Durante gli anni ho imparato che la libertà d’azione inerisce tutte quelle situazioni in cui si agisce senza intaccare la libertà altrui.
Si fa sempre un gran baccano quando si trattano determinate tematiche di genere e si prende spesso in prestito questo concetto come bandiera, strumentalizzandolo e utilizzandolo come difesa.
Credo che un intero trattato non possa racchiudere la poliedricità di questa parola, che riassume in sé tutta l’essenza dell’esistenza, riferendosi a un concetto che è stato studiato nei secoli da miriadi di filosofi.
Non è qui certo lo spazio adatto per aprire una disquisizione esauriente a riguardo di cosa sia o non sia la libertà, ma essendo una parola alquanto gettonata ultimamente credo che se ne debba parlare sempre di più.
Spesso ci siamo imbattut* (parlo a nome di tutt* coloro che quotidianamente combattono per una comunicazione di genere paritaria) in persone che hanno contestato le nostre considerazioni riguardanti la proliferazione nella nostra società, e in particolar modo in Italia, di immaginari contraffatti e discriminatori attraverso i media, soprattutto quelli di massa ma non solo.
La rappresentazione dei due generi sessuali, è inutile ripeterlo, passa ancora attraverso la stigmatizzazione del maschile e del femminile e perpetua stereotipi duri a morire, che etichettano e dividono: le donne sante o puttane, gli uomini machi o sfigati.
A che cosa si inneggia spesso quindi? Chiaramente alla libertà di scelta. Quella libertà che permetterebbe alle donne di scegliere di essere rappresentate come oggetti e la conseguente libertà degli uomini di trattarle da tali. Spesso viene messo a confronto il mondo occidentale con quello definito talebano: nel primo la donna avrebbe pieno diritto di agire come crede nel suo quotidiano, nel secondo invece tutto il contrario.
Ci additano come moralist*, perché se prima contestiamo il burqa poi vogliamo mettere i pantaloni alle soubrette televisive. Ma sta proprio qui l’errore. Noi NON vogliamo che si operi un’azione censoria, dettata dallo spirito bigotto che quotidianamente contestiamo. Non vogliamo costruire una diga per contenere un fiume in piena ma lavorare a monte perché siano messi in atto tutti quegli accorgimenti ambientali per evitare che il fiume straripi (rimanendo all’interno della metafora), ovvero lavorare a livello sociale, indagare le motivazioni per le quali l’immaginario collettivo perpetua determinati modelli unici a cui far aspirare le giovani e i giovani, capire dove/come/quando questo genere di comunicazione inficia la libertà di azione delle persone e agire in questo senso.
Tornando al concetto di libertà: una donna adulta ha tutto il diritto di scegliere consapevolmente come vestirsi, posto che lo stesso concetto di libertà prevede le naturali influenze dell’ambiente sociale sulle decisioni. A noi non interessa contestare la donna che si spoglia, tantomeno è lei che vogliamo proteggere. Ciò che constatiamo è che il circo mediatico di cui fa parte, i cui fili vengono manovrati dal potente di turno da dietro le quinte, è un potentissimo strumento del regresso sociale e civile. Ognuno di noi sa che le proprie azioni avranno delle conseguenze sull’ambiente esterno e sui propri interlocutori, volenti o nolenti.
E’ chiaro, tutti i giorni io metto in atto delle scelte che condizionano chi mi sta intorno, mentre si sente spesso ripetere che l’ennesima donna svestita in tv non fa male a nessuno, anzi allieterà la vista di qualche maschietto. Niente di più sbagliato!
Riassumerò di seguito per punti un’interessante ricerca che ho trovato on line dal titolo: I Contesti Psicologici e Sociali della Violenza alle Donne a cura dell’Ass. “Donna chiama Donna” di Siena, risalente al 2002.
Questo scritto ci spiega in breve come la tradizione culturale, la società e le sottoculture del femminile e del maschile influenzino, tra le altre cose, la violenza di genere. In particolare cito alcuni passaggi:
“Quando la distribuzione di funzioni, responsabilità e decisioni non è uguale tra uomini e donne a livello sociale, il potere che si esercita contro le donne in tutti gli ambiti, pubblici e privati, è più forte.” ;
“Le definizioni sociali sul genere femminile e maschile hanno creato delle differenze che valutano in maniera diseguale femminilità e mascolinità. Queste definizioni si appoggiano sui sistemi mitici di credenze, da cui proliferano le norme di condotta appropriate per ogni sesso, generando a sua volta gli stereotipi di genere. […] Ruoli, atteggiamenti, valori… Sono trasmessi per generazioni attraverso i percorsi di socializzazione. Quando le donne assumono queste definizioni stereotipate partono da una situazione svantaggiata che può degenerare in possibili situazioni di violenza.”;
“La differenziazione sessuale dei compiti nella nostra società attribuisce all’uomo la produzione sociale e alla donna la “riproduzione” sociale. Questa divisione ha provocato un interscambio diseguale di risorse che ha dato luogo alla dipendenza economica delle donne. Queste differenze strutturali danneggiano la posizione delle donne nella società e nella famiglia, poiché essendo subordinate economicamente diventano vulnerabili e, quindi, più esposte a subire violenze”;
“…socialmente è ben ammesso un modello si passività delle donne, già da bambine […]. Nello stesso modo gli uomini, già da bambini, vengono ben accettati quando dimostrano le loro tendenze aggressive. D’altronde alcuni paradigmi scientifici hanno sostentato come differenze “naturali” da un punto di vista biologico […] legittimano una disuguaglianza sociale condizionata più da pregiudizi che da dati empirici“.
