Sul tradurre/9. Daniele Del Giudice e la traduzione come atto dello scrivere

Da Silviapare
«La traduzione non è un servizio, né un trasferimento da una lingua all'altra. È un atto dello scrivere. La traduzione è una forma propria della scrittura. Nel caso della traduzione narrativa, si tratterà di scrivere un romanzo o un racconto. Che cos'ha di specifico questa scrittura: 1) il fatto che la storia esiste già; 2) il fatto che anche le parole esistono già; 3) il fatto che ogni traduzione è suscettibile di miglioramento, di adeguamento, di ulteriore traduzione, mentre il testo originale, salvo scoperte filologiche di varianti o versioni o parti mancanti o aggiunte, e di conseguenza di edizioni critiche, resta bloccato e definito nella sua forma ultima all'epoca in cui è stato scritto e come tale per sempre. Ma non basta: le prime due condizioni di fatto potrebbero appartenere a un'altra forma ancora, quella della "riscrittura". (...) Si tratta invece, nella forma della traduzione - e questo è veramente un compito difficile - di riscrivere un romanzo o un racconto come sono stati già scritti, parola dopo parola, evento dopo evento. Da un certo punto di vista è davvero una forma estrema la traduzione: anzi è l'estremo ed esatto contrario della "pagina bianca", la pagina vuota, incipit per ogni scrittore dell'originale; ma per lo scrittore della forma traduttiva il punto di partenza è invece la pagina nera, la "pagina piena" di caratteri, già stampata in ogni suo segno, in ogni suo rigo, e questo è l'incipit, il passo iniziale di ogni traduttore. Laddove, per lo scrittore dell'originale, l'incipit è appunto la pagina vuota.»
Daniele Del Giudice, da In questa luce © 2013 Einaudi Editore, Torino

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