È il ruolo della cultura spezzare il circolo vizioso della paura. (Simone Verde).
Ho letto qualche tempo fa un’intervista di Beppe Sebaste su “Il Venerdì” di Repubblica (19 giugno 2015) a Simone Verde, storico dell’arte che oggi lavora per il Louvre di Abu Dhabi, circa il sistema culturale italiano.
Mi interrogo costantemente sulla situazione italiana, in termini di organizzazione e promozione della cultura, in senso ampio, s’intende; è sufficiente considerare che in Italia non esiste una sola biblioteca nazionale centrale, differentemente da altri Paesi, per avere un’idea della dispersione del nostro patrimonio culturale (da ciò, tuttavia, possono derivare anche alcuni vantaggi, per quanto riguarda la maggiore reperebilità di testi, ad esempio).
Mi chiedo spesso quali siano le motivazioni che portano a precise (e non sempre condivisibili) scelte riguardanti l’apparato culturale della nostra bella penisola. Cosa c’è, insomma, dietro tanti tagli? Ripenso a volte all’atmosfera di 1984 di Orwell, alla questione linguistica in particolare, ma anche – forse soprattutto – all’accessibilità alla cultura.
Sostiene Simone Verde, nell’intervista a cui faccio riferimento, che gli italiani sono i soli a cadere nel meccanismo prekeneysiano della paura e dei tagli (…) solo noi siamo per i tagli anche quando non c’è niente da tagliare perché le situazioni necessarie, quelle veramente utili allo sviluppo, non sono mai state create.
L’Istituto Verdiano di Parma è senza un direttore, il Teatro Valle di Roma è occupato da anni, la Casa di Pirandello non ha fondi; finanziamenti ridotti persino per l’Accademia della Crusca (già dal 1989 Indro Montanelli si fece promotore dell’appello “Salviamo la Crusca) e così verrebbe meno la possibilità di rinnovare borse di studio e contratti di ricerca. Su facebook esiste anche il gruppo “Salviamo Casa Merini”.
Tristemente si può constatare che sono molteplici i luoghi letterari da salvaguardare. Talvolta mi domando se qualcuno in futuro vorrà occuparsi della tutela delle case degli scrittori odierni. Tra l’altro, sono pochi gli intellettuali noti e capaci di prendere posizioni autorevoli, anche su questioni delicate – si pensi al recente caso di Erri De Luca.
Penso anche al rapporto tra cultura e mondo industriale. Un tempo, fino anche a una quindicina di anni fa, le aziende ricorrevano agli intellettuali per sponsorizzare i loro prodotti, incaricandoli di curare l’aspetto promozionale, in termini di comunicazione stessa di un prodotto.
A tal proposito è significativo il libro Scrittori e pubblicità (Fausto Lupetti Editori). Scrittori del calibro di Gabriel Garcia Marquez (Premio Nobel per la Letteratura) si è occupato di pubblicità; Pessoa scrisse uno slogan per Coca-Cola. Tra gli scrittori nostrani, possiamo citare D’Annunzio e prima ancora Carducci, Pascoli, Pirandello. Tra gli ultimi, Baricco, che nel 2002 ha scritto la sceneggiatura per uno spot in occasione dl 125° anniversario di Barilla. Olivetti stesso fu un imprenditore molto aperto alle prospettive culturali nell’ambito industriale, così come anche Agnelli.
Oggi, tuttavia, che resta di questo rapporto? Se la cultura è apertura, creatività e innovazione e le stesse aziende ricercano questo, non sarebbe il caso di tornare a collaborare?
Tanti premi letterari (e non solo) sono nati per promuovere prodotti commerciali. Quello per antonomasia è il Premio Strega, di cui quest’anno ci siamo ampiamente occupati.
Ma – ripeto – oggi di questo intreccio fra mondo culturale e mondo aziendale che resta? Forse permane qualche traccia in alcuni grandi eventi: il già citato Premio Strega, ma anche il Coca-Cola Summer Festival, l’Heineken Jammin’ Festival e così via. Occasioni queste dove la pubblicità finisce con l’identificarsi del contenuto culturale proposto.
In sostanza, se il ruolo della cultura è spezzare il circolo vizioso della paura – che oggi può corrispondere agli investimenti da parte di aziende che stentano ad andare avanti o ai finanziamenti da parte dello Stato agli enti culturali – ripetiamocelo fino a crederci, perché la crisi è reale, ma usarla come pretesto per ridurre le offerte culturali di un Paese è sleale.