di Rina Brundu. Un paio di anni fa, il giorno di Pasquetta, andai a Nuoro a visitare la tomba e la casa-museo di Grazia Deledda. La “tomba” in questione è un’intera chiesetta dove il suo corpo riposa. Ricordo l’aria “buona” che si respirava tra le pareti spoglie, biancastre, la pace e la tranquillità. Pensai che i suoi concittadini non avrebbero potuto regalarle un posto migliore dove riposare.
Anche dentro la casa della sua fanciullezza ritrovai le atmosfere delle vecchie dimore sarde. Ritrovai le grandi stanze areate, il letto solido, l’intonacatura fresca, il grande camino, la cenere, la cantina impregnata di fragranze che io stessa mi sentivo addosso da piccola, e che si possono apprezzare pienamente solo quando si è nati e si è vissuto in Sardegna. E poi c’era un grande giardino che cingeva il retro dell’abitazione, riempito con numerosi alberi giganti, di che specie non saprei, che proiettavano un’ombra secolare sotto la quale era piacevole sedersi a pensare.
Un’avventura da conservare cara nel ricordo se non fosse per un qualcosa che mi colpì strano quando salii all’ultimo piano. Fu in quelle stanze, mi pare, che potei ammirare la medaglia del Nobel per la Letteratura che vinse nel 1926. A colpirmi-strano fu proprio quell’oggetto di metallo freddo che non sapevo se era d’oro o di ferro battuto ma che per me non faceva differenza. C’era in quel manufatto qualcosa di tanto distante dalla nobiltà e dall’affabilità del mondo agro-pastorale raccontato dalla Deledda quanto é distante il sole dal nostro portone di casa. C’era in quell’oggetto emblema dell’umana vanità qualcosa di morto, di smorto che, mi sembrò, non rendeva pienamente merito al lavoro di una vita che lo aveva procurato.
Fu come un’epifania, l’illuminazione di un istante che non ho dimenticato mai e sul quale sono tornata col pensiero in più di una occasione successiva. Mi chiesi allora perché amavo quell’autrice. Di fatto l’amavo perché da donna nata in Sardegna solo nei suoi racconti avevo ritrovato le atmosfere e i profumi che avevo respirato io stessa, da bambina. L’amavo perché ci sono delle scene, in Cenere (una delle top-novels of all times per quanto mi riguarda, anche se per motivazioni personalissime), come nell’Elias Portolu e in tanti altri suoi romanzi e racconti – dicevo… ci sono delle scene così perfettamente dipinte da risultare vive, vivissime; in simil guisa, grazie a quella scrittura, risultavano perfettamente percettibili dai sensi i sapori e gli odori raccontati; specialmente percettibili dai sensi di chi quegli odori e quei sapori li ha realmente respirati. Anche per questi motivi ho sempre avversato i denigratori di questa meravigliosa autrice isolana. Sono infatti convinta che il dovere primo di un vero grande autore è di raccontare la sua epoca, il suo particolare universo (socio-politico o intimistico non fa differenza), e lei l’ha sicuramente fatto in maniera mirabile.
Lo ha fatto in maniera straordinaria, Nobel o non Nobel. Questa verità l’ho maggiormente compresa ogni qualvolta ho comparato nel ricordo l’oggetto smorto che era la prestigiosa medaglia vinta, con le forti emozioni (connotate da una forte qualità estetica, pastorale, bucolica), che aveva suscitato in me il suo scrivere. Resto dunque convinta che se io non avessi letto la Deledda prima di recarmi nei “suoi luoghi” – mercé lo strano effetto di cosa-morta he mi aveva fatto la medaglia – forse avrei lasciato la sua casa e la sua tomba con una grande delusione nel cuore.