Non sono modelli che vediamo tutti giorni proposti dai media? La donna sottomessa e subordinata, relegata a compiti infinitamente meno importanti rispetto a quelli riservati agli uomini, spogliata dal maschio di turno, che da dietro le quinte, col suo potere economico, la compra e la mette alla mercé dei telespettatori uomini come una prostituta?
Lo studio propone infine delle vie d’uscita, poiché il problema della violenza sulle donne e del legame che intercorre tra essa e l’immaginario del femminile è strutturale nella nostra società:
- trasformare la divisione sessuale del lavoro per generare una ripartizione più equilibrata delle risorse economiche
- modificare le definizioni sociali/sessuali stereotipate in altre più equivalenti ad ambedue sessi, in modo tale che nessuno dei sessi si manifesti e sviluppo a detrimento dell’altro.
- trasformare le relazioni familiari e di coppia favorendo modelli di relazione più democratici, rispettosi e egualitari.
Anche il nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, come citato e ribadito più volte nel blog, ha sottolineato la correlazione che c’è tra immaginario collettivo e violenza di genere in occasione del convegno “Donne in Tv e nei media: un nuovo corso per l’immagine femminile” del 2010 con le seguenti parole:
“Uno stile di comunicazione che offende le donne nei media, nelle pubblicità, nel dibattito pubblico, può offrire un contesto favorevole dove attecchiscono molestie verbali e fisiche se non veri e propri atti di violenza anche da parte di giovanissimi”.
Tutto questo per dire cosa? Troppo spesso mi capita di avere a che fare con persone che rimangono sbigottite quando cerco di argomentare le motivazioni per le quali la promozione della donna oggetto nei media sia ricollegabile a quella cultura dello stupro che viviamo quotidianamente e alla poca considerazione riservata alla popolazione femminile nei contesti sociali, politici e lavorativi (ricordiamo a proposito, ancora una volta, che l’Italia è al 74esimo posto nel mondo per parità di genere, che un giorno ogni due una donna viene ammazzata in quanto tale dal suo compagno/marito/amante/ex, che un terzo delle donne ha subito violenza nel corso della vita e solo il 90 percento degli stupri, soprattutto quelli che vengono perpetuati tra le mura domestiche, viene denunciato; inoltre meno del 50 percento della popolazione femminile ha un’occupazione lavorativa, nonostante l’indice di figli per donna si aggiri intorno all’1,3, ben al di sotto della soglia di rimpiazzo generazionale).
Il concetto di libertà in questo senso risulta stra-abusato: la concezione comune è che ogni donna sia libera di comportarsi come vuole senza restrizioni. Da un lato vien detto che la Belen di turno guadagna milioni di euro per sculettare in tv e che nessuno glielo impone, dall’altro che non sarà di certo questo ad aumentare gli stupri e le violenze di genere o a impedire ad una donna di trovare un lavoro di tipo diverso.
Premetto che le donne che si occupano di tematiche di genere, quali Caterina Soffici nel suo libro “Ma le donne no” e Lorella Zanardo nel suo documentario “Il corpo delle donne”, hanno citato casi di figure femminili che consapevolmente utilizzano il loro corpo come merce, conoscendo bene le regole del mercato. Il discorso più ampio è che queste donne non sono tutte le donne e fanno parte di un contesto più ampio che inficia la libertà delle altre donne italiane!
Perché anche se spesso non si notano gli immediati collegamenti causa-effetto, le donne in Italia vivono una situazione di degrado dettata anche e soprattutto dall’immaginario collettivo che viene riservato loro. Come una lunga fila di mattoncini di domino prima o poi le conseguenze di questa mistificazione del femminile le sente qualsiasi donna italiana sulla sua pelle!
In primo luogo la libertà di ognuno di noi può ledere la libertà altrui, ed in secondo luogo essa si restringe alle reali opzioni di scelta quotidiana (e possiamo constatare ogni giorno che per la donna sono nettamente inferiori).
Perché nascondere ancora la faccia sotto la sabbia? Parandosi dietro al concetto di libertà si sta legittimando qualsiasi cosa per comodità, economica o etica che sia. Ma la realtà dei fatti parla chiaro: un contesto culturale che discrimina lo fa a tutti i livelli sociali e la sovraesposizione mediatica a modelli i sopraffazione e sottomissione in base al genere promulgano la ripetizione di determinati schemi anche nei contesti lavorativi e familiari. E’ per questo che in Italia cresce, di pari passo con la proliferazione di messaggi misogini attraverso i media, la violenza di genere e si mantiene stabile l’inoccupazione femminile.
A questo punto mi piacerebbe sentire le testimonianza delle donne reali e degli uomini reali che ci seguono, perché anche la libertà maschile è inficiata, forse ancora più subdolamente, attraverso gli stereotipi dell’uomo maschio, che non deve provare sentimenti ma essere pressapoco un animale da monta che viene valutato esclusivamente in base ai soldi che ha nel portafoglio (è uscito di recente “L’invenzione della virilità” di Sandro Bellassai che spero di poter presto leggere e recensire).
Vogliamo dire una volta tanto cosa significhi davvero per noi la libertà nel nostro quotidiano e raccontare tutte quelle situazioni in cui sentiamo di non averne abbastanza? Per concludere prendo in prestito una citazione di Isaiah Berlin:
«L’essenza della libertà è sempre consistita nella capacità di scegliere come si vuole scegliere e perché così si vuole, senza costrizioni o intimidazioni, senza che un sistema immenso ci inghiotta; e nel diritto di resistere, di essere impopolare, di schierarti per le tue convinzioni per il solo fatto che sono tue. La vera libertà è questa, e senza di essa non c’è mai libertà, di nessun genere, e nemmeno l’illusione di averla».
Alessia