano più impegnato. Purtroppo, non si può negare che proprio alcuni dei giornalisti citati dal professore nel suo ultimo post sono senz’altro tra i maggiori “responsabili” dello status-quo e della idealizzazione delle favele-intellettuali che sono i social, che ci piaccia oppure no. Tuttavia, questo non significa che il tentativo dello stesso professore di «épater le bourgeois», per citare il professor Grasso, di intellettualizzare la sua arringa-a-difesa, di aulicizzare-il-discorso allo scopo di prendere le distanze dal volgo negazionista, sia riuscito o possa convincere tutti i suoi lettori. Davanti ad una simile accusa, infatti, io avrei preferito un post terra-a-terra (per la serie dimmi come mangi e ti dirò chi sei) che chiarisse senza se e senza ma la sua posizione. Ciò perché in presenza di un argomento come  è quello che riguarda il sistematico-annientamento di un popolo, la sua umiliazione, la sua distruzione, la sua “annihilation” non si può stare nella zona grigia, ma si è obbligati a stare o di qua o di là.

Per quanto riguarda la più generale problematica della ricerca della “verità” partendo da premesse strettamente logiche (una quest nobilissima, per carità!), il professore non me ne voglia, ma io preferisco l’approccio di John Nash, il matematico ed economista statunitense, Premio Nobel nel 1994, il quale – mercé la sua malattia mentale e la sua schizofrenia – si è confrontato tutta una vita con le difficoltà implicite che derivano dal tentare di “isolare” i diversi “realms” cognitivi dell’esperienza umana e dunque la loro ragion d’essere e capacità di logica interna. Che derivano dal tentare di isolare la verità-matematica, dalla verità-logica, dalla verità-scientifica, dalla verità-apparente, dalla verità-assoluta, dalla verità-che-comunque-è e determina un risultato oggettivo. Valido per noi e per gli altri. O per dirla con il Nash riproposto (in maniera non mirabile ma convincente) da Russell Crowe in “A Beautiful Mind” (2001, regia di Ron Howard), e che conserva una validità-dialettica sostanziale nonostante il concime retorico-hollywoodiano: “Ho sempre creduto nei numeri. Nelle equazioni e nella logica che conduce al ragionamento. Dopo una vita vissuta in questi studi, io mi chiedo: cos’è veramente la logica? Chi decide la ragione? La mia ricerca mi ha spinto attraverso la fisica la metafisica, mi ha illuso e mi ha riportato indietro. Ed ho fatto la più importante scoperta della mia carriera. La più importante scoperta della mia vita. È soltanto nelle misteriose equazioni dell’amore che si può trovare ogni ragione logica. Io sono qui grazie a te. Tu sei la ragione per cui io esisto. Tu sei tutte le mie ragioni”.

Featured image, John Nash (1928 – vivente).

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