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Sul parlare della guerra a Gaza con i miei amici ebrei

Creato il 23 luglio 2014 da Marina Viola @marinaviola

Sul parlare della guerra a Gaza con i miei amici ebreiVivo negli Stati Uniti dal 1991, e in tutti questi anni ho conosciuto un sacco di persone con cui sono diventata amica, ma tra tutti quelli a cui sono più legata spiccano gli amici del liceo di Dan. Sono tutti maschi, che conosco da quando avevo diciannove anni e con cui ho condiviso tantissimo, tra fidanzate mollate, matrimoni, nascite di figli, separazioni, nottate in ospedale, o a casa a parlare di tutto. I nostri bambini giocano spesso insieme, e siamo tutti lì a dire: guarda la seconda generazione che ride e si vuole bene, e adesso che siamo un po’ vecchietti, a volte dobbiamo scacciare anche un inizio di magone. Ad alcuni di loro sono rimasta più legata che ad altri, ma c’è sempre il tam tam di telefonate quando succede qualcosa di bello o di brutto, e tutti siamo sempre pronti a supportarci a vicenda. Dicevo a uno di loro l’altro giorno che quando penso al nostro gruppo, mi viene sempre in mente una fila di formiche, ognuna a fare le proprie cose, che va avanti imperterrita, a testa bassa, ma poi se una di loro si ferma, allora si fermano tutte per controllare che non sia successo niente di grave. Siamo un po’ così, io e i miei amici.La maggior parte di loro, mio marito compreso, è ebrea non praticante, come non praticanti sono le famiglie da cui vengono. Ma ho capito, dal 1991, che essere ebreo non vuol soltanto dire appartenere a un credo religioso, ma anche essere cresciuti con dei valori educativi ben precisi, spesso pieni di generosità, di apertura mentale e di solidarietà. Molti di loro hanno uno spiccato senso dell’umorismo, e un’intelligenza creativa fuori dal normale. Molti raccontano la storia dei loro nonni, tutti emigrati negli Stati Uniti dall’Europa dell’Est e scampati all’Olocausto, e dei parenti che invece non ce l’hanno fatta. E anche se non sono religiosi, forse anche per queste storie orrende, sentono il dovere di tener viva la tradizione, spesso legata a riti religiosi, che nel tempo sono diventati più occasioni per ritrovarsi. Una volta un mio amico mi ha detto: "Tu per me sei ebrea." Intendeva dire, conoscendolo, che sono una donna forte, che tiene compatta la famiglia, e che alle sue figlie dà l'esempio importante di indipendenza e forza morale e intellettuale. Gli ho ricordato che ho fatto battesimo, comunione e cresima, ma lui dice, “it doesn’t matter.” Capisco perfettamente quello che vuol dire, e lo ringrazio del complimento.Vivo negli Stati Uniti dal 1991, come dicevo, e se c’è una cosa che posso dire con assoluta certezza è che in tutti questi anni ho avuto con loro accese discussioni un po’ su tutti i temi caldi, politici, sociali o educativi. Ho condannato la pena di morte, il razzismo, il genocidio dei Nativi Americani. Ho studiato e approfondito con loro il periodo caldo delle lotte studentesche: Black Panthers, Weather Undergrounds, le lotte per i diritti civili, la discussione delle differenze tra il pacifismo di Martin Luther King e l’ideologia di occhio per occhio di Malcom X. Ho condiviso le mie frustrazioni sull’apparente uguaglianza tra uomini e donne, e i tanti passi che si devono ancora fare per cacciare la parola ‘apparente’ dal concetto di uguaglianza. Ho studiato le divisioni razziali nelle maggiori metropoli statunitensi, la brutalità della polizia verso le minoranze. Ho appoggiato, sia emotivamente, che politicamente che fisicamente prigionieri politici come Silvia Baraldini, Susan Rosenberg e Alejandrina Torres, andando a trovare Silvia al carcere federale del Connecticut almeno una volta al mese per le mie prime due gravidanze. Non ho mai sentito, confrontandomi con i miei amici americano, il bisogno di stare attenta a cosa dicevo nel discutere, anche quando sapevo di andare controcorrente, anche quando, da brava europea, criticavo apertamente la politica e la cultura americana. Ho sempre saputo che non mi avrebbero comunque giudicata, anche se non eravamo d’accordo su alcune cose, che avrebbero capito le mie riflessioni anche se a volte non le condividevano.Poi Israele attacca Gaza, che occupa da anni: ammazza innocenti, fa il bulldozer con un popolo molto più debole che indebolisce ulteriormente negando acqua, elettricità e altro, e trattando da second-class citizens. Insomma, la fa, ancora una volta, fuori dal vaso. E per la prima volta dal 1991 ho tenuto la bocca chiusa e non ho condiviso con loro la mia forte posizione di condanna del governo israeliano. Perché è dal 1991 che vivo qui e non ho mai sentito nessuno appoggiare la lotta di liberazione palestinese: è come stare dalla parte del violentatore, dell’omofobo, del razzista. Ho avuto paura che loro pensassero che io sia antisemita, che io li tradisca, in qualche modo.D’altronde negli Stati Uniti il supporto per Israele è pervasivo, e chi nel lungo conflitto medio orientale sta dalla parte della Palestina, in genere, è considerato o rivoluzionario di sinistra, o antisemita o non ha capito quanto sia complicata la situazione.Non so poi se il problema sia in parte mio, perché a dire il vero non ho mai avuto neanche il coraggio di affrontare con loro questo discorso. So per certo che i miei amici hanno sempre votato a sinistra, sono stati hippies figli di hippies, alcuni sono buddisti, sono stati, prima di sposarsi e avere figli, dei frikkettoni. Ma conoscendoli so anche che il conflitto palestino-israeliano è un discorso inavvicinabile, una cosa che non si tocca. Anche con Dan, parlandone, mi accorgo di pesare molto quello che dico, di assicurarmi che lui capisca che essere contro un governo non vuol dire essere contro un popolo. È un tabù. Un altro tabù è la storia delle sigarette che fumo, che tutti all’unisono odiano. E io, che fumando grido “Israele governo fascista”, a volte, mi sento diversa e lontana da loro. E un po’, lo ammetto, mi mancano.


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