Sono nato e cresciuto “accompagnato” dagli sguardi dei caduti della prima Guerra Mondiale, impressi nelle lapidi a ricordo poste sulle facciate delle case del mio paese, nell’Abruzzo aquilano. Ho fatto in tempo a conoscere molti di quei reduci e le vedove, vestite di nero, ancora e dopo decenni e decenni. Per questo, per me, il IV Novembre non sarà mai una data come le altre. La memoria non è uno sterile esercizio retorico, una passi castrante od inutile. Al contrario, è, si pone e si staglia come imperativo etico, soprattutto in momenti storici come quello attuale, in cui maldestri revisionismi alimentati dal revanscismo più gretto mettono in discussione l’atomo primo del nostro edificio nazionale e comunitario. Un tributo ai 650mila caduti che hanno consegnato all’Italia le terre irredente, ultimando i nostri processi risorgimentali e liberali. P.S: la nazione può e deve essere criticata, anche in modo aspro (io lo faccio molto spesso) ma non possiamo permettere che il dettato storico e documentale venga insozzato da una canea di dilettanti della storiografia e del giornalismo. “Se l’Austria, come avevamo ragione di temere, cadeva, la guerra era perduta. Per la prima volta avemmo la sensazione della nostra sconfitta. Ci sentimmo soli. Vedemmo allontanarsi fra le brume del Piave quella vittoria, che eravamo già certi di cogliere sulla fronte di Francia”. Questo scriveva Erich Ludendorff, capo di Stato Maggiore dell’esercito tedesco. Il ruolo italiano viene non di rado minimizzato da una certa storiografia internazionale, ma si tratta di un’ evidente e partigiana alterazione del portato storico. L’azione del Regio Esercito, lasciato quasi da solo a lottare contro le forze austro-tedesche, fu determinante per l’esito finale del conflitto.