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SUL TAMBURO n.8: Costanza Geddes da Filicaia, “Dura Lex sed Dura”

Creato il 12 ottobre 2015 da Retroguardia

Costanza Geddes da Filicaia, Dura Lex sed DuraCostanza Geddes da Filicaia, Dura Lex sed Dura. Parodie di uomini di legge in letteratura italiana, Firenze, Nicomp Editrice, 2015

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di Giuseppe Panella

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La dizione esatta sarebbe, ovviamente, Dura Lex sed Lex ad indicare la necessità di rispettare la legge stabilita e vigente anche in presenza di molte attenuanti per chi ne è l’oggetto e soprattutto se le sue pratiche punitive possono sembrare disumane e impossibili da accettare e applicare. La capacità di far funzionare la legge e di farla rispettare equanimemente dovrebbe, infatti, permettere a ogni consorzio civile stabilito di vivere tranquillamente nelle proprie occorrenze quotidiane e di stabilire, di conseguenza, regole consolidate e accettate da tutti.

Ma altrettanto ovviamente non è così. La letteratura, vista come un osservatorio privilegiato delle storture della vita umana e dell’imbecillità in essa predominante, contiene innumerevoli momenti significativi di scontro tra il buon senso e l’esercizio della giustizia e molte esemplificazioni rappresentative del cattivo esercizio del modo in cui essa viene applicata.

Aggirare le leggi, deridere i giudici, farsi beffe delle vittime a favore degli offensori è quanto è accaduto in moltissime occasioni nel corso delle vicende storiche e la letteratura riesce, con le armi ad esse specifiche della satira e del sarcasmo, a mettere in scena ciò che è accaduto senza ricorrere al moralismo spicciolo della condanna generica o qualunquistica.

Costanza Geddes da Filicaia seleziona con garbo innato e finezza critica una serie di episodi di “malagiustizia” ricavati dalla letteratura italiana a partire dal Decameron di Boccaccio per concludere (credo provvisoriamente) con Il podere di Federigo Tozzi, scandendo nel tempo della storia gli esempi più interessanti di parodia della giustizia e di critica corrosiva nei confronti degli abusi che la sua cattiva amministrazione ha comportato (e comporta ancora).

Tutti uomini peraltro risultano i cattivi amministratori della giustizia (la prima iscrizione di donne-avvocato all’Albo della loro professione risale soltanto al 1919 e la prima donna-notaio, Adelina Pontecorvo, risulta operante solo nel 1930) e tutti caratterizzati, nelle opere letterarie che li concernono e che sono analizzati nel libro, da una deformazione parodica che li rende emblematici del loro ruolo negativo nell’ambito di ciò che dovrebbero salvaguardare e proteggere con il loro operato. Il libro di Costanza Geddes da Filicaia, infatti, non si propone di analizzare tutte (o gran parte) le figure di uomini di legge presenti nella letteratura italiana ma solo le loro caricature e rappresentazioni parodistiche (e anche in questo modo la campionatura risulta più che cospicua).

Partendo dalla confessione mendace e sacrilega di ser Ciappelletto notaio pratese (giornata I, 1), dell’episodio di messer Riccardo di Chinzica (giornata II, 10) e del giudice marchigiano cui tre giovani “traggono le brache”(giornata VIII, 5) ben noti ai lettori del Decameron e continuando con la beffa commessa nei confronti di un dottore in legge contenuta nel Novellino di Masuccio Salernitano, la studiosa fiorentina approda a quel trionfo di critica della stupidità umana che è contenuto nella Mandragola di Niccolò Machiavelli. Non a caso, messer Nicia, il marito di Lucrezia poi reso becco dal giovane suo innamorato Callimaco, è uomo di legge e si vanta delle proprie ampie conoscenze forensi. Anche la vicenda del giudice di Lucca protagonista di una celebre novella di Matteo Bandello in cui la seduzione da parte sua di una giovane donna (che era stata innamorata di lui in giovinezza ma era poi stata costretta a sposare un uomo assai più vecchio) si risolve nell’imprigionamento successivo per il marito di lei rappresenta – ma ai fini del trionfo dell’amore stavolta – un’espressione della utilizzabilità della legge a fini personali. Ciò che risulta parodizzata è la procedura legale che viene adottata in base all’arbitrio esercitato dal giudice innamorato Bonaccorsio. Anche il pessimo leguleio dottor Buonatesta che imperversa in Il cavaliere e la dama di Carlo Goldoni (una commedia del 1749) mette in scena i difetti di un’amministrazione sbagliata e fraudolenta della giustizia – una questione che il commediografo veneziano ben conosceva avendo provato ad esercitare l’avvocatura per ben tre anni. Buonatesta froda del giusto donna Eleonora fingendo di proteggere i suoi interessi e solo l’intervento del leale e molto innamorato don Rodrigo gli permetterà di rientrare in possesso di ciò che gli è dovuto.

Ma la figura che più compiutamente rappresenta l’ignavia e la malafede in campo legale è certamente l’Azzeccagarbugli dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Il suo personaggio è diventato il simbolo della legge “forte con i deboli e debole con i forti” e della prevaricazione assurta ad esercizio di potere. L’avvocato prono ai capricci del signorotto locale e sempre solidale con il più potente acquista carattere di simbolo di una condizione umana diffusa e consolidata nel tempo. Il suo nome e la sua condotta sono quelle che maggiormente allegorizzano la gestione iniqua e diseguale di una giustizia pronta a opprimere i poveri ed esaltare i ricchi.

Ma anche il giudice-gorilla di Le avventure di Pinocchio di Collodi che condanna chi ha ragione e premia chi ha torto non è da meno nella sua plastica perentorietà. Allo stesso modo, in “Un processo”, novella verghiana contenuta in Vagabondaggio del 1887, viene descritto con meticoloso e oggettivo rigore l’elemento di disumana morbosità che si ritrova imperante nelle aule di tribunale in occasione di processi legati a clamorosi fatti di sangue come quello che costituisce l’occasione della vicenda (l’uccisione del giovane cliente di una vecchia prostituta, Malerba, da parte del suo mezzano Malannata per motivi di gelosia morbosa e di paura dell’abbandono).

Se La patente di Luigi Pirandello, una novella del 1911 come trasformata in atto unico nel 1917, è fin troppo nota per aver bisogno di essere riassunta (l’aspirazione di Rosario Chiàrcaro a ricevere ufficialmente da un tribunale la patente di “iettatore” dopo che tale nomea lo ha reso miserabile e temuto dai suoi concittadini), la satira della professione forense contenuta nel Giornalino di Gian Burrasca di Vamba è palese nell’incitamento del ragazzino a dire tutta la verità rivolta al testimone Gosto grullo durante una causa patrocinata dall’avvocato Maralli suo cognato. Il legale perderà la causa e Giannino riceverà una severa punizione corporale per aver evitato che il contadino da lui incitato a essere sincero mentisse in tribunale. Anche Remigio Selmi, il protagonista del Podere di Federigo Tozzi del 1918, è vittima di avvocati e notai che approfitteranno del suo stato di abulica inettitudine per portarlo prima alla rovina e poi alla morte per mano del suo salariato Berto (che l’ucciderà con un’accetta).

La legge come forma di prevaricazione e di trionfo della stupidità predomina in tutti i testi letterari raccolti e ottimamente antologizzati da Costanza Geddes da Filicaia – un topos fin troppo presente anche nelle coscienze comuni e che la scrittura letteraria ha esaltato e reso consapevolezza della costante idiozia (e barbarie) del Potere come espressione di un dominio di cui non riesce comunque a vedere la fine.

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