Ho capito allora che vincere il Nobel per la Letteratura non è come vincere il Nobel per la Fisica e credo che su questo punto Sheldon Cooper, il mitico fisico teorico fictional della sitcom The Big Bang Theory di Chuck Lorre e Bill Prady, ossessionato dall’idea di dover vincere il Nobel per la Fisica, mi darebbe pienamente ragione. Faccio riferimento – tra i tanti godibilissimi momenti in cui Sheldon si fa gioco dei letterati e si comporta da snob nei loro confronti – allo scambio avuto con Penny nell’episodio “The Bad Fish Paradigm – 2008”:
Penny: Ti risulta che Leonard abbia mai avuto relazioni con donne che non fossero dei cervelloni? Sheldon Cooper: Beh… fammi pensare, ecco, sì… un paio d’anni fa è sicuramente uscito con una ragazza che aveva optato per un dottorato in Letteratura francese. Penny: E secondo te questo non fa di lei un geniaccio? Sheldon Cooper: Beh… tieni presente che da un lato lei ERA francese… dall’altro sempre di letteratura si tratta!
Per quanto snob e provocatorio possa risultare questo ennesimo statement sheldoncoouperiano, di fatto i geniali sceneggiatori che gli hanno messo quelle parole in bocca hanno ragione: sempre di letteratura si tratta! Questo per dire che se quel premio così ambito non è davvero “meritato” sotto una molteplicità di prospettive, vincere il Nobel per la Letteratura può diventare un grosso “impiccio” per un autore. Addirittura un momento di notorietà imbarazzante se tale notorietà invece di essere procurata dalla sua “arte” è dovuta alla “notorietà” del premio stesso. Un poco come se Peter Higgs, vincitore del Premio Nobel per la Fisica 2014, ricevesse prima il premio e poi si desse da fare per teorizzare lo sfuggente bosone: unthinkable!
Un esempio letterario-funesto su tutti? Senz’altro il caso che riguarda il vincitore del Nobel per la Letteratura 2014, il francese Patrick Modiano; questo autore, sconosciuto al suo stesso ministro della cultura, nei giorni e nelle settimane successive all’annuncio della vittoria è infatti stato protagonista, suo malgrado, di infiniti articoli – a firma, tra gli altri, degli addetti ai lavori di prestigiose riviste quali The New Yorker e Time – titolati “Who is Patrick Modiano?” e ancora “Why you haven’t heard of Patrick Modiano, winner of the Nobel in Literature?”.
A mio avviso la risposta più logica, finanche lapalissiana – con tutto il rispetto per l’autore in questione e per la sua arte che sarà senz’altro ottimale – è che non ne avevamo mai sentito parlare perché non avevamo mai letto un suo testo; e magari c’é pure un qualche buon motivo per cui non l’abbiamo fatto! Certo, Sheldon scrollerebbe le spalle e direbbe: te l’ho detto no? Sempre di letteratura si tratta!! Quindi di opinione-opinabile. E Wittgenstein – che metteva in dubbio anche la validità dei lavori del grande bardo inglese – sarebbe stato d’accordo con lui.
Io dissento però; dissento perché credo che se noi siamo come siamo, se noi siamo ciò che siamo e se siamo arrivati dove siamo arrivati – anche su Marte via rover-telecontrollati – lo dobbiamo anche ai grandi romanzieri che hanno vestito le nostre vite nude con le loro storie straordinarie, lo dobbiamo alla loro formidabile fantasia. Di fatto sono stati proprio quegli abiti favolosi a trasformarci da cenerentole in principesse e da contadinotti in principi (in senso lato). Detto altrimenti, non è stata la preziosa medaglia esposta nella casa-museo della Deledda che ha fatto la differenza ma la tecnica e la passione con cui lei ha saputo raccontare il suo universo-al-tramonto allo scopo di eternarlo. Allo scopo di farlo vivere per sempre nei nostri cuori e nelle nostre menti e nei cuori e nelle menti di chi verrà, quando noi non saremo più.
Anche per questo, ritengo, occorrerebbe maggior serietà nell’assegnare quel premio perché, no!, non si tratta di letteratura soltanto, ma si dovrebbe trattare soprattutto dei sogni, delle emozioni, del sentire di intere generazioni incastonati in eterno dagli artisti contemporanei più ispirati e da artisti che mentre lavoravano hanno saputo renderci partecipi. Nel mio pensiero, una conditio-sine-qua-non!
Featured image, Grazia Deledda, source Wikipedia. – Second picture, io nel giardino della casa-museo di Grazia Deledda nel 2009. Tutti i diritti riservati sulla foto.