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SUL TAMBURO n.11: Sauro Albisani, “Orografie”

Creato il 11 gennaio 2016 da Retroguardia

Sauro Albisani, OrografieSauro Albisani, Orografie, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Firenze, Passigli, 2014

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di Giuseppe Panella

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La vita di ognuno si configura come una carta geografica, una mappa in cui sono segnalati i luoghi notevoli, i laghi, i fiumi, le montagne, le altezze significative che popolano le platitudes dell’esistenza. Anche la poesia aspira ad essere una cartografia delle passioni, degli scacchi, delle insofferenze e delle impossibilità della gloria che costituisce, nella miseria e nella gioia, la sostanza degli eventi che costellano ciò che inevitabilmente accade ogni giorno. Questa raccolta di liriche di Albisani, uscita a non molta distanza di tempo dalla Valle delle visioni1, cerca di rendere conto di questi dislivelli, di queste asperità, di queste impossibili riduzioni dell’esistenza a puro picco di ovvietà quotidiana senza che se ne debbano ricercare le cause profonde, i sogni inquietanti, le aspirazioni inconfondibili:

«Non so più perché volli / diventare un poeta. / Ricordo notti folli / di musica segreta. // La poesia cosa disse / a un’anima infelice? / mi sembrò che riaprisse / in me una cicatrice. // Vegliavo interrogando / l’ombra, e le sue forme. / Ora non chiedo più / e il mio poeta dorme»2.

Mi sembra che il punto centrale della proposta di Albisani sia proprio questa: come evitare di far “dormire” il poeta? E come evitare, invece, di riaprire la “cicatrice” (che inevitabilmente si produce nel corso della vita)? Può la poesia come modello esistenziale, come proposta vitale produrre questo risultato? Per Albisani probabilmente no ma senza disperare del tutto sui risultati, senza temere di arrivare in ritardo, senza evitare di giungere a qualche compromesso.

Scrive Giancarlo Pontiggia nella sua Nota introduttiva al libro che la novità linguistica di questo “nuovo corso” di Albisani è tale da poter parlare di uno sconvolgimento radicale delle prospettive d’esordio del poeta di Ronta del Mugello:

«Lo si era già avvertito nel libro di mezzo, La valle delle visioni, ma qui il fenomeno si dilata e si afferma con una radicalità impressionante, se si pensa alla grazia del libro d’esordio, dove la dolcezza delle forme e delle rime serviva a scongiurare la terribilità di certi pensieri. A ben guardare, è proprio l’impressionante getto di lingua nuova, deietta, gergale – più dei pensieri espressi, che in fondo covavano da sempre nell’animo di questo poeta perennemente diviso tra verità e innocenza – a rompere gli argini, tracimando oltre i bordi di componimenti che pure continuano a mantenere gli schemi formali e metrici di un tempo. Sono quelle rime nuove, in cui “scolastica” si abbina con “svastica”, “prof” con “fuck off”, “te” con “MP3”, “schifose” con “cose”. O ancor di più certe prove – ritmicamente impeccabili – come i quinari baciati di Vacanza, terribili proprio per l’ineludibilità degli enunciati»3.

Ma, nonostante la sostanziale verità di quanto Pontiggia enuncia (e come si potrebbe negarla?), l’uso di termini usualmente sguaiati o di sigle che rimano con altre parole del lessico quotidiano non è una novità sul piano formale né, a maggior ragione, dei contenuti. Le “rime nuove” non sarebbero nuove se non fossero il frutto di contenuti nuovi fatti emergere, quasi decantare da Albisani nel corso della sua ricerca. Il fatto è che la novità di Orografie è legata alla volontà del suo autore di rendere conto di ciò che la poesia a livello di comunicazione generazionale non ha più saputo dire a partire dalla rottura ermetica in poi (e che la neo-avanguardia spesso ha provato a dire non riuscendo o fallendo clamorosamente per eccesso di superbia nella qualità della sua proposta di totale rottura con la tradizione cui faceva riferimento e contrario).

Una prova possibile la si può trovare nei temi del libro piuttosto che nelle variazioni formali che essi gli suggeriscono e nella radicalità con cui sono espressi:

«NO GRAZIE. Ora di religione, mi torna in mente / Camus quando dice / gli uomini muoiono / e non sono felici. // La ragazzina / quella arrivata ieri / finisce di scrivere: / “ No grazie / io non lo voglio un tempo eterno”. // L’amica pendolare: / “Sbrigati o lo perdiamo. / Su, chiudi il quaderno”. // (andateci tutti / ma proprio tutti, / restateci per sempre // io sono il mio diario / io il mittente / io il destinatario)»4.

Neppure Albisani lo vuole “un tempo eterno” della sua poesia (l’aere perennius non gli interessa o almeno non lo invoca come molti dei poeti della sua generazione) ma propone (e dispone) una scrittura che non perda il tempo della sua realtà e della sua vita. Il “destinatario” gli interessa fino a un certo punto perché le sue parole resteranno lì, inchiodate “al piolo dell’attimo” (Nietzsche, Seconda inattuale) e proprio per questo motivo potranno rivelare la loro verità.

Il rifiuto della retorica nasconde, in questi testi, il desiderio di essere poeta a tempo pieno, di prendere tutto del reale e di trasformarlo in versi, di non rimanere rinchiuso in una stanza fatta di stereotipi o magari di ossimori perché la scrittura poetica consente di andare oltre di essi:

«L’UOVO KINDER. Abbiamo tutto a portata di mano / eppure c’è sempre quella maledetta fretta / che sciupa gli istanti perenni. / Cosa darei per rivedere piangere i miei figli / lacrime disperate, e il sorriso / della cassiera all’ultimo no / della mamma dopo l’ennesimo sì, / perché è necessario insegnare anche questo, // piangere un poco ogni giorno. // Stipavo tutti gli acquisti / in dei cartoni vuoti / di detersivi e di birra. / Avvicinatevi alle casse / diceva una voce, gelida, / né tollerante né ostile. / Fra tre minuti il magazzino chiude. / Cala il sipario, / mai più piangeranno così. / Capivo che non capivano / come si potesse avere la felicità a portata di mano / in quel paradiso terrestre / e doverci rinunciare. / Per sempre? »5.

In realtà, Albisani sa che al paradiso si rinuncia sempre quando è troppo a portata di masno. Bisogna spostarlo sempre più in là e lo stesso vale per la scrittura poetica.

La poesia, nella terra desolata in cui viviamo (e per questo citata dall’autore), è un uovo Kinder che nasconde una sorpresa (bella o brutta non è dato saperlo) per grandi e piccini – una sorpresa che è il senso di tutta una vita.


NOTE

1 Firenze, Passigli, 2012.

2 S. ALBISANI, Orografie, prefazione di G. Pontiggia, Firenze, Passigli, 2014, p. 30.

3 S. ALBISANI, Orografie cit. , p. 8.

4 S. ALBISANI, Orografie cit. , p. 72.

5 S. ALBISANI, Orografie cit. , p. 92.

